II. Frantumazione e ricostruzione di una nazione 2.1 Verso il colpo di stato militare del 1973.
3.1. La prima fase della transizione 1 : dal plebiscito all’elezione di Aylwin.
3.1.1 Il trionfo del No. L’inizio della fine.
Inizialmente concesso come rito formale2, il plebiscito era ritenuto uno strumento per legittimare ancora una volta il potere3 del regime, tuttavia l’appello alle urne si trasformò ben presto in qualcosa di più significativo4. La Giunta non tenne conto del nuovo contesto in cui si stava svolgendo la votazione. La crisi economica del 1982- 1983 aveva trascinato con sé un’apertura politica irreversibile. A partire da quel momento, i partiti e le organizzazioni sociali erano divenuti gli attori principali del
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Il concetto di transizione è stato oggetto di numerose polemiche e caricato spesso di un significato politico inappropriato. Alcuni studiosi ritenevano che una vera transizione non si sarebbe potuta portare a termine fin tanto che anche l’ultima vestigia del regime e della sua «democrazia protetta» non fosse stata eliminata. Elementi posti in discussione rimanevano ad esempio il persistere di un’eccessiva autonomia militare rispetto al potere politico, la presenza di un Consiglio di Sicurezza Nazionale ancora molto influente, il perdurare di senatori designati anziché eletti. Di visione completamente opposta era la posizione della destra, la quale riteneva come termine finale della transizione il passaggio di potere dal regime al presidente Aylwin e l’elezione del nuovo Congresso. Un visione questa che non ammetteva cambi o innovazioni a livello di politica e società. In maniera più appropriata si presentava una terza visione, la transizione sarebbe terminata nel momento in cui fosse scomparso del tutto il rischio di una nuova appropriazione autoritaria del potere. Certamente questo non era pensabile nei giorni successivi l’ 11 marzo 1990. Fin da subito dunque risultò chiaro che il Cile avrebbe attraversato diversi anni transitori per la costruzione del precario edificio democratico. E. Boeninger, Democracia en Chile: lecciones para
la gobernabilidad, Santiago de Chile, Editorial Andres Bello, 1997, p. 372. 2Ivi, pp. 320- 350.
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In vista del plebiscito, in seno al governo nacque il problema di chi eleggere come plausibile candidato nelle future elezioni, candidato che poi avrebbe dovuto essere in grado di governare il paese fino al 1998. I comandanti in capo erano concordi nel ritenere la figura di Pinochet ormai debilitata. Sia l’ufficiale dell’Aereonautica Matthei sia il partito dell’ Unión Nacional mostrarono chiara preferenza per la scelta di un candidato civile. Inizialmente Pinochet perseguì in maniera ferrea la sua intenzione di autocandidarsi, convinto ancora di avere la vittoria in mano. Nonostante le pretese del generale incontrassero opposizione all’interno del regime, Pinochet ottenne la candidatura. Invano la Unión Nacional, poi diventata
Renovación Nacional, cercò di sottolineare che un’ eventuale sconfitta di Pinochet avrebbe significato
una sconfitta dell’intero apparato delle forze armate. Un rischio che quest’ultime non potevano permettersi. A. Cavallo, La historia oculta del régimen militar, Santiago de Chile, Editorial Antártida, 1989, p. 181.
4 Nel momento in cui si chiusero le iscrizioni nei registri elettorali, circa un mese prima del plebiscito, si
constatò che circa sette milioni di cileni si erano iscritti per poter votare, equivaleva al 92 % degli aventi diritto. A. Angel, Democracy after Pinochet: Politics, Parties and Elections in Chile, London, Institute for Latin American Studies, 2007, p. 72.
44 cambiamento e si erano radicati profondamente nella società. Inoltre oramai si era sollevata una protesta internazionale contro la violazione dei diritti umani e contro le repressioni che avevano investito il paese negli ultimi anni, protesta che aveva condotto il paese a un isolamento. In aggiunta centrali furono le nuove rivendicazioni sorte nella stessa destra, seppur in maniera minoritaria, che reclamavano maggior democrazia. Infine l’opposizione si era definitivamente sviluppata tanto da contrapporsi in maniera netta al regime. Il plebiscito del 5 ottobre 1988 prevedeva la scelta Sì, che avrebbe significato continuità, in alternativa No come decisione di stabilire i termini ultimi della dittatura. Questa dicotomia Sì-No fu un punto di forza per l’opposizione. Ai votanti risultava chiaro il dilemma dittatura-democrazia. Si stava chiedendo ai cittadini se fossero ancora determinati a proseguire con il medesimo regime che li aveva governati per 15 anni, anni di restrizioni autoritarie e di un comando assoluto. Se invece di un plebiscito fossero state indette elezioni libere sarebbe stato sicuramente più difficile per l’opposizione presentarsi coesa, concordare un programma e un soprattutto nominare un candidato condiviso. Dal primo al cinque di ottobre si disputò la campagna elettorale con un’immensa propaganda televisiva, regolamentata da una legge che prevedeva la suddivisione di orari per il due comitati, il fronte del Sì aveva accesso a tutta la fascia oraria diurna, mentre i sostenitori del No erano relegati a orari estremamente tardivi. Il fronte del Sì puntò su una campagna che aveva come scopo intimorire i cittadini riguardo a un “ritorno dei marxisti”, al ritorno del caos, insistentemente veniva associata la democrazia al disordine e alla disorganizzazione. Il fantasma dell’Unità Popolare era il protagonista della pubblicità governativa. Fin dall’inizio la pubblicità del Sì si focalizzò sul ripristino dell’ordine e la sicurezza e Pinochet divenne figura di benefattore e di protettore. Tuttavia la società cilena era profondamente cambiata rispetto agli anni Settanta e ciò che più desiderava era evitare qualsiasi conflitto, rifiutava il passato ma con uno sguardo rivolto al futuro, la società reclamava cambiamenti, in essa predominava un’ansia di pace e questo fu intuito dal fronte del No che ne fece lo slogan della propria campagna, “ La alegría ya viene”. Il comitato del No si avvalse delle migliori agenzie pubblicitarie del paese e dell’aiuto di figure e associazioni straniere5, focalizzandosi su una qualità artistica, un’aria giovanile e un
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Tra le associazioni straniere ricordiamo in special modo il National Democratic Institute (NDI) con sede negli Stati Uniti così come il National Endowment for Democracy (NDE). Se negli anni Settanta gli Stati Uniti erano intervenuti affinché si accelerasse la caduta del governo di Unità Popolare, durante il plebiscito del 1988 la loro posizione si era capovolta. Il cambio di posizione fu dovuto al differente contesto internazionale, la conclusione della Guerra Fredda era alle porte, l’attenzione primaria degli Stati Uniti alla sicurezza nazionale, che li aveva portati a sostenere qualsiasi governo dittatoriale e repressivo
45 linguaggio moderato che si differenziò profondamente dal messaggio di odio e terrore del fronte opposto. Il messaggio doveva essere positivo e soprattutto costruttivo in vista un futuro differente. Al contrario di quanto avesse previsto la Giunta, con moderazione furono trattati i temi delle violazioni dei diritti umani e della repressione. Dopo soli pochi giorni era già evidente la superiorità e la qualità della campagna del No: migliore era la costruzione degli argomenti, dei filmati e in ultimo anche della stessa melodia, grazie al jingle caratteristico facilmente ricordabile, tanto da sentirlo nei luoghi più disparati del paese.
3.1.2. Verso le elezioni.
Il trionfo del No rappresentò in primo luogo il rifiuto del prolungamento del regime del generale Augusto Pinochet per altri 8 anni e in seconda istanza fu la consegna di piena fiducia alla Concertación de Partidos por el No, divenuta Concertación de Partidos por la Democracia6, affinché portasse avanti le elezioni parlamentari fissate per il 14 dicembre 1989. Dopo la sconfitta del regime, Pinochet abbandonò la presidenza. Migliaia furono le vittime del regime tra gli uccisi e i desaparecidos e quasi trentamila persone incarcerate7. Da quel momento il paese intraprese una nuova tappa della sua storia8. Iniziarono le trattative sia tra le varie forze dell’opposizione in vista delle imminenti elezioni, sia tra la Giunta e quest’ultime. Un ampio settore del governo, rappresentato dal nuovo ministro dell’Interno Carlos Cáceres, che sostituì Sergio Fernández, sosteneva che fosse necessario instaurare un dialogo con la Concertación per giungere a concordare delle riforme costituzionali. Il governo voleva assicurarsi che
che avesse contrastato il comunismo, si era trasformata in una dottrina di promozione e di rispetto dei diritti umani. In un clima dove l’antimarxismo non aveva più giustificazione, il governo di Pinochet risultava anacronistico nella regione. Dunque così come Nixon si era adoperato attivamente per la caduta di Allende, nel periodo del plebiscito l’Ambasciatore statunitense in Cile, Harry Barnes, si convertì in stretto alleato dell’opposizione in prospettiva di un ritorno alla democrazia. A. Alaminos, Chile:
transición política y sociedad, Madrid, Siglo XXI España editores, 1991, p. 80; A. Angel, op. cit., p. 123. 6
Per quanto si presentasse come blocco politico compatto, la Concertación non fu esente da contrasti interni, tuttavia per esigenze politiche primeggiò lo sforzo all’unità. Le differenze erano fisiologiche data la profonda diversità dei partiti che la componevano e dati i diversi progetti che ogni partito si proponeva, soprattutto tra Partito Socialista e il Partito della Democrazia Cristiana. Il Partito Socialista poneva enfasi sull’intervento nel ambito sociale, tendenza che verrà poi ripresa da i governi di Ricardo Lagos e di Michelle Bachelet, mentre la Democrazia Cristiana cercava di scendere a compromessi tra esigenze sociali ed esigenze economiche, come dimostrato dai governi di Patricio Aylwin e di Frei Ruiz-Tagle, durante i quali la ricostruzione democratica avvenne dentro il marchio del modello neoliberale di sviluppo economico. E. Ortega Frei, Historia de una alianza política: el Partido Socialista de Chile y el Partido
Demócrata Cristiano, Santiago de Chile, CED, 1992, passim, C. Bascuñan Edwards, La izquierda sin Allende, Santiago de Chile, Planeta, 1990, passim.
7 V. Castronovo, op. cit., p.220., M.R. Stabili, Le verità ufficiali: transizioni politiche e diritti umani in America Latina, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2010, p.300-307.
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G. Arriagada, Por la Razón o por la fuerza: Chile bajo Pinochet, Santiago de Chile, Editorial Sudamerica, 1998, pp. 265-275.
46 coloro che fossero andati al potere rispettassero determinate disposizioni della Carta Fondamentale e preservassero alcuni articoli ritenuti fondamentali, soprattutto quelli che regolamentavano l’economia di mercato. La volontà prevalente tra i vari partiti era di dare avvio a un processo di transizione pacifico e condiviso, cercando di rispettare l’Accordo firmato nel 1985 che proponeva una riforma costituzionale. In quest’ ottica l’opposizione più moderata si accordò anche con i partiti di destra quali Renovación Nacional (RN) e la Unión Democratica Independiente (UDI). Venne concordato che la transizione non avrebbe alterato le linee portati della politica economica fino ad allora messe in atto. Dopo vari mesi di trattative, nel luglio 1990 vennero sottoposti a plebiscito alcuni emendamenti costituzionali, che ottennero l’approvazione dalla maggioranza dei partiti. Le coalizioni che si presentarono alle elezioni che avrebbero designato il nuovo presidente e al contempo il nuovo Parlamento, erano la Concertación por la Democracia, o così detta Concertación9, che concorreva con il candidato Patricio Aylwin10, riuniva i partiti di sinistra anche di estrema sinistra come il PAIS. Per il centro-destra scese in campo, esortato da Pinochet, Hernán Büchi11, con la coalizione Democrazia e Progresso12. Tra i candidati ve ne era un terzo, Francisco J. Errázuriz, noto imprenditore, che si candidò come indipendente13. Per la candidatura presidenziale
9 La Concertazione riuniva partiti molto diversi tra loro. In vista delle elezioni di fatto sorsero discussioni
concernenti la composizione della futura coalizione del governo. Due erano le opzioni avanzate, una coalizione più ristretta, la « coalición chica», composta dalla Democrazia Cristiana e partiti centristi, o in alternativa una coalizione più ampia, la «coalición amplia» che integrava tutti i partiti che avevano preso parte alla Concentrazione plebiscitaria. La scelta ricadde su quest’ultima, anche grazie alla candidatura di Aylwin che riuscì a sintetizzare le varie istanze provenienti dai diversi partiti. E. Ortega, C. Moreno (a cura di), ¿ La Concertación desconcertada?: reflexiones sobre su historia y su futuro, [interviste a] Patricio Aylwin...[et.al], Santiago de Chile, LOM ediciones, 2002, pp.127-130.
10 Le abilità politiche di Patricio Aylwin vennero definitivamente consacrate durante la campagna
plebiscitaria, la sua figura divenne il profilo ideale di candidato presidenziale. La stessa DC acconsentì alla designazione di quest’ultimo in quanto sua migliore opzione per aspirare alla Presidenza della Repubblica. Nella scelta di Aylwin influirono sicuramente la sua capacità personale di leadership e la sua immagine di figura moderata che racchiudeva in sé un grande consenso. Questo era necessario per assicurare unità e coesione dentro la coalizione. Ibidem.
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Il 6 ottobre già risultò chiaro, che nonostante Pinochet godesse ancora di un appoggio considerevole, una maggioranza della popolazione si era schierata contro. Dunque sarebbe stato un azzardo proporre come candidato appoggiato dal regime il generale. Una volta scartato il leader che governava da anni, la ricerca di un candidato idoneo si trasformò in un processo difficile per la Giunta, che si vide spaccata al suo interno. Gli economisti governativi furono coloro che maggiormente sospinsero affinché venisse designato un candidato in grado di preservare gli obiettivi economici raggiunti. Dopo diverse consultazioni venne fatto il nome di Büchi, che venne avvallato da Pinochet. Abile ministro ed espressione fedele del modello economico. E. Boeninger, op. cit., p. 341.
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Democracia y Progreso divenne nel 1993 Unione per il Progresso del Cile. Fin dalle elezioni del 1990 resterà all’opposizione durante tutti i governi della Concertación. Nelle ultime elezioni presidenziali, che hanno rinnovato la vittoria di Michelle Bachelet, si era presentato con la candidata Evelyn Matthei.
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Questo candidato in realtà rappresentava una parte della classe imprenditoriale e dell’élite cilena, nonché una parte della destra tradizionale, che si stava contrapponendo al regime e ai candidati da esso proposti o appoggiati. M. R Stabili, Il Cile. Dalla Repubblica Liberale (...), cit., p. 214.
47 l’opposizione intera si era unità per supportare Aylwin, che vinse con il 54 % dei voti14
. Invece la maggioranza nelle elezioni parlamentari fu raggiunta dalla destra nel Senato e dai democratici nella Camera dei Deputati. Il partito che emerse come nuova forza politica fu la Democrazia Cristiana15, mentre una dura sconfitta dovette accettare il Partito Comunista che a mala pena arrivò a far eleggere due deputati nel Congresso16. A partire da queste elezioni, nonostante le difficoltà interne, si succedettero quattro governi della Concertación, il primo fu quello di Aylwin (1990-1994), seguito Eduardo Frei Ruiz-Tagle (1994-2000), Ricardo Lagos Escobar (2000-2006) e Michelle Bachelet Jeria (2006-2010). I quattro governi ebbero come connotato un riformismo gradualista che cercava di coniugare politiche di libero mercato con politiche sociali, governabilità e riconciliazione nazionale, democrazia e pluralismo, progresso e pragmatismo, inclusione e integrazione.
3.1.3 La riforma costituzionale del 1989.
La Costituzione durante il tramonto del regime mostrò la sua vera natura, ovvero si mostrò come un insieme di norme articolate e costruite in base alle esigenze di quest’ultimo. Tuttavia la forma di neo-presidenzialismo voluta da Pinochet negli anni precedenti, dopo la sconfitta del 1988 sarebbe potuta divenire un pericolo per il vecchio regime in mano a un nuovo presidente sostenitore del No. Prontamente il generale e i suoi collaboratori provvidero a modificare gli articoli17, smantellando il potere presidenziale e rinforzando il potere del Parlamento, stabilendo una maggior grado di autonomia del potere giudiziario e delle stesse forze armate. In questo contesto la forma plebiscitaria divenne l’unica alternativa possibile per avvallare le modifiche poiché una riforma costituzionale via parlamentare, date le disposizioni del testo fondamentale riguardo ai quorum, sarebbe stata difficile da intraprendere. Il ministro dell’Interno, Sergio Fernández, e il partito della Unión Demócrata Independiente (UDI) si opposero a un eventuale riforma costituzionale, ma dovettero sottomettersi alla volontà ferrea
14 Hernán Büchi ottenne il 28 % dei suffragi mentre il terzo candidato arrivò al 15 %. Ibidem. 1515
La Democrazia Cristiana, nel caos partitico pre e post plebiscito, seppe rimodellarsi e riformularsi, anche attraverso un dibattito interno, tanto da divenire il partito leader della transizione. Questo partito riteneva fondamentale che al regime militare succedesse un democrazia stabile e ordinata, che soprattutto non riproducesse la polarizzazione che aveva caratterizzato la politica durante il governo di Allende. Iniziò inoltre a farsi portavoce della difesa dei diritti umani con la conseguente possibilità di ricorrere alla giustizia. In vista delle elezioni all’interno del Partito venne stilato un documento in cui si sottolineava l’importanza di elezioni libere e aperte del Presidente della Repubblica e della totalità del Congresso, oltre a un ripristino completo delle libertà politiche, di stampa e d’opinione. Auspicava un controllo per lo svolgimento di corrette elezioni. E. Boeninger, op. cit., p. 329.
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M.R Stabili, op. cit., p. 214.
48 della giunta di governo e del partito Renovación Nacional di procedere. La controversia si risolse con il cambio di ministro dell’Interno, Fernández fu sostituito con Carlos Cáceres. Mentre Pinochet si dichiarava contrario a modifiche radicali, la Democrazia Cristiana, cercando di superare i vari disaccordi con il generale, nominò una commissione tecnica. Inoltre Cáceres convocò delle sedute con la Concertación, RN e UDI affinché potessero giungere a un accordo consensuale. Impiegarono tempo le varie forze politiche nel trovare un compromesso conforme alle differenti proposte avanzate. Solo dopo una prolungata negoziazione, a fine maggio la Giunta presentò il progetto di riforma che venne poi sottomesso a plebiscito il 30 giugno 1989. La riforma venne approvata con l’85,7 % dei voti e si convertì in legge nel luglio dello stesso anno. Principalmente venne diminuito il potere del presidente della Repubblica, che si vide sottratta la facoltà di scioglimento della Camera dei Deputati durante il mandato presidenziale, diminuito il potere co-legislativo in capo al potere esecutivo. Inoltre il mandato presidenziale fu ridotto da otto a quattro anni, fu ristretta la sua capacità nel proclamare lo stato di emergenza e infine al presidente della Repubblica non spettavano più le nomine degli ufficiali delle forze armate. Mentre il Parlamento acquisì maggior potere18: aumentò il numero di senatori eletti che da otto passarono a trentotto, diminuendo così il numero dei senatori designati. Fu finalmente abrogata la disposizione che prevedeva per materie di rilevata importanza l’approvazione in due legislature diverse e consecutive. Venne anche eliminata la clausola che prevedeva la cessazione del mandato per quei deputati o senatori che avevano presentato una mozione o un emendamento poi dichiarato incostituzionale da parte del Tribunale Costituzionale. Anche il ruolo delle forze armate venne ridimensionato: dentro il Consiglio Nazionale della Sicurezza vennero installati membri civili di pari numero ai membri militari. Infine quest’organo divenne meramente consultivo e il suo parere cessò di essere vincolante per le istituzioni statali, al contrario precedentemente rappresentava categoricamente l’opinione del Presidente. La nuova Costituzione prevedeva inoltre una parte che nella precedente era stata omessa, una capitolo sui diritti politici dei cittadini. L’articolo 8, che condannava all’illegalità tutti i gruppi o partiti che propagassero dottrine lesive per la famiglia, che propugnassero la violenza, o che avessero una concezione dello Stato e dell’ordine giuridico totalitaria o fondata sulla lotta di classe, venne finalmente derogato. In cambio si dispose una normativa che garantì una libera espressione delle idee e di associazione. Rimanevano comunque
49 sanzionabili, attraverso il Tribunale Costituzionale, quei partiti che con i propri atti, condotte o obiettivi ledessero i principi democratici della Costituzione. I trattati riguardanti i diritti umani firmati dal Cile furono inseriti nella Costituzione divenendo così legge fondamentale dello Stato. In sintesi, il regime uscente si premunì strategicamente, per quanto gli fu possibile, di preservare il modello di «democrazia protetta», cercando di assicurarsi una maggioranza parlamentare in base anche a una nuova legge elettorale promulgata e soprattutto concedendo piena autonomia alle forze armate. La strategia dei militari, definita anche come «ritiro ordinato»19, aveva un carattere difensivo e aveva lo scopo di evitare di sottoporre a giudizio i militari per le violazioni dei diritti umani o ancor più evitare qualsiasi forma di condanna collettiva o responsabilità dell’intero apparato delle forze armate. In maniera astuta riuscirono a rendere l’ormai inevitabile passaggio di consegna al nuovo governo non un effettivo passaggio di potere. Una riforma costituzionale preventiva fu conveniente non solo per i militari bensì anche per le forze della Concertación. Poiché quest’ultima necessitava assumere il potere nel marchio della legittimità e aveva bisogno di istituzioni che le assicurassero una governabilità duratura, ciò doveva avvenire all’interno di uno Stato di