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VISIONI DI UNITÀ: DECOSTRUZIONI E RI-COSTRUZIONI DI SPECIFICITÀ CULTURALI IN AMBITO PENALE

VISIONI DI UNITÀ E DI MOLTEPLICITÀ NELLO SCENARIO MULTICULTURALE

3. VISIONI DI UNITÀ: DECOSTRUZIONI E RI-COSTRUZIONI DI SPECIFICITÀ CULTURALI IN AMBITO PENALE

Il diritto penale appare intrinsecamente refrattario alla molteplicità. Formalizzato e con pretesa di applicazione indiscriminata, radicato su un territorio14, «intessuto di natura e di cultura»15, emanazione di una maggioranza parlamentare e perciò rappresentativo (almeno in via tendenziale) degli orientamenti ideologici e valoriali dominanti nel tessuto sociale, dei «discorsi

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Per una ricostruzione del dibattito filosofico-politico liberal-communitarian, cfr. FERRARA, Alessandro (eds.). Comunitarismo e liberalismo. 2° ed. Roma: Editori Riuniti, 2000.

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FLETCHER, George P. Grammatica del diritto penale. Traduzione di Michele Papa. Bologna: Società editrice il Mulino, 2004, p. 13 ss.; BASILE, Fabio. Immigrazione e reati culturalmente motivati. Milano: Giuffrè, p. 75 ss.

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«Il mondo della vita, cui il diritto penale si riferisce, è per così dire intessuto di natura e di cultura», PULITANÒ, Domenico. Introduzione alla parte speciale del diritto penale. Torino: Giappichelli, 2010, p. 63.

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etico-politici di autochiarimento»16, esso si presta, anzi, ad essere strumento di omologazione della diversità.

In tempi recenti, poi, in risposta a flussi migratori particolarmente consistenti, si va manifestando nel nostro ordinamento una accentuata tendenza all’inclusione, all’assimilazione delle differenze etico-valoriali, culturali e religiose, fino a raggiungere esiti discriminatori17. A più livelli – normativo, interpretativo, giudiziario – il giurista ha assunto talvolta le vesti dell’unico “io pensante” evocato da Calvino, che ravvisa bisogni di tutela, escogita ed applica soluzioni sui problemi emergenti nella convivenza multiculturale.

Ciò è accaduto, tra l’altro, in occasione dell’introduzione nel nostro ordinamento giuridico della fattispecie incriminatrice di pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (art. 583 bis c.p.). Di tale figura di reato – che suscita numerose e complesse questioni, anche in un’ottica di verifica della coerenza sanzionatoria complessiva del sistema rispetto alle lesioni all’integrità fisica – preme rilevare in questa sede principalmente la terminologia utilizzata dal legislatore. È stata recepita sul piano normativo la definizione “mutilazioni”, prescelta rispetto alle ulteriori denominazioni in uso per richiamare il medesimo fenomeno: “circoncisione femminile”, “operazioni rituali femminili”.

Una questione meramente lessicale?

Al di là delle etichette legislative, dietro le quali è identificabile una pratica indubbiamente lesiva dell’integrità fisica della persona coinvolta – in prevalenza minori – la scelta linguistica non deve passare inosservata. Ci si confronta con una tradizione millenaria, profondamente ambivalente, accompagnata da svariate (sebbene discutibili) ragioni, il cui potenziale simbolico non può essere serenamente ricondotto ad un termine che rivela chiaramente una qualificazione dispregiativa aggiuntiva attribuita dall’osservatore. Un autorevole antropologo, del resto, ha definito emblematicamente quella di cui si discute come la pratica «alla quale non si può dare un nome» (that can’t be named)18. L’imposizione di un nome è un atto di potere, può esteriorizzare una precomprensione, esprimere una scelta ideologica, che dovrebbe però realisticamente (e

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HABERMAS, Jürgen. L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica. Traduzione di Leonardo Ceppa. Milano: Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2008, p. 157.

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Sul sistema penale italiano, come «modello assimilazionista discriminatorio», v. DE MAGLIE, Cristina. I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali. Pisa: Edizioni ETS, 2010, p. 35 ss.

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SHWEDER, Richard A. – POWER, Séamus A. Robust Cultural Pluralism. Europe’s Journal of Psychology, vol, 9(4), pp. 671-686, 2013. In riferimento all’uso della denominazione “femal genital mutilation”, l’autorevole antropologo culturale Richard Shweder ha osservato che «any way you name it presupposes a moral attitude and runs the risk of foreclosing critical reasoning, dispassionate empirical research, argument or discussion», ivi, p. 681.

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responsabilmente) essere rapportata con i limiti della nostra conoscenza dell’oggetto considerato. Ma tali rischi non sembrano aver impensierito il legislatore italiano, anche laddove – nell’ambito dei lavori preparatori della medesima legge – ha espressamente definito le mutilazioni genitali femminili come «l’ultimo retaggio di una tradizione tribale»19.

Una qualificazione unanimemente condivisa?

La questione non è di poco peso, se si considera che i lavori preparatori non hanno contemplato momenti di confronto con i diretti destinatari della normativa in via di elaborazione, ovvero le comunità interessate dalla prosecuzione della pratica e in particolare le donne di tali comunità. L’ascolto di queste “voci” non avrebbe interferito, verosimilmente, con il compimento della riforma legislativa – in linea, del resto, con sollecitazioni espressamente formulate al legislatore dalle fonti sovranazionali – ma avrebbe garantito, quantomeno, uno spettro valutativo meno ristretto sulla pratica in questione, sulle ragioni che ne determinano la sopravvivenza, oltre a sollecitare riflessioni – di sicura utilità – sui differenti significati attribuibili alle a-tecniche qualificazioni di “retaggio” e di “tradizione tribale”.

E sui medesimi toni di colpevole indifferenza rispetto alla dimensione dei significati ai quali un rituale o un simbolo si richiamano sembrano muoversi ulteriori proponimenti di regolamentazione normativa attualmente in atto. Si pensi alla proposta di legge finalizzata all’introduzione della circostanza aggravante dell’aver agito «per ragioni o consuetudini etniche, religiose o culturali»20.

Ma viene soprattutto in considerazione, a questo proposito, la più volte prospettata volontà di incriminare l’uso del velo tradizionale. Di recente, per estremizzate esigenze securitarie o per generiche finalità egualitarie nei confronti di donne che «vivono in Paesi civilmente evoluti»21, si auspica l’introduzione di una nuova fattispecie di reato – da affiancare, non senza

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In questi termini, espressamente, il testo del d.d.l. S.414 comunicato alla Presidenza del Senato il 9 luglio 2001, emblematicamente denominato “Modifiche al codice penale in materia di mutilazioni e lesioni agli organi genitali a fine di condizionamento sessuale”, in www.parlamento.it.

20

Si tratta della proposta di legge n. 3250, d’iniziativa della Deputata Sbai, presentata alla Camera il 24 febbraio 2010, con la quale si auspica l’introduzione nel codice penale, all’articolo 61, del numero 11-quater, recante una circostanza aggravante del seguente tenore letterale: «Se il fatto è commesso per ragioni o consuetudini etniche, religiose o culturali», cfr. www.parlamento.it.

21

Si veda la proposta di legge n. 2422, d’iniziativa dei Deputati Sbai e Contento, presentata alla Camera il 6 maggio 2009. Si legge nel testo della proposta: «Indossare indumenti come il burqa e il niqab, che nulla hanno a che vedere con la cultura della maggioranza delle donne immigrate che vivono in Italia, ma che costituisce un obbligo imposto alle donne da estremisti che vengono dall’Afghanistan, dal Pakistan e da altri Paesi dove prevalgono la cultura estremista e il retaggio di costumi disumani e di violenze familiari inaudite» è inammissibile «sia in linea di principio sia, in particolare, se le donne vivono in Paesi civilmente evoluti», cfr. www.parlamento.it.

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intenti simbolici, al delitto di atti persecutori, di cui all’art. 612 bis c.p. – denominata emblematicamente «costrizione all’occultamento del volto»22.

Una corretta sintesi del dato empirico utilmente spendibile in ambito giudiziario?

Ignorando o trascurando l’estrema diversificazione di casi e di significati ricondotti all’uso del velo tradizionale, sia nella dimensione privata che in quella pubblica, la pratica in questione è stata decostruita, scomposta, ridotta alla sua mera materialità, e il dato culturale che ne costituisce il fondamento e la ragione è stato accantonato. La condotta è stata quindi ri-costruita, con lo scopo dichiarato del contrasto dell’estremismo e dei “costumi disumani”, ricorrendo a categorie concettuali note: i differenti significati dell’uso del velo sono dunque confluiti nella discutibile sintesi “occultamento del volto”, mentre la varietà degli approcci23 e delle posizioni delle donne interessate dalle sorti della pratica sono state collettivamente dirottate nell’offuscante cono d’ombra della “costrizione”.

Ma anche in ambito giudiziario è affiorato un “io pensante” poco incline ad instaurare dialoghi con le “voci” della molteplicità. Esplicite – tristemente esplicite – sono in questo senso alcune dichiarazioni giudiziali emesse in procedimenti penali, che hanno affiancato alla giusta censura di inconsistenza degli argomenti difensivi presentati, ingiusti giudizi rivolti a «culture arretrate», «subculture»24, «tradizioni ancestrali», consuetudini, prassi e costumi «barbari»25 e «antistorici»26.

Innocue argomentazioni ad colorandum?

Proprio perché pleonastiche sul piano argomentativo, simili affermazioni rivelano un approccio non ignorabile, per il messaggio di superiorità culturale contestualmente espresso. È lecito ergersi a giudici, oltre che del fatto, anche dell’altrui evoluzione culturale? Per invitare a riflettere sulla noncuranza, talvolta dilagante, con la quale ci si rapporta a tradizioni culturali

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Si è proposta l’introduzione, al primo comma dell’art. 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152 del seguente periodo: «È altresì vietato […] l’utilizzo degli indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica denominati burqa e niqab», cfr. www.parlamento.it.

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Significative testimonianze della varietà di approcci e di simbologie attribuite al velo in VANZAN, Anna. Le donne di Allah. Viaggio nei femminismi islamici. Milano: Bruno Mondadori, 2010.

24

Cassazione, sez. VI penale, 26.04.2011, n. 26153. Richiamava «opzioni sub-culturali» e «principi di una cultura arretrata» già Cassazione, sez. VI penale, 30.01.2007, n. 3419.

25

Cassazione, sez. VI penale, 20.10.1999, n. 3398.

26

Cfr. Cassazione, sez. VI penale, 26.11.2008, n. 46300, che in una vicenda di maltrattamenti in famiglia ha definito i principi di cui agli articoli 2 e 3 Cost. «uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione, di diritto e di fatto, nella società civile di consuetudini, prassi, costumi che si propongono come “antistorici” a fronte dei risultati ottenuti, nel corso dei secoli, per realizzare l’affermazione dei diritti inviolabili della persona, cittadino o straniero».

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sconosciute e perciò arbitrariamente sottovalutate e disprezzate, l’autorevole filosofo canadese Charles Taylor ha provocatoriamente sottoposto all’attenzione dei suoi lettori un caustico detto popolare: «Quando gli zulù produrranno un Tolstoj, lo leggeremo»27. Al rispetto dovuto a ciascuna delle culture esistenti, per la dignità e per l’umanità che sono in grado di esprimere, si sovrappongono spesso valutazioni prive di riflessività, semplicistici raffronti tra entità incommensurabili, sineddoche che identificano la parte con il tutto28, la condotta con la natura del suo autore, il fatto culturalmente motivato con la cultura tout court. E se tale arbitrario procedere suscita conflitti nel confronto intersoggettivo, lo stesso si colora di accentuata pericolosità quando trova espressione in una sentenza. Quest’ultima, infatti, approda nella dimensione pubblica non come pura e semplice manifestazione di pensiero, opinabile e soggettiva, ma con la veste formale di un atto d’autorità, un atto formato precisamente per jus dicere, e che finisce tuttavia per veicolare inopportuni messaggi di conflittualità e di contrapposizione culturale a prescindere (e oltre) le intenzioni del suo autore.

Nei casi prospettati non è dunque (soltanto) l’infelice terminologia linguistica prescelta a destare perplessità. Non sono le etichette, buone o cattive, o i più o meno riusciti maquillages a mutare il segno o l’opportunità di interventi a tutela di diritti meritevoli di protezione e in concreto minacciati. Preoccupa, piuttosto, la disinvoltura con la quale l’interprete ha confidato unicamente nelle proprie risorse – cognitive, esperienziali, di giudizio – per orientarsi in una complessa trama di tradizioni culturali e religiose, di condizionamenti sociali e di rivendicazioni identitarie, di rapporti individuo-comunità con differenti (e non facilmente conoscibili) livelli di volontarietà e di (effettive o soltanto esteriormente percepite) condizioni di oppressione, di problematiche dinamiche tra un’integrazione imposta e l’intensità di un attaccamento ad un’autenticità da salvaguardare.

Quello oggi dispiegato di fronte a tutti noi, e al giurista in particolare, è un complesso scenario empirico e normativo – una molteplicità multiculturale – che richiede, per essere ri- ordinato, innanzitutto cura per quella qualità in grado di restituire ciascun significato al proprio significante: l’esattezza. Del valore di tale categoria era ben consapevole Calvino, quando ammoniva:

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TAYLOR, Charles. La politica del riconoscimento. In: HABERMAS, Jürgen – TAYLOR, Charles. Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento. Traduzione di Gianni Rigamonti. Milano: Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2008, p. 28.

28

RUGGIU, Ilenia. Il giudice antropologo. Costituzione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali. Milano: Franco Angeli, 2012, p. 152 ss.

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La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata o temuta, come un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto.

Per questo il giusto uso del linguaggio per me è quello che permette di avvicinarsi alle cose (presenti o assenti) con discrezione e attenzione e cautela, col rispetto di ciò che le cose (presenti o assenti) comunicano senza parole29.

4. VISIONI DI MOLTEPLICITÀ: SCRIVERE UN TESTO PLURIMO, TRA DIRITTO PENALE E

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