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PROSPETTIVE STORICHE DEL SUPERAMENTO DELLA CONCEZIONE LEGICENTRICA DEL DIRITTO La nascita del concetto moderno di Stato di diritto, che nella sua sostanza si identifica con la

LA GIUDIZIALIZZAZIONE DEL DIRITTO (E DEL POTERE): PATOLOGIA O EVOLUZIONE FISIOLOGICA DELLO STATO COSTITUZIONALE?

2. PROSPETTIVE STORICHE DEL SUPERAMENTO DELLA CONCEZIONE LEGICENTRICA DEL DIRITTO La nascita del concetto moderno di Stato di diritto, che nella sua sostanza si identifica con la

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SILVESTRI, Gaetano. Verso uno ius commune europeo dei diritti fondamentali. In: SCALISI, Vincenzo (cur). Il ruolo della civilistica italiana nel processo di costruzione della nuova Europa. Milano: Giuffrè, 2007. p. 68.

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forma di governo liberale che ha caratterizzato i principali Stati nazionali dell'Europa continentale dalla fine del XIX secolo, ha costituito il contesto nel quale hanno potuto dispiegare tutta la loro forza le varie e diverse concezioni in cui si è storicamente declinato il positivismo giuridico5. Quest'ultimo, nelle seppur diverse forme che ne hanno caratterizzato l'attuazione nel corso della storia, si è contraddistinto per aver prodotto, in ogni caso, un fondamentale effetto: la diffusione di una presunzione assoluta di legittimità a favore della legge, unico strumento in grado di rappresentare per intero un ordine politico autosufficiente. L'ideologica sovradeterminazione della legge e del suo valore hanno consentito di identificare tale fonte normativa con il concetto di sovranità, qualificandola (come già veniva lapidariamente espresso dall'art. 6 della Dichiarazione dei diritti del 1789) come l'unica ed autentica espressione della volontà generale.

Nella cultura giuridica diffusasi nell'Europa continentale fra il XIX ed il XX secolo si riscontrava, dunque, una sostanziale coincidenza fra i concetti di Stato e legge, nonché tra quelli di legge e diritto. Secondo quella stessa cultura, la legge rappresentava l'espressione della sovranità popolare, dalla quale traeva la propria legittimità e la propria forza. In tal senso, dunque, la legittimità del diritto veniva fatta discendere dalla sua identificazione con la legge e, quindi, con la volontà popolare, l'unica in grado di esprimere un modello unitario e razionale di società, l'unica ad avere il diritto, oltre al dovere, di governare secondo quel modello.

L'assoluta centralità assunta dalla legge nella struttura normativa dello Stato legislativo di diritto ha trovato la propria garanzia nell'affermazione del principio di legalità formale, in forza del quale una norma viene ad esistenza ed acquista validità semplicemente in virtù della forma legale della sua produzione.

Nel sistema giuridico-politico caratteristico dello Stato legale, che vedeva contrapporsi al “governo degli uomini” il “governo della legge” come l'unico in grado di far valere il principio dell'isonomia e di limitare l'arbitrio del potere politico6, la legge assumeva un ruolo non soltanto di vertice, bensì di centro focale dell'intero sistema delle fonti; la sua tipica efficacia formale, infatti, non soltanto attribuiva alla legge una forza attiva che le consentiva di abrogare, sostituire o modificare qualsiasi altro atto normativo ed una forza passiva che le permetteva, parallelamente,

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BOBBIO, Norberto. Il positivismo giuridico. Torino: Giappichelli, 1996.

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ZOLO, Danilo. Teoria e critica dello Stato di diritto. In: COSTA, Pietro. ZOLO, Danilo (cur.). Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica. Milano: Feltrinelli, 2002. L'Autore osserva che lo Stato di diritto si fonda su due principi: «1) il pessimismo potestativo, cioè l'idea della pericolosità del potere politico; 2) l'ottimismo normativo, e cioè la convinzione che sia possibile contrastare la pericolosità del potere attraverso lo strumento del diritto», p. 35.

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di resistere all’abrogazione, deroga o sostituzione ad opera di qualunque altra fonte, ma faceva di essa addirittura il parametro di riferimento rispetto a tutte le fonti non legislative, che sulla legge dovevano trovare il proprio fondamento giuridico.

Inevitabile portato del formalismo giuridico otto-novecentesco, la cui missione consisteva nell'assicurare il principale valore della certezza del diritto attraverso la garanzia della prevedibilità della sua applicazione, è stata la riduzione del ruolo del giudice a quello di un mero applicatore della lettera della legge, imbrigliato nei ristretti spazi delimitati dalla sua necessaria esclusione dal processo democratico7. La carenza di legittimazione democratica del potere giudiziario implicava la sua necessaria astensione dal processo che vedeva trasformare in legge la volontà popolare, riducendo le facoltà di cui quello poteva disporre fino a qualificarle nei termini di un potere “nullo”, in quanto scevro da qualunque possibilità di valutazione politica.

In un simile scenario, che vedeva il legislatore come colui che pone i limiti ed il giudice come l'autorità a cui spetta il compito di applicarli, in virtù del principio di legalità legislativa, si creava uno Stato di diritto in cui tra la legge e l'amministrazione non vi era spazio per null'altro; soprattutto, non vi era alcuno spazio per l'interpretazione. Il potere giudiziario si configurava, perciò, non come un potere autonomo, bensì come un corpo del tutto assimilabile a quello della burocrazia statale nella misura in cui condivideva con quest'ultima, oltre alla funzione di fedele applicatore delle norme legislative, altresì la posizione di subordine rispetto al potere legislativo, coerentemente ad una concezione della separazione dei poteri che vedeva tanto quello esecutivo quanto quello giudiziario, nella loro posizione di reciproca indipendenza, accomunati nella missione di servire in maniera “ancillare” la volontà degli organi rappresentativi.

La teoria del sillogismo giuridico, in base alla quale il giudice avrebbe dovuto limitarsi ad individuare la norma legislativa pertinente al caso concreto portato al suo cospetto ed a ricondurvi quest'ultimo così da trarne un conclusione logica, rappresenta e riassume la completa sfiducia nutrita nei confronti dell'attività interpretativa, a fronte della volontà di rafforzare il potere coercitivo del testo della legge, che non poteva esser messo in discussione dalle soggettive convinzioni dell'interprete.

Questa concezione del ruolo del potere giudiziario, se si confaceva a degli ordinamenti nei

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Come ha scritto Rousseau, «il giudice non deve partecipare in alcuna misura né al potere dell'esecutivo né a quello del legislativo: ma è proprio in questo che il suo potere è grande: poiché pur non potendo far nulla, può impedire tutto. Come difensore delle leggi è più sacro e più rispettato di quanto non lo sia il principe che le applica, e il sovrano che le promulga»; ROUSSEAU, Jean Jacques. Du contract social. Bari: Laterza, 1992. p. 192.

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quali tutto il diritto veniva espresso, in sostanza, per il tramite della legge formale del parlamento, ha subito una profonda crisi con l'avvento dello Stato costituzionale, alla cui diffusione è conseguita una vera e propria rivoluzione dell'ordinamento fino ad allora vigente.

L'effetto che, dopo il secondo conflitto mondiale, in molti Stati europei hanno realizzato tanto l'entrata in vigore di costituzioni rigide quanto l'introduzione del controllo giurisdizionale di costituzionalità delle leggi, ha costituito un vero e proprio cambiamento di paradigma nel modo di concepire il diritto8. Le “nuove” costituzioni, infatti, non si sono semplicemente limitate ad ampliare il previgente sistema delle fonti, ma lo hanno sostanzialmente rivoluzionato, ponendo al suo vertice una fonte, per l'appunto quella costituzionale, che non si limita ad indicare le procedure regolanti l'attività di produzione normativa, ma provvede, soprattutto, a fissarne i limiti sostanziali.

L'assemblamento di un sistema di limiti, non più meramente formali ma altresì materiali, che investono ogni livello di produzione giuridica, e perciò anche il livello legislativo, ha prodotto delle conseguenze rilevanti in ordine alla possibilità di qualificare la validità di una norma giuridica9; dal momento che alla potestà normativa si richiede, oramai, non soltanto di atteggiarsi in modo conforme a determinate procedure ma anche di dare attuazione o, quantomeno, di rispettare i limiti sostanziali prescritti dalla costituzione, la validità giuridica delle norme non può più ricondursi meramente al carattere della positività. Nel parametro di questo giudizio, infatti, confluiscono anche, e soprattutto, i valori incorporati nella costituzione.

La previsione della superiorità gerarchica della costituzione, con la conseguente predisposizione di limiti invalicabili all'attività del legislatore ordinario, ha prodotto l'effetto di “trasferire” una buona parte di quella rilevanza che nel pensiero liberale assumeva in termini assoluti il momento politico di produzione del diritto, all'attività posta in essere dai giudici, ed in primis dai giudici costituzionali, ai fini di assicurare il rispetto di quegli stessi limiti.

Come è stato autorevolmente affermato, dal momento dell'entrata in vigore della costituzione

svanisce l'idea del sistema normativo bello e fatto, ontologicamente dato e quindi preesistente rispetto al momento interpretativo (…) e subentra, in suo luogo, la realistica visione di un sistema “in movimento” soggetto a continue evoluzioni: dipendenti non solo dal sopravvenire di nuove

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ZAGREBELSKY, Gustavo. Il diritto mite. Torino: Einaudi, 1992.

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FERRAJOLI, Luigi. Note critiche e autocritiche intorno alla discussione su Diritto e ragione. In: GIANFORMAGGIO, Letizia (cur.). Le ragioni del garantismo. Discutendo con Luigi Ferrajoli. Torino: Giappichelli, 1993. p. 465-477.

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discipline, atte a spostare il senso e la portata delle stesse discipline relative ad altre materie o branche dell'ordinamento, ma dall'intrinseco mutare degli indirizzi interpretativi e applicativi, pur fermi restando gli iniziali disposti della Costituzione e delle leggi10.

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