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La tutela del whistleblower, cioè del dipendente pubblico che segnala illeciti.

La trasparenza come mezzo di anticorruzione

8. La tutela del whistleblower, cioè del dipendente pubblico che segnala illeciti.

La legge n. 190 del 2012 si occupa anche del “whistleblowing”. Tale fenomeno è stato trattato soprattutto dalla legislazione anglosassone: infatti, il termine fa riferimento proprio al poliziotto da strada inglese che suona il fischietto (appunto: blowing the whistle), quando percepisce la commissione di un'attività criminosa. Nello specifico, il poliziotto in questione coincide con il dipendente pubblico: il comma 51 dell'articolo 1 della legge n. 190 introduce nel decreto n. 165 del 2001 il nuovo articolo 54-bis, che è rubricato proprio “tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”. Si è cercato, così, di porre fine ai meccanismi di omertà che nascono da una sorta di solidarietà tra colleghi: questi ultimi, anche se non hanno alcun interesse al rapporto illegale, tendono a non segnalare le loro conoscenze sugli illeciti altrui anche per evitare di subire atti discriminatori. Nei paesi di common law, infatti, la normativa è nata proprio per tutelare il segnalante da atti di ritorsione come il licenziamento. Va in questa direzione il Public interest disclousure act, emanato nel Regno Unito nel 1998: oltre ai delitti, il lavoratore, sia del settore pubblico sia di quello privato, può segnalare anche le violazioni contrattuali e i pericoli per la salute, la sicurezza o l'ambiente. Per ottenere la tutela, il lavoratore, però, deve agire secondo buona fede e, quindi, deve avere la convinzione ragionevole che sia stato commesso un illecito.

81 Cfr. C. Buzzacchi, “Il Codice di comportamento come strumento preventivo della corruzione: l'orizzonte di un'etica pubblica”, 2013, p.14-16,

in Rivista elettronica “Amministrazione in cammino”. http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/

Negli Stati Uniti, in seguito, è stato introdotto il Sarbanes Oxley Act : questo contiene varie norme per contrastare frodi in materia contabile e finanziaria. Nel nostro ordinamento, invece, la normativa sul whistleblower, prevista dalla legge n. 190, è stata la conseguenza di convenzioni e raccomandazioni internazionali. Già nel 1999 la Convenzione civile sulla corruzione, siglata a Strasburgo, obbligava gli Stati aderenti ad adottare una disciplina specifica, ma lasciava gli stessi liberi di decidere le modalità. L'Italia ha ratificato tale Convenzione nel 2012, ma non ha previsto nessuna norma attuativa. Il modello di riferimento, proposto dalla stessa Convenzione, impone al whistleblower il dovere di riferire (c.d. report) i fatti corruttivi, ma solo in caso di ragionevoli sospetti e secondo buona fede: in presenza di queste due ultime condizioni, è prevista l'immunità derivante dalle conseguenze del suo agire e, quindi, ogni eventuale sanzione nei suoi confronti si considera ingiustificata. Anche la Convenzione delle Nazioni Unite, adottata a Merida nel 2003 e ratificata nel 2009, ha una disciplina molto simile: quest'ultima, però, si limita a concedere agli Stati la facoltà di attuare le misure necessarie e non impone nessun obbligo. Hanno, poi, influito e portato alla nascita della legge n. 190 anche le raccomandazioni provenienti dagli organismi internazionali, come l'OCSE o il GRECO, a seguito dell'attività di monitoraggio sulla legislazione nazionale.

Prima della legge anticorruzione, però, esistevano comunque alcuni riferimenti normativi sul fenomeno. In particolare, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio hanno l'obbligo, penalmente sanzionato, di segnalare i reati. Sempre in ambito penale, è prevista la disciplina per i c.d. pentiti di mafia: questi vengono messi nelle condizioni migliori per affrontare i rischi derivanti dalle loro deposizioni nei confronti di soggetti particolarmente pericolosi. Sebbene tale tutela a volte sia stata utilizzata anche per i reati di corruzione, il rischio di questi ultimi è sicuramente meno grave e,

quindi, giustifica molto più difficilmente il suo utilizzo. Manca, poi, una norma penale che incentivi la collaborazione e, dunque, la denuncia degli illeciti. Viste le numerose lacune normative, perciò, alcuni benefici premiali sono nati nella prassi soprattutto durante il periodo c.d. di Tangentopoli. E' stata sempre la giurisprudenza a definire illegittimi i provvedimenti disciplinari di ritorsione, adottati dal datore di lavoro nei confronti del lavoratore denunciante. Il Consiglio di Stato, però, non riconosceva la tutela della riservatezza del denunciante, ma sosteneva che si dovesse estendere il diritto di accesso anche alla pretesa di conoscere la sua identità.

Oggi, per la prima volta, si è sopperito al vuoto normativo con la legge n. 190: quando il dipendente pubblico segnala all'autorità giudiziaria o alla Corte dei conti o al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a misura discriminatoria, diretta o indiretta, per motivi collegati alla denuncia. L'espressione “dipendente pubblico” deve essere intesa come comprensiva delle diverse categorie di personale che operano alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. All'inizio sono sorte, comunque, alcune critiche visto che il whistleblower meritevole di tutela è solo il dipendente pubblico: bisogna tener conto che la legge in questione non dedica molta attenzione al settore privato. Le “condotte illecite”, invece, non sono limitate ai fatti integranti reato, ma si estendono alle irregolarità contabili, alle false certificazioni di pagamenti in nero e alle violazioni delle norme in materia ambientale o di sicurezza sul lavoro. Non sembrano, però, comprendere le violazioni contrattuali. Anche l'espressione “in ragione del rapporto di lavoro” risulta molto ampia nel suo significato: oltre ad indicare l'ufficio rivestito, si può collegare alle notizie conosciute durante lo svolgimento delle mansioni lavorative, sebbene in modo casuale. Sul livello di conoscenza dell'illecito, poi,

non sono fornite particolari precisazioni: tale conoscenza non si può ridurre a dei meri sospetti, dato che è necessario tutelare anche i terzi oggetto delle informazioni, ma non deve neanche coincidere con una certezza assoluta sui fatti. Pare, quindi, che il dipendente pubblico debba ritenere altamente probabile che un certo soggetto abbia commesso un illecito. Sempre secondo il nuovo articolo 54-bis del decreto legislativo n. 165 del 2001, la tutela del segnalante si concede “fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile”. Chiaramente, il dipendente non potrà ricevere protezione nel caso in cui abbia accusato qualcuno consapevolmente che questo sia innocente. In riferimento, invece, al all'articolo 2043 del codice civile, la responsabilità civile che legittima la richiesta risarcitoria sorge, oltre che per dolo, anche per qualsiasi colpa. Ma, visto che il segnalante potrebbe ritrovarsi esposto a conseguenze negative a seguito del suo comportamento collaborativo, si preferisce un'interpretazione conforme alla Convenzione di Strasburgo: è necessario che il comportamento del dipendente pubblico sia mosso da buona fede. Quest'ultima deve essere intesa come mancanza di volontà di esporre una segnalazione diffamatoria o calunniosa. In questo modo, solo il dolo e la colpa grave priverebbero il segnalante della tutela, prevista dalla legge n. 190. L'articolo 54-bis, infine, garantisce al denunciante l'anonimato: la sua identità non può essere resa nota senza il suo consenso. E', però, prevista una forma di tutela relativa: le generalità del segnalante vengono comunicate all'incolpato solo quando le stesse costituiscano l'unico elemento per difendersi dalle accuse. Poi, l'identità non può essere rivelata nemmeno nel caso in cui la segnalazione diventi idonea ad innescare un procedimento disciplinare nei confronti del segnalato. In realtà, la norma non specifica se successivamente l'ufficio che eserciterà l'azione disciplinare possa stralciare la segnalazione (soluzione

preferibile) oppure se possa lasciarla omettendo le parti che identificano il segnalante (con il rischio, però, di identificazione indiretta). Al di fuori del procedimento disciplinare, invece, sicuramente non è previsto il diritto di accesso agli atti che consentano di individuare il denunciante. Inoltre, il dipendente pubblico potrà utilizzare la garanzia di anonimato per sostenere l'eventuale impugnazione di provvedimenti discriminatori nei suoi confronti. Secondo il terzo comma dell'articolo 54-bis, sia il dipendente stesso sia le organizzazioni sindacali possono, a loro volta, segnalare le eventuali misure discriminatorie al Dipartimento della funzione pubblica.82

9. La trasparenza: dall'accessibilità alla prevenzione della