La trasparenza come mezzo di anticorruzione
1. Prima della legge n.190 del 2012.
Dopo la riforma Brunetta, la trasparenza assume ulteriori connotati: la visibilità amministrativa, che deve essere garantita, non ha più solo un fine informativo e, quindi, non è più limitata all'accesso totale alle informazioni, ma diventa uno strumento di intervento. La trasparenza assicura la conoscenza e la conoscenza viene utilizzata come mezzo per individuare i fenomeni di corruzione e per contrastarli. La storia dimostra che la corruzione è sempre esistita: “Affaristi, uomini politici poco scrupolosi e poco dignitosi, amministratori fraudolenti, impiegati infedeli o venali, e piccole e grosse rapine, sono cose di tutti i tempi e di tutti i paesi, e in certi tempi e in certi paesi, per effetto di talune circostanze, si addensano e scoppiano in modo grave”65. Così Benedetto Croce descriveva lo scandalo della Banca romana, avvenuto alla fine dell'Ottocento. Da queste parole si capisce che il fenomeno della corruzione non si verifica solo in alcuni momenti, ma caratterizza da sempre lo svolgimento delle funzioni pubbliche. Può essere una conseguenza dello sviluppo, ma, poi, si configura come un ostacolo allo stesso visto che riduce la competitività. Secondo le statistiche, una delle cause principali di debolezza nel nostro settore pubblico dipende dal personale che non segue le regole di condotta: chi svolge una funzione pubblica ha dei doveri particolari enunciati anche dalla Costituzione. In base all'articolo 54 di quest'ultima, “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le
leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle, con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Quindi, si nota che i funzionari hanno dei doveri in più rispetto ai cittadini. Secondo l'articolo 98, poi, i dipendenti pubblici devono essere imparziali, cioè indipendenti: infatti, a differenza dei politici, che vengono scelti in base alla loro visione di parte, accedono ai loro incarichi attraverso un concorso. Il fenomeno della corruzione, perciò, non si può eliminare, ma si può contenere mediante la repressione o la prevenzione. La prima strategia prevede l'applicazione di norme penali e, infatti, il Codice penale dedica un titolo ai delitti contro la pubblica amministrazione. La seconda, invece, cerca di scovare e rimuovere le cause del malcostume. Il metodo repressivo è stato adottato nella prima metà degli anni Novanta: si sono condotti numerosi processi che sono sfociati in altrettante condanne, ma i reati di corruzione non sono diminuiti e questo ha dimostrato che una politica di anticorruzione non si può basare solo su indagini e sanzioni. Si sono cercate, allora, varie soluzioni. Nel 2003, ad esempio, è stato istituito l'Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito nella pubblica amministrazione: era un'autorità, operante dal 2005 e, ormai, soppressa nel 2008, senza poteri per evitare che si sovrapponesse ad altri organi amministrativi e giurisdizionali; si limitava, dunque, a svolgere indagini e a comunicarne i risultati alle autorità giudiziarie o amministrative. In realtà, il primo approccio ai rimedi preventivi è avvenuto verso la metà degli anni Novanta e tali ricerche sono riportate in due rapporti di commissioni di studio, nei lavori di una commissione parlamentare ad hoc e in varie proposte di legge.
Nel primo rapporto, cioè quello del Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione, nominato nel 1996 dal Presidente della Camera dei deputati e presieduto da Sabino Cassese, si
individuavano alcuni fattori della corruzione e si proponevano dei possibili rimedi. Il secondo rapporto, ossia quello della Commissione nominata dal Ministro per la funzione pubblica, si concentrava, invece, sulle disfunzioni amministrative, generatrici di corruzione, e indicava come soluzione, non una legge generale anticorruzione, ma interventi mirati.
Alla commissione parlamentare, infine, fu affidato l'esame dei progetti di legge sia preventivi sia repressivi e, di questi, ne fu approvato uno solo, cioè quello sui rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare.
L'analisi più completa è emersa dal primo rapporto, cioè dal Comitato di studio presieduto da Sabino Cassese nel 1996: tale rapporto si concentrava sulla disciplina del finanziamento dell'attività politica, sul conflitto di interessi, sulle nomine politiche e sui codici di comportamento. Sosteneva, poi, che la prevenzione della corruzione si basa anche sulla riduzione del differenziale retributivo tra settore pubblico e privato. Secondo il Comitato, però, era necessario valorizzare i dipendenti pubblici, non solo mediante le retribuzioni, ma anche agevolandone la mobilità geografica in modo tale da ridurre i condizionamenti ambientali e da evitare pratiche collusive. Si sottolineava, poi, che il malcostume è generato anche dall'assunzione di collaboratori e consulenti senza concorso: tale modalità elude l'articolo 97 della Costituzione. Il rapporto, inoltre, faceva riferimento all'inefficienza dei controlli, dovuta anche alla presenza di società private, investite di funzioni pubbliche: queste, in quanto, appunto, private, sfuggono alle norme pubblicistiche. Infine, secondo il Comitato, sarebbe stato necessario porre un ordine all'attuale assetto normativo che creava molte incertezze. La soluzione, perciò, veniva individuata nella semplificazione del quadro delle norme attraverso delegificazioni e codificazioni delle norme in vigore.
In conclusione, emerge, quindi, che la corruzione di solito viene percepita come un problema di disonestà personale dei singoli, ma in realtà tali comportamenti spesso dipendono dalle condizioni in cui gli stessi operano. Quindi, per frenare la disonestà degli stessi singoli, bisogna far funzionare le istituzioni attraverso riforme politiche e amministrative.66