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SCALE E TEMPI DEL PROGETTO DELLO SPAZIO PUBBLICO Oggetto della tesi sono le qualità progettuali che influiscono direttamente sulla fre-

quentazione di uno spazio pubblico. Come afferma Ingersoll «Per far funzionare una piazza c’è bisogno di un quartiere che funzioni»4 [2008]: perché un singolo spazio

funzioni sono necessari alcuni prerequisiti che riguardano la scala della pianificazio- ne della città e del quartiere. Quando si affronta il progetto di uno spazio pubblico non bisognerebbe considerare solo la ristretta dimensione dell’ambito di intervento né quella del suo intorno, bensì tutte le relazioni a livello urbano e territoriale. Solo una volta che queste sono state comprese è possibile definire i caratteri dei singoli progetti. In questo senso non si tratterebbe di operare trasformazioni singole e mi- nute, come solitamente avviene attraverso l’attuazione di singoli ambiti, definiti e “chiusi” dentro al proprio perimetro di azione, ma interventi che si leghino e com- pletino la trama urbana, cogliendo e valorizzando le relazioni, facendo emergere la struttura alla città. Come visto nel paragrafo 2.3, gli spazi pubblici sono come le stanze di una casa, hanno ciascuno scopi diversi, e la diversità degli spazi offerti è fondamentale per andare incontro alle esigenze di diversi gruppi di utenti e differenti possibilità di usi che intendono servire [Carmona, 2012]. Varietà, densità e commi- stione sono pertanto prerequisiti fondamentali (paragrafo 3.1.1), tanto più consi- derando l’effetto domino per cui “la gente viene dov’è la gente” (paragrafo 3.1.2). Inoltre, come si approfondirà nel paragrafo 3.1.3, a livello urbanistico non è sempre detto che lo spazio pubblico sia sempre un beneficio.

Oltre alle scale del progetto bisogna considerare il fattore tempo. «My underlying assumption was that a good city is designed, developed and is managed over an ex- tended period of time to become a “successful urban place”» [Montgomery, 1998, p. 93]. Il fattore tempo è fondamentale, alcuni spazi pubblici possono essere frequen- tati da subito o può servire un certo periodo di tempo perché la popolazione li faccia propri; allo stesso modo alcuni spazi pubblici prima frequentati possono essere ab- bandonati, ad esempio per problemi di manutenzione o gestione dello spazio. Per questi motivi, nello spazio pubblico il tempo diventa un fattore fondamentale con cui lavorare. Questo significa che il processo è una timeline nella quale gli obiet- tivi sono implementati a diversi intervalli temporali. Avere a che fare con questa lun- ga timeline richiede una grande capacità di previsione. La strategia è un meccanismo

4 «Per fare una piazza che funzioni bene, che diventi teatro della vita--un concetto che verrà definito più avanti- -non si può contare soltanto sul passaggio di molte persone. Per diventare vitale, una piazza ha bisogno di trovarsi dentro uno stretto rapporto tra le cose stabili e le cose effimere. Quindi, una piazza senza quartiere sarebbe assurda quanto una stazione dove non si fermano i treni» [Ingersoll, 2008].

di previsione che innesca microprocessi all’interno del progetto. Come tutti i mec- canismi di previsione è un’azione con tempi propri, mirata a conseguire un obiettivo [Fernandez Per, 2011, p. 4].

Raquel Ramati individua due livelli di attuazione, che devono essere entrambi con- templati negli interventi di rivitalizzazione dello spazio pubblico: piani a lungo ter- mine e piani a breve termine. Questi ultimi sono interventi semplici e di poca spesa5

o interventi temporanei6 che hanno come obiettivi la rivitalizzazione immediata e

parziale della vita sociale e della scena pubblica e l’attivazione dell’attenzione della comunità sui temi della qualità dello spazio pubblico. I piani a lungo termine sono più costosi, più ambiziosi e più complessi, e si pongono l’obiettivo di salvaguardare i caratteri dei piani a breve termine attraverso il tempo, rendendone permanenti i criteri, le determinazioni e le linee di intervento [Ramati, 1981].

3.1.1 VARIETà, DENSITà, COMMISTIONE

«La varietà è il principio generale di funzionamento della città. In primo luogo, la va- rietà è varietà di usi. Solo la compresenza di diverse attività in una rete a maglia fine di relazioni reciproche può assicurare alla città l’attivazione delle economie locali, del mutuo supporto tra gli uomini e tra i loro mille progetti individuali. La città è infatti prima di tutto l’insieme sempre mutevole dei progetti individuali e di gruppo; im- porre su di essa un unico progetto è operazione paternalistica, nel migliore dei casi, o repressiva, nel peggiore. Il successo di una parte di città, o di una strada, è fatto dovuto a equilibri delicati costruiti nel tempo dagli abitanti attraverso processi in- finiti di aggiustamento reciproco, mutuo sostegno, scambio e costruzione di capitali comuni, quali la fiducia selettiva verso alcuni personaggi pubblici, in particolare i ne- gozianti, o come lo spazio pubblico stesso. Ma la varietà è anche varietà di persone, di storie, di età, di talenti, di progetti; varietà di paesaggio urbano; varietà di op- portunità, il che implica cicli di ricambio edilizio di tipo graduale, nel tempo. Questa varietà è il patrimonio più importante di una città: essa si articola sulle innumerevoli specializzazioni individuali strettamente relazionate l’une alle altre. La varietà non è caos. Solo chi riesce a concepire esclusivamente ordini semplici scambia la varietà per caos: essa è invece un ordine complesso e organizzato, un ordine vitale: la sua 5 ad esempio piantare fiori, tinteggiare idranti, installare rastrelliere per biciclette, dipingere murales su muri ciechi, sostituire o completare gli impianti di illuminazione pubblica, ridisegnare le “spianate” delle attività commer- ciali sul suolo pubblico, ripavimentare alcuni tratti di strada, allargare i marciapiedi, inventare stendardi, striscioni o altri oggetti per la segnalazione, ecc.

organica unità è la vita pubblica urbana, la sua scena è lo spazio pubblico urbano: la strada» [Jacobs J., 1961, ed. 2009].

Secondo Jane Jacobs [1961, ed. 2009, p. 140] sono necessarie quattro condizioni per- ché in un ambiente urbano si verifichi un grado sufficiente di varietà, e devono essere contemporaneamente compresenti: commistione di usi primari, isolati di taglio pic- colo, commistione di edifici di diverse età e concentrazione di popolazione (densità). Jane Jacobs ritiene fondamentale la commistione di usi primari (o usi attrattori) come residenza, industria, artigianato e uffici7. Perché una commistione di usi primari generi

varietà alle diverse ore della giornata occorre che i percorsi degli utenti delle diver- se funzioni primarie si intreccino nello stesso spazio fisico, che le funzioni primarie presenti abbiano almeno in parte utenti in comune (non abbiano cioè una marcata incompatibilità reciproca) e che ci siano relazioni ragionevoli tra la gente presente nello spazio alle diverse ore della giornata. In definitiva ciò che conta è la capacità di generare un’alta varietà nei tipi umani che frequentano gli spazi pubblici e negli orari di frequenza.

La commistione di usi e di attività è ritenuta da moltissimi altri autori (Gehl, Allan B. Jacobs, Appleyard, Whyte, Wontgomery, ecc.) capace di portare vita in un’area urba- na. La varietà di usi possibili all’interno del sistema degli spazi pubblici è fondamen- tale per non rischiare di rivolgersi specialisticamente a una sola categoria di utenti. Per Whyte la commistione è fondamentale ed è alla base dell’argomentazione che le strade giapponesi siano più interessanti di quelle americane: «i giapponesi non usano lo zoning per rafforzare una rigida separazione degli usi. Essi incoraggiano la commis- sione, non solo fianco a fianco, ma anche verso l’alto» [1980]. Montgomery [1998] afferma che le aree che mancano di vitalità urbana non mancano di persone (con- seguenza), ma di un’insufficiente mix di usi primari (causa). Per questo è importante che il mix avvenga non solo all’interno di un isolato, ma anche all’interno dei blocchi edilizi, sia in orizzontale che in verticale. Dove possibile, unità residenziali, negozi e uffici vanno collocati all’interno dello stesso edificio. Un numero chiave di “people attractors” sarà strategicamente posizionato, non solo nelle aree centrali, ma anche nei quartieri residenziali di media intensità.

La dimensione dell’isolato è un tema fondamentale per Jane Jacobs e Peter Bossel- man: isolati di taglio piccolo permettono un’alta possibilità di scelta (una a ogni incro- 7 Secondo Jane Jacobs, il commercio al dettaglio è tendenzialmente un uso secondario, cioè a servizio delle persone attratte dagli usi primari. In certi casi, attività secondarie particolarmente sviluppate ed efficienti possono trasformarsi in elementi attrattori, diventando esse stesse funzioni primarie.

1988, p. 110].

Figura 24. Mappa del miglio quadrato di Ahmeda- bad, India [Jacobs A.B., 1993, p. 205].

Figura 25. Mappa del miglio quadrato di Firenze, Ita- lia [Jacobs A.B., 1993 p. 220].

Figura 26. Mappa del miglio quadrato di Parigi (Louvre - Palais Royal), Francia [Jacobs A.B., 1993, p. 235].

Figura 27. Mappa del miglio quadrato di Irvine (busi- ness complex), USA [Jacobs A.B., 1993, p. 206].

cio) evitando percorsi obbligati. Il tema è presente anche in Allan B. Jacobs [1993], Southworth e Ben-Joseph [1997], che calcolano il numero di incroci stradali presenti in una data unità territoriale disegnata in una mappa. Secondo Allan B. Jacobs [1993] un distretto urbano che ricopre un’area di un miglio quadrato dovrò avere almeno 250 intersezioni8. Anche Whyte individua una relazione tra dimensione dell’isolato e

“città densa per il pedone”, indicando come una delle migliori soluzioni quella impo- sta dai commissari che disegnarono lo schema di Manhattan all’inizio dell’Ottocento: dai 60 ai 90 metri [Whyte, 1988, p. 89]. Un corollario del numero di intersezioni è il numero di blocchi edilizi: Montgomery [1998] afferma che la tendenza di molti ur- banisti nel passato a pianificare grandi blocchi e poche strade e intersezioni per otte- nere maggiore efficienza spaziale ha portato a un impoverimento della vita urbana: riporta come esempio il centro di Boston, che nel 1985 aveva più di 600 intersezioni e 400 blocchi edilizi, oggi meno di 400 intersezioni e meno di 250 blocchi edilizi, diventando un luogo meno intricato e complesso. Montgomery mette in guardia an- che dal rischio opposto: quando all’interno di un miglio quadrato troviamo più di 700 incroci e blocchi edilizi, il rischio è che si generi confusione. Esistono anche casi in cui il numero di intersezioni e blocchi è alto e appropriato, ma ci sono pochi spazi aperti, come nel caso di Bologna, e questo non aiuta a generare street-life [1998, p. 107]. La commistione di edifici di diversa età con conservazione di una quota significativa di vecchi edifici è una questione economica: solo in un tessuto con una buona quota di edifici ordinari vecchi in condizioni mediocri, e persino di qualcuno in condizioni cattive, possono essere presenti attività sperimentali, rischiose, innovative o sem- plicemente meno fungibili. Allo stesso modo possono esservi abitazioni di diverso livello, fatto cruciale per la varietà e la stabilità dell’insediamento umano, nonché per l’effettiva capacità di ricambio e rinnovo edilizio con ciclo graduale [Jacobs J., 1961, ed. 2009, pp. 175-186].

L’ultimo punto per Jane Jacobs è la concentrazione di popolazione (densità) neces- saria per lo sviluppo di commercio al dettaglio e in generale della varietà dei servizi. Jan Gehl ritiene la densità edilizia una condizione necessaria ma non sufficiente alla produzione della densità della vita nello spazio pubblico. Dello stesso parere an- che Montgomery [1998], che arricchisce l’affermazione sostenendo che, mentre una densità troppo bassa fallisce nello generare vitalità, una densità troppo alta produce il rischio di edifici standardizzati e schemi irreggimentati. Montgomery prosegue af-

8 «Dire che in un miglio quadrato di Venezia ci sono 1.725 intersezioni e in un miglio quadrato di Irvine ce ne sono 15, dà una immediata percezione di cosa significhi l’esperienza del camminare nelle due città, la differenza nella scala dell’ambiente fisico» [Porta, 2002, p. 179]. Vedi figure 24-27 p. 36.

fermando che lo spazio costruito deve essere controbilanciato dalla giusta quantità di spazio aperto (alle persone servono parchi e piazze, ma non devono neppure esse- re presenti ampi tratti di spazio vuoto; allo stesso modo le strade devono essere suf- ficientemente larghe, mai troppo ampie). L’approccio CPTED (vedi paragrafo 3.3.5) mette in luce che la concentrazione di persone in spazi insufficienti può aumentare il rischio di potenziali conflitti; pertanto gli schemi insediativi nelle aree ad alta densità devono prevedere una dotazione di spazi pubblici adeguata in termini di quantità, localizzazione, qualità e possibili usi. Il tema della densità abitativa è attualissimo; l’incremento delle densità abitative medie è al centro dei principali programmi di urban design sostenibile.

Allan B. Jacobs e Donald Appleyard nel Manifesto [1987] esplicitano le cinque carat- teristiche che ritengono contemporaneamente necessarie, ma non sufficienti, alla formazione di un ambiente urbano vitale e stimolante:

• vivibilità delle strade e dei quartieri (sole, aria pulita, alberi, scala umana, sicu- rezza);

• densità di popolazione (per supportare la varietà di attività e persone e la costru- zione della comunità);

• integrazione delle attività e degli usi del territorio; • definizione dello spazio pubblico da parte degli edifici; • esistenza di moltissimi edifici e spazi aperti tra loro.

Ritornano densità, commistione di usi e varietà di spazi ed edifici, e a questi si ag- giungono temi come la definizione dello spazio pubblico e il comfort climatico, che verrà approfondito in riferimento a singoli progetti nel paragrafo 3.3.2.

Montgomery [1988] elenca dodici “Physical Conditions for Making a City”: 1. devel- opment intensity, 2. mixed use, 3. fine grain, 4. adaptability, 5. human scale, 6. city blocks and permeability, 7. streets: contact, visibility and horizontal grain, 8. public realm, 9. movement, 10. green space and water space, 11. landmarks, visual stimu- lation and attention to detail, 12. architectural style as image. Molti di questi temi sono già stati affrontati nel presente paragrafo, altri verranno trattati in riferimento ai singoli progetti. Uno dei temi più interessanti presenti in Montgomery è il concet- to di “adaptability” che verrà ripreso nel paragrafo 3.3.10.

3.1.2 L’EFFETTO DOMINO: LA GENTE VIENE DOV’è LA GENTE

qui d’affari, esattamente nel mezzo del maggiore flusso pedonale9. [...] Si tratta di

una regola costante nel comportamento delle persone sui marciapiedi delle strade urbane; le conversazioni avvengono appena fuori dagli ingressi principali dei negozi, nei pressi delle biglietterie delle stazioni, nel mezzo di una porta d’accesso alla biblio- teca, ma specialmente esse hanno luogo agli angoli delle strade. Gli angoli sono [...] il punto di maggiore densità: è qui che c’è la maggiore visibilità, e quindi tendono a insediarsi le attività di maggiore richiamo, è qui, o nei pressi, che si collocano pre- feribilmente i chioschi di cibo e bevande, o le bancarelle abusive, è qui infine che si accumulano i plotoni di pedoni in attesa del verde al semaforo per l’attraversamento della strada. La regola funziona in accordo con la tendenza alla concentrazione del pedone come essere sociale [...] e riguarda anche il sedersi: come per il conversare, la gente dimostra nel sedersi una costante predilezione per le traiettorie e i percorsi pedonali più densamente praticati» [Porta, 2002, p. 130].

Se è comprensibile che - dove c’è più gente - è più probabile incontrare qualcuno o salutarsi, non si spiega l’inclinazione a rimanere nel flusso, bloccare il traffico pedo- nale ed esserne urtati. «L’affollamento assume, negli spazi pedonali, un valore po- sitivo per la dimensione sociale della vita nella strada» [Whyte, 1988, p. 77]. Whyte introduce così il concetto di effetto domino: «La gente attrae altra gente. Le persone che guardano le vetrine attraggono altre persone a guardare vetrine. Se qualcuno comincia a palpeggiare la frutta esposta su una bancarella, è più probabile che altre persone comincino a farlo. Se uno fa la carità a un mendicante, induce altri a fare la carità. [...] Una strada pulita tende a indurre comportamenti puliti, una sporca com- portamenti vandalici. Le aree urbane con una vita sociale densa tendono a diventare sempre più dense, le città con più parcheggi dimostrano un fabbisogno crescente di parcheggi. L’effetto domino è una regola generale dello sviluppo dei fatti urbani. L’offerta crea e accresce la domanda» [Porta, 2002, p. 140].

Questo è un principio presente anche in Gehl: «La gente è attratta dall’altra gente. Le persone si raggruppano e si spostano insieme ad altri e cercano di posizionarsi vi- cino ad altri. Nuove attività cominciano vicino ad altre che sono già in atto. Nella casa possiamo vedere che i bambini preferiscono stare dove ci sono adulti o altri bambini piuttosto che, per esempio, dove ci sono solo giocattoli. Nelle aree residenziali e ne- gli spazi della città si possono osservare comportamenti simili tra gli adulti. Se viene offerta una scelta tra camminare su una strada deserta o su una vitale, la gran parte 9 Whyte chiama queste aree le “100% conversation”, mutuando il concetto dalle 100% location che nel mercato immobiliare americano identificano le aree della città che hanno maggiore accessibilità, che sono più richieste e hanno di conseguenza più valore.

delle persone nella gran parte dei casi sceglie quella vitale» [1987, p. 24]. Questo principio in Gehl si lega al tema della commistione di usi e di attività e alla necessità di evitare la formazione di spazi marginali rispetto al flusso della vita sociale come aree verdi e per il gioco dei bambini appartate e quiete.

«Le attività umane sono la prima attrazione che lo spazio pubblico esercita; esso offre principalmente occasioni per stare in mezzo alla gente, vederla e ascoltarla. La sua forma fisica, il suo progetto - insieme al progetto e alla gestione dello spazio privato - può favorire o scoraggiare queste attività stimolando un processo che si au- toalimenta secondo l’efficace formula «uno più uno fa tre - almeno”» [Cicalò, 2009, p. 96].

3.1.3 LO SPAZIO PUBBLICO NON è SEMPRE UN BENEFICIO

Alla scala urbanistica e del quartiere, lo spazio pubblico non è sempre un beneficio, come sostiene Clare Cooper-Marcus. Lo spazio pubblico «[...] può essere sovrabbon- dante, o costruito in funzione di un tipo di utenza in realtà inesistente, o inoppor- tuno nel contesto urbanistico generale: tipicamente, una plaza realizza comunque un’interruzione nella continuità della cortina edilizia e della rete, se c’è, del piccolo commercio. Dunque, l’introduzione di spazi pubblici aperti deve sempre essere valu- tata con attenzione nel contesto locale, e non tollera logiche quantitative e generali. La catchment area [area d’attrazione] è il bacino di utenza calcolato in sede locale e verificato nell’intorno urbanistico: un’evoluzione decisiva». [Porta, 2002, p. 162]. Questo è molto attuale: in un’ottica di ottimizzazione delle risorse lo spazio pubblico non deve essere sovrabbondante, evitando così la dispersione del budget destinato alla manutenzione e alla gestione dello spazio.

3.2 QUALITà PROGETTUALI: ExCURSUS NELLA LETTERATURA