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Densificazione delle aree sottoutilizzate Francesco Domenico Moccia

1. Il PTCP di Napol

Se consideriamo i Piani Provinciali della Campania, vediamo che tutti, in una misura o nell’altra, si pongono il tema dell’individuazione d’aree di scarso pregio, non utilizzate per la produzione agricola e prive di valori naturalistici o paesaggistici come atto conoscitivo essenziale ai propri compiti. La conseguenza prescrittiva insita in tale indagine trova legittimazione nelle indicazioni del Piano Territoriale Regionale dove si sancisce l’obbligo di risparmio di suolo.

Il primo ad affrontare questo tema è stato il piano della provincia napoletana (coordinatore del gruppo di lavoro Roberto Gambino, con il CIRAM, responsabile Alessandro Dal Piaz) (2009), nel quale l’attenzione si è posta prioritariamente al fenomeno dello sprawl (Provincia di Napoli, 2008). Le tavole del piano intitolate “disciplina del territorio” uniscono strettamente l’interpretazione conoscitiva alla norma. Sotto questo profilo si potrebbero considerare, perlomeno secondo l’aspetto prevalente, come un’analisi morfologica dell’insediamento e dei territori aperti (Apreda, 2009). Nelle denominazioni della zonizzazione non è difficile riconoscere in filigrana classi descrittive delle diverse forme dello spazio metropolitano. I centri e nuclei storici, la cui perimetrazione è avvenuta sulla base di fonte cartografica degli anni ‘50, si è avvalsa anche di una verifica con apposita ricerca di storia urbanistica (De Seta, et al. 2009). Nel relativo volume sono evidenziati, insieme alla dinamica di formazione dei centri, i caratteri fondanti e di pregio dello spazio urbano, della trama urbanistica ed i valori delle costruzioni. Centri e nuclei storici, come si apprende dalla lunga e complessa vicenda dell’area napoletana non costituiscono una sola famiglia morfologica. Si va da compiute espressioni urbane di città murate il cui assetto era pienamente consolidato già nel sec. XVII e XVIII come Sorrento, Nola, Pozzuoli, fino alla vasta rete di villaggi rurali e masserie costituenti la trama strutturante il territorio agrario ed il suo paesaggio.

Densificazione delle aree sottoutilizzate.

Sebbene la definizione d’insediamenti urbani prevalentemente consolidati esibisce una valenza prescrittiva, con una certa velatura di rassegnazione ad un assetto la cui accettazione è dovuta più alla constatazione della difficoltà attuativa di programmi di trasformazione che non alla valutazione della validità degli assetti raggiunti, tuttavia in queste aree è maggiormente registrabile una uniformità morfologica dovuta alle prassi dell’industria edilizia del dopoguerra. Questa espansione corrisponde alla città compatta per la quale i rapporti di densità non sono modificabili. Ma la valutazione positiva si limita al dato quantitativo, senza voler nascondere le carenze in termini di dotazione di servizi, della qualità degli spazi pubblici e dell’architettura.

La terza zona urbana è quella che designa lo sprawl nella versione partenopea. A parte le considerazioni di qualità sull’edilizia ed alle dotazioni urbane, va sottolineata la particolare difficoltà alla trasformazione di queste aree. Molte di loro non consentono alcun tipo d’infilling, come potrebbe avvenire nella banlieu o nei suburbs, perché a fronte di basse densità hanno elevati rapporti di copertura. Gli stessi permangono costanti in termini fondiari anche quando si riducono notevolmente in termini territoriali, per il semplice motivo dell’esistenza di lotti in attesa d’edificazione. Tali fenomeni accadono per la diffusione delle espansioni urbane illegali. E gli indici appena citati rappresentano l’assenza di dotazioni di standard, in assenza di pianificazione. Tutti questi nodi stanno venendo al pettine in Campania, dopo lunghi procedimenti giudiziari condotti con testardaggine e costanza da un nucleo di magistrati delle tre procure di Napoli, Nola e S. Maria Capua Vetere, supplendo alle complicità e omissioni degli amministratori degli enti locali. Siamo ad un’ondata di requisizioni al patrimonio pubblico ed ad operazioni di demolizioni drammaticamente condotte sotto la pressione giudiziaria e con il contrasto di manifestazioni di resistenza degli abitanti che si prolungano in proteste ed occupazioni.

Per dare solo un accenno alla dimensione del fenomeno basti pensare che nel comune d’Afragola di circa 60.000 abitanti, sono pervenuti al patrimonio comunale ben 700 fabbricati realizzati abusivamente e non condonabili. Di loro, che alloggiano non meno di un migliaio di famiglie, pari a circa 3.000 persone, è iniziata la demolizione dei primi tre con grandi manifestazioni di protesta e altrettanto grandi dilemmi nelle posizioni di partiti politici e movimenti ed associazioni civiche. Della possibilità di una svolta ed un percorso risolutore ho scritto in un periodico locale (Moccia, 2009b), che mi limito a richiamare per ritornare immediatamente all’argomento di quest’articolo rientrando rapidamente dalla breve divagazione.

In queste aree i processi di densificazione passano per interventi di demolizione e ricostruzione ma devono fare i conti con una parcellizzazione della proprietà corrispondente ad una “cultura abitativa” che ritiene irrinunciabile la casa unifamiliare, mentre l’alternativa densificata non potrebbe evitare tipi edilizi multifamiliari alti. A ciò si aggiunga la recente realizzazione dei fabbricati e i bassi redditi delle famiglie proprietarie.

Nonostante le suddette difficoltà, il piano non rinuncia a prescrivere la prioritaria attenzione dei comuni, in sede di redazione dei PUC (piani urbanistici comunali), a queste aree, per rispondere alle domande d’abitazioni e servizi. La parte più importante della politica territoriale del piano si manifesta proprio in tali zone anche a livello sovracomunale, perché i processi di riequilibrio demografico devono avvenire con l’offerta che si concretizzerà in loro. Per tal motivo la disciplina le articola in due zone diverse distinte perché alcune di loro sono destinate ad accogliere il saldo naturale presunto locale, mentre altre possono aggiungere ulteriori quote, proporzionate alla taglia del comune, per accogliere flussi migratori incentivati dalle zone di rischio naturale ed antropico dove vigono particolari restrizioni all’attività edilizia.

In aggiunta, troviamo nella disciplina del territorio, le aree di criticità e degrado, la cui individuazione proviene dal filone paesaggistico e dall’approccio più innovativo con il quale è stato affrontato (Gambino, 2009; Castelnovi, 2009). In questo caso, la visione strategica proiettava la pianificazione paesaggistica in un ambiente dinamico e processuale: il paesaggio in divenire non era costituito solamente da un insieme di valori da tutelare ma da un sistema complesso economico sociale vivo in grado di esercitare pressione sui beni culturali e paesaggistici e di produrre continui processi di trasformazione. Tutto ciò avviene nelle coordinate temporali del passato e del futuro. Per quanto riguarda la prima, costringe a registrare quegli ambienti che hanno subito processi di degrado e si presentano, al momento della redazione del piano come ormai compromessi, privi d’interesse e di valori da tutelare; per quanto riguarda la seconda, induce ad avanzare previsioni, sulla base dello sviluppo in atto e delle sue prevedibili direzioni, per riuscire a valutare gli effetti di tali tendenze sull’integrità futura e sulla capacità di conservazione dei valori attualmente esistenti.

La strategia di tutela paesaggistica si muove tra questi due poli con azioni, da un lato, rivolte al recupero di paesaggi perduti e, dall’altro, alla prevenzione, attraverso opportune azioni correttive e mitigatici delle direzioni di sviluppo rilevate, della difesa dei paesaggi di valore esistenti. Questa polarità, che comunque potrebbe risultare insufficiente i dettami della Convenzione Europea sul Paesaggio, per poter essere del tutto adeguata a quest'ultima, deve includere tutto lo spettro intermedio dei territori “privi” di paesaggio. Questa definizione facilmente contestabile (esistono territori privi di paesaggio?) si può tradurre in una rivendicazione politicamente più corretta e scientificamente più accettabile: l’affermazione secondo al quale ogni cittadino ha diritto ad un paesaggio di qualità, a quelle coordinate estetico-identitarie che fanno del suo luogo di residenza la cornice di vita in cui si radica una comunità e a cui gli individui aderiscono.

In tali ordini concettuali si giustifica l’identificazione delle “aree di criticità e di degrado” le quali assurgono a priorità strategiche di trasformazione urbanistico-territoriale in una politica del territorio che si pone evidenti

Densificazione delle aree sottoutilizzate.

obiettivi di qualità e ritiene di dover realizzare la riqualificazione come prioritaria condizione per ottenere le condizioni di base per perseguire un più generale sviluppo locale.

Per queste zone si avrebbe difficoltà a parlare di densificazione se s’intendesse la stessa nei termini più ovvi d’aumento dei carichi insediativi, incremento delle superfici coperte e degli indici di fabbricabilità. Si tratta sempre d’operazioni più complesse che includono trasferimenti e bonifiche d’aree urbanizzate (e che si devono avvalere dell’incremento di volume al fine di rendere i costi di riqualificazione sostenibili con operazioni di mercato poco, se non per niente.

assistite dai fondi pubblici), di rinaturalizzazioni, di ricostruzioni di ecosistemi locali e di restauri paesaggistici. Non deve meravigliare che operazioni di “ricostituzione della natura” o di “attualizzazione di paesaggi culturali- storici” di tal natura, implicano compattamenti densificati pluriuso complementari. Raccogliere e concentrare ciò che si è andato spargendo e diffondendo ottiene precisamente quello scopo.