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FINO A CHE PUNTO PUÒ SPINGERSI IL GIUDICE? L'ESAME DI UN CASO CONCRETO: LA SENTENZA N 1/2014 DELLA CORTE COSTITUZIONALE ITALIANA

LA GIUDIZIALIZZAZIONE DEL DIRITTO (E DEL POTERE): PATOLOGIA O EVOLUZIONE FISIOLOGICA DELLO STATO COSTITUZIONALE?

5. FINO A CHE PUNTO PUÒ SPINGERSI IL GIUDICE? L'ESAME DI UN CASO CONCRETO: LA SENTENZA N 1/2014 DELLA CORTE COSTITUZIONALE ITALIANA

Con la sentenza n. 1 del 201424 la Corte Costituzionale, in estrema sintesi, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della legge n. 270 del 2005 nella parte in cui prevede l'attribuzione del premio di maggioranza alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di preferenze valide, a prescindere dal raggiungimento di una soglia minima di voti, ed il meccanismo del voto di lista bloccato.

Innumerevoli sono le problematicità sollevate dalla pronuncia in esame; problematicità che toccano almeno tre questioni fondamentali, vale a dire l'ammissibilità del ricorso, il merito della decisione, nonché le ricadute che questa concretamente andrà ad esercitare sulla predisposizione di una nuova legge elettorale da parte del Parlamento. In ogni caso, non essendo possibile in tal sede effettuare una compiuta trattazione di tutti gli aspetti degni di nota, si concentrerà l'attenzione su quelli che più da vicino attengono al tema oggetto della presente dissertazione, e che più si prestano a rivelarsi funzionali ad offrire una risposta a tale quesito: fino a che punto può spingersi il giudice costituzionale senza che il suo intervento segni una palese ed irrimediabile ingerenza nella sfera di discrezionalità politica riservata al legislatore?

Al di là della preliminare ma dovuta precisazione che porta ad affermare che la Corte, con questa sentenza, abbia senz'altro “voluto” decidere sulla questione prospettatale dalla Cassazione, bypassando gli istituti procedurali relativi al giudizio di costituzionalità nonché la sua stessa

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Come noto, la Corte Costituzionale era stata investita della questione di legittimità riguardante gli artt. 4, comma 2, 59 e 83, comma 1, n. 5 e comma 2 del d.P.R. n. 361/1957, nel testo risultante dalla legge n. 270/2005, nonché dell’art. 14, comma 1, 17, commi 2 e 4, dello stesso testo normativo, in riferimento agli artt. 3, 48, comma 2, 49, 56, comma 1, 58, comma 1, e 117, comma 1, della Costituzione, dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 12060/2013.

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consolidata giurisprudenza in tema di incidentalità del ricorso25, occorre anzitutto mettere in luce quella che, a modesto parere di chi scrive – un parere, peraltro, avvalorato da quello espresso da ben più autorevole dottrina26 – risulta costituire la parte più significativa della sentenza, vale a dire il frammento in cui il giudice delle leggi, immediatamente dopo aver precisato che “non c'è (…) un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta costituzionale”, aggiunge che “il sistema elettorale, tuttavia, pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa, non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità, quando risulti manifestamente irragionevole”.

Secondo la Corte, dunque, la legislazione elettorale, incidendo direttamente sul fondamentale diritto di voto e sull'affermazione del principio costituzionale di rappresentatività democratica, non può costituire una zona franca del sistema di giustizia costituzionale. E non può risultare esente dal sindacato di costituzionalità anche laddove l'espletamento di tale controllo implichi non soltanto la rilevazione di eventuali contrasti della legislazione suddetta con un parametro costituzionale puntualmente individuato, bensì si estenda fino al punto di legittimare la Consulta a valutare la “ragionevolezza” della normativa sottoposta al suo giudizio.

Invero, nel caso di specie la Corte ha proceduto a dichiarare l'incostituzionalità del premio di maggioranza previsto dalla l. 270/2005 in quanto, a suo giudizio, la disposizione in questione non avrebbe superato il test di ragionevolezza e di proporzionalità al quale è stata sottoposta.

Nello specifico, la Corte ha ritenuto che l’applicazione di un metodo così sproporzionato di assegnazione del premio di maggioranza, svincolato dal raggiungimento di alcuna soglia minima di voti, abbia condotto ad una “oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica” provocando, perciò, una conseguente “alterazione degli equilibri istituzionali, tenuto conto che la maggioranza beneficiaria del premio sarebbe in grado di eleggere gli organi di garanzia che restano in carica per un tempo più lungo della legislatura”. Nell'affermare ciò, la Corte ha ritenuto di dover “valutare se la norma oggetto di scrutinio (…) sia necessaria ed idonea al conseguimento

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Nella sentenza in esame, infatti, la Corte ha superato l'impostazione costantemente affermata dalla sua giurisprudenza in tema di ricorso incidentale, vale a dire che la coincidenza tra il petitum del giudizio principale e quello del giudizio di costituzionalità porti necessariamente ad escludere «il carattere di incidentalità della questione. Quest'ultimo presuppone che il petitum del giudizio, nel corso del quale viene sollevata la questione, non si identifichi con l'oggetto della questione stessa (ordinanza n. 175 del 2003; sentenze n. 17 del 1999 e n. 127 del1998)». Fino ad oggi, infatti, la Corte costituzionale ha costantemente concluso nel senso di ritenere inammissibile la questione ogniqualvolta in cui la caducazione della norma censurata conseguente alla sua decisione avesse reso superfluo ogni ulteriore provvedimento da parte del giudice a quo ai fini della prestazione della tutela richiesta (cfr. sent. n. 65 del 1964; n. 256 del 1982; n. 349 del 1985; n. 214 del 1986; n. 291 del 1986; n. 127 del 1998; n. 49 del 2000, ecc.).

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di obiettivi legittimamente perseguiti in quanto, tra misure proporzionate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi”.

L'incostituzionalità, dunque, non è stata ravvisata nel premio di maggioranza di per sé considerato, bensì nella sua effettiva conformazione; anzi, secondo quanto espressamente affermato dalla stessa Corte, quello a cui aspira il correttivo oggetto di contestazione costituirebbe un obiettivo legittimo, ravvisabile nel tentativo di “agevolare la formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale”. L'assenza di una qualche previsione che andasse a subordinare l'attribuzione del premio a chi avesse raggiunto una soglia di voti tale da poter rendere “ragionevole” l'operatività di tale meccanismo, però, avrebbe condotto ad una “illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare”.

In sostanza, il tentativo di assicurare la governabilità del Paese è senz'altro un obiettivo politico legittimo, ma il suo perseguimento deve essere strutturato in modo tale da non sacrificare in maniera eccessiva e, perciò, sproporzionata, il valore costituzionale della rappresentatività parlamentare.

Secondo quanto affermato nella sentenza, le norme oggetto di censura detterebbero “una disciplina che non rispetta il vincolo del minor sacrificio possibile degli altri interessi e valori costituzionalmente protetti, ponendosi in contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma e 67 Cost.”. La disciplina in questione, dunque, non risulterebbe “proporzionata rispetto all’obiettivo perseguito, posto che determina una compressione della funzione rappresentativa dell’Assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente”27.

Alla luce di tali considerazioni resta, pertanto, da chiedersi quali siano le conseguenze di questa decisione sull'attuale assetto della forma di governo parlamentare. In particolare, tenendo a mente l'interrogativo che ha condotto la presente – e necessariamente sommaria – disamina della sentenza, occorre riflettere sul più intimo significato che questa assume rispetto alla

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Le stesse considerazioni valgono con riferimento alla disciplina elettorale prevista per il Senato, aggiungendosi a tal riguardo l'ulteriore osservazione per cui, in tal caso, le disposizioni previste dalla l. 270/2005 non sarebbero idonee neanche ad assicurare il perseguimento dell'obiettivo della governabilità, dal momento che l'assegnazione dei seggi a livello regionale recherebbe con sé l'inevitabile rischio di creare in seno ai due rami del Parlamento delle maggioranze diverse.

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configurazione dei rapporti intercorrenti tra giudice costituzionale ed assemblee legislative.

Entrando nel merito della valutazione della ragionevolezza della legislazione elettorale, la Corte ha posto in essere un'indubitabile ingerenza nell'ambito della sfera di discrezionalità riservata al legislatore; una discrezionalità che dovrebbe presumersi massima in riferimento alla predisposizione della legge politica per eccellenza.

Quello sulla ragionevolezza come proporzionalità, infatti, è un giudizio relativo alla “misura” di un testo normativo, e non può non suscitare una qualche perplessità il fatto che sia stato il giudice delle leggi a dover sindacare su tale “misura”. D'altra parte, è stata la medesima Corte a ribadire, nella sentenza in esame, quanto dalla stessa già affermato in precedenza, vale a dire che la “determinazione delle formule e dei sistemi elettorali costituisce un ambito nel quale si esprime con un massimo di evidenza la politicità della scelta legislativa”28. Nonostante questa premessa, che a rigor di logica avrebbe dovuto implicare un intervento, per così dire, attentamente riguardoso della discrezionalità di cui la legge ordinaria gode in tale materia, la Corte ha, invece, proceduto ad effettuare un sindacato estremamente incisivo, nel quale ha rivestito un ruolo determinante l'applicazione del principio di ragionevolezza.

Il fondamentale aspetto che si vuole osservare, in sostanza, è che, secondo le dinamiche che fisiologicamente dovrebbero animare la forma di governo caratteristica del nostro ordinamento, il meccanismo più consono attraverso il quale poter addivenire ad una conformazione della legislazione elettorale al dettato costituzionale avrebbe dovuto essere quello della contrattazione politica. Soltanto il Parlamento sarebbe dovuto intervenire al fine di ricondurre il sistema elettorale ad una fattezza tale da renderlo “costituzionalmente razionale”, non la Consulta.

I dubbi sorgono con evidenza ancor maggiore se si passa ad interrogarsi circa la seconda questione, quella relativa alle liste bloccate29. Se, infatti, rispetto alla questione dello “sproporzionato” premio di maggioranza la Corte – seppur attraverso l'applicazione dei criteri di ragionevolezza e di proporzionalità – si è espressa con una classica sentenza di accoglimento, a proposito delle liste bloccate, invece, è assai dubbio il carattere da doversi attribuire alla pronuncia con la quale la Consulta ne ha dichiarato l'incostituzionalità. Trattasi di un'additiva secca

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Vedi anche sent. n. 242/2012; ord. n. 260/2002; sent. n. 107/1996.

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Le quali, nella loro effettiva conformazione, si porrebbero in contrasto con i principi costituzionalmente garantiti del voto personale, libero e diretto.

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o di un'additiva di principio? Il discrimine tra i due tipi di pronuncia, difatti, risulta essere estremamente influente al fine dell'individuazione del sincero atteggiamento assunto dalla Corte nei confronti del Parlamento. In particolare, il fatto che la sentenza in questione debba (o possa) qualificarsi come come additiva secca o come additiva di principio costituisce un importante indice rivelatore della propensione o, al contrario, della ritrosia della Corte Costituzionale ad intraprendere un dialogo con il legislatore30.

A ben vedere, andando al di là di quanto alcuni abbiano voluto, in qualche modo, “far dire” alla Corte – che è forse molto di più rispetto a quanto essa abbia effettivamente detto – l'attenta analisi della sentenza in esame lascerebbe intendere che si sia in presenza di un'additiva di principio, con la quale la Corte si è collocata in una prospettiva di confronto con il legislatore a proposito delle problematiche connesse alla legge elettorale.

Nella sentenza, infatti, nonostante la Consulta abbia preliminarmente sottolineato che gli inconvenienti relativi alla possibilità per gli elettori di esprimere la preferenza siano, in realtà, soltanto apparenti, potendo “essere risolti mediante l’impiego degli ordinari criteri di interpretazione, alla luce di una rilettura delle norme già vigenti coerente con la pronuncia di questa Corte” – configurando, con ciò, la possibilità dell'introduzione della preferenza unica – si evince chiaramente la sua predisposizione all'apertura ed al confronto con l'organo legislativo, dal momento che, più volte, è la stessa Corte a sottolineare l'opportunità di un intervento del Parlamento che sia finalizzato a correggere, a modificare o, comunque, ad integrare la disciplina residua.

D'altra parte, l'introduzione del voto di preferenza costituisce un'opzione che è necessariamente condizionata dalla scelta di un certo sistema elettorale, piuttosto che di un altro. L'estromissione dal corpus della l. 270/2005 del premio di maggioranza ha dato luogo ad una normativa di risulta istitutiva di un sistema elettorale proporzionale, e perciò di per sé compatibile con il voto di preferenza. Ciò non toglie, però, che si tratti in ogni caso di un'opzione, e che questa opzione non possa che essere rimessa all'organo costituzionalmente deputato al compimento delle scelte politiche fondamentali.

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E' stato autorevolmente osservato, infatti, che le «c.d. additive di principio (o dichiarative), sono pronunciate quando – affinché la legge si conservi legittima – è necessario introdurre una norma che manca, sì, come in tutte le additive, ma che non può dirsi […] “a rime obbligate”, essendo invece possibile una pluralità di soluzioni normative diverse affidate alla libera discrezionalità del legislatore. Se la Corte scegliesse “una” fra le norme possibili (idonee a sanare il vizio di legittimità), finirebbe ovviamente per invadere il campo del Parlamento: in questi casi, allora, pur giudicando nel merito, di solito preferisce dichiarare inammissibili le richieste di additive». RUGGERI, Antonio. SPADARO, Antonino. Lineamenti di giustizia costituzionale. Torino: Giappichelli, 2009. p.150.

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Nel tentativo di giungere ad una qualche conclusione che sia in grado di fornire una risposta soddisfacente al quesito posto in precedenza, pare si possa ravvisare, nel contesto qui sommariamente tratteggiato, uno spiraglio di puro pessimismo, insieme, però, ad un altro di più rincuorante ottimismo.

Il sentimento di profondo pessimismo risiede nel fatto che, nonostante i meccanismi elettorali introdotti con la l. 270/2005 fossero, già da tempo, circondati da un profondo discredito diffuso sia nell'opinione pubblica che tra le stesse forze politiche, nonostante la Corte Costituzionale avesse già colto l'occasione di ammonire il Parlamento circa l'intrinseca irrazionalità di quegli stessi meccanismi31, il legislatore non è stato in grado di affrontare l'importante sfida che quei moniti e quelle diffidenze gli ponevano davanti, restando inerte di fronte ad una situazione che, richiedendo inutilmente un pronto intervento risolutore, si è ritrovata ad assumere l'infausto merito di rivelare drammaticamente tutta la sua incapacità.

In questa prospettiva la Corte Costituzionale è stata letteralmente messa con le spalle al muro, invocata con l'evidente intenzione di sopperire – attraverso un rimedio estremo – alla protratta inerzia delle camere parlamentari.

La questione assunta ad oggetto del presente esame, d'altra parte, ha conferito evidenza ad un dato già ampiamente noto alla dottrina giuspubblicistica, vale a dire la profonda problematicità inerente al rapporto intercorrente tra Corti Costituzionali e politica. Le Corti, infatti, venendo generalmente chiamate ad operare nell'ambito di ordinamenti retti dalla concezione liberal-democratica fondata su principi cardine quali quello della separazione dei poteri e della tutela dei diritti fondamentali, se, da un lato, vengono concepite come gli organi depositari del massimo potere di garanzia, dall'altro, però, si scontrano con il pervadente rischio di contrapporsi alle scelte assunte dagli organi rappresentativi della volontà popolare, chiamando in causa il ricorrente interrogativo che pone in dubbio la loro stessa legittimazione.

La contraddizione insita nel rapporto tra legislazione e giurisdizione può trovare una fisiologica risoluzione in ordinamenti in cui tutti i poteri, in un'ottica di collaborazione, partecipino al fine di rendere operativi i principi sanciti nella Costituzione. Laddove, al contrario, questa forma

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Vedi le sentenze n. 15/2008 e n. 16/2008, in cui la Corte Costituzionale ha segnalato al Parlamento “l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi”. Analoghe perplessità sono state nuovamente manifestate nella sentenza n. 13/2012, oltre ad essere successivamente riprese nell’ambito della relazione annuale del Presidente della Corte, tenutasi in data 12 aprile 2013.

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di leale collaborazione manchi, prevalentemente a causa di una connaturata inefficienza del sistema politico, risulta molto più complicato riuscire a scorgere un punto di equilibrio.

L'attività concretamente posta in essere dalle Corti Costituzionali, in sostanza, va contestualizzata rispetto a quello che è l'effettivo funzionamento della forma di governo. Tacciare la Consulta dell'illegittima appropriazione di un improprio ruolo di supplenza politica, infatti, non può costituire un'operazione automatica, dovendo necessariamente esser tenute da conto le circostanze che hanno condotto all'assunzione di quel ruolo.

A fronte della evidente impossibilità, da parte del nostro Parlamento, di favorire una convergenza tra le diverse forze politiche, di rinvenire un accordo sulla legislazione elettorale che potesse riassumere e contemperare le diverse esigenze concorrenti, alla Corte Costituzionale non è residuata altra via se non quella dell'intervento. Un intervento indubbiamente coraggioso, che l'ha portata a rifuggire dall'escamotage offertole da una eventuale (e plausibile) pronuncia di inammissibilità, conducendola a sindacare sullo “scomodo” merito della questione di costituzionalità sollevata dalla Cassazione.

Nel raccogliere questa sfida, però, la Corte ha dato prova di non aver dimenticato l'importanza e l'assoluta necessità di un intervento da parte delle Assemblee legislative, ed è in ciò che può scorgersi uno spiraglio di ottimismo. Pur richiamando il Parlamento ad un doveroso ossequio delle esigenze imposte da una rappresentatività che non può prescindere dall'essere democratica, pur mettendolo di fronte al fatto compiuto dell'illegittimità delle sue scelte, la Corte Costituzionale ha dato una grande possibilità alla politica. Quella di riscattarsi.

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