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Quarto cammino: Geoscritture imperiali e postcoloniali

1.3. Terzo itinerario: Letteratura, spazio e sentieri che si biforcano

1.3.6. Quarto cammino: Geoscritture imperiali e postcoloniali

Il rilevamento dell’organizzazione simbolica degli spazi narrativi è all’origine della ricerca di Edward Said, che nel suo saggio Culture and Imperialism cala il suo occhio critico all’interno del “campo di battaglia” rappresentato dalla cultura al fine di accertare e valutare la connessione tra imperialismo e letteratura. Il rapporto figurativo che lega lo spazio ai racconti è secondo l’autore stringente ed essenziale alla nascita e allo sviluppo del progetto imperiale: giacché le opere letterarie sono preziose e interessanti proprio per la loro “worldliness, because of their complex affiliations with their real setting”198, esse si dimostrano necessariamente implicate nel processo di formazione ideologica della pratica imperiale, che “[a]t some very basic level […] means thinking about, settling on, controlling land that you do not possess, that is distant, that is lived on and owned by others.”199 Metodologicamente, l’operazione di Said si traduce nell’adozione di una prospettiva “contrappuntistica” che fa affiorare quelle “strutture di atteggiamento e riferimento” nascoste sotto la superficie di racconti e romanzi, intesi come oggetti della rappresentazione e soggetti di produzione dell’ideologia dominante. Accostando punti di vista ed esperienze culturalmente chiusi gli uni alle altre e focalizzando la propria attenzione critica sulle modalità attraverso le quali le configurazioni spaziali e i riferimenti geografici del mondo reale emergono all’interno delle opere letterarie, Said esercita una lettura che si potrebbe dire doppiamente “spazializzata”: essa, infatti, sembra indirettamente muovere sia nella direzione della proposta di Frank (come la “forma spaziale”, anche il contrappunto concerne una giustapposizione sincronica, precisamente la “simultaneous awareness both of the metropolitan history that is narrated and of those other histories against

196 Cfr. Said, Culture and Imperialism cit., pp. 132-162 e 80-97. 197

Vincent Jouve, «Spazio e lettura: la funzione dei luoghi nella costruzione del senso», in Sorrentino (ed.), Il senso dello spazio cit., p. 64.

198 Said, Culture and Imperialism cit., p. 13. 199 Ivi, p. 7.

which (and together with which) the dominating discourse acts”200), sia in direzione della strategia interpretativa avanzata da Kristeva prima e da Friedman poi (grazie all’adozione di un approccio relazionale che consente di individuare le peculiari topografie imperiali anche all’interno di opere apparentemente estranee all’ideologia ufficiale).

Secondo Said, il genere romanzesco possiede una vocazione enciclopedica: all’interno di ogni romanzo si possono infatti riconoscere non solo i meccanismi precipui di costruzione della trama, ma anche la precisa traccia delle forme e dei legami sociali che dipendono direttamente dalle istituzioni della società entro il quale esso viene concepito. Non è dunque un caso che il romanzo abbia conosciuto a partire dal Settecento una tradizione ininterrotta in quei paesi dove la narrativa ha giocato un ruolo fondamentale nel progetto imperiale, e che nel corso dell’Ottocento esso raggiunga in Inghilterra il suo massimo grado di successo e popolarità, diventando la forma estetica per eccellenza: accettando aproblematicamente l’idea dell’assetto coloniale come realtà data e immutabile, quando non direttamente corroborando la politica espansionistica ed egemonica della madrepatria, il romanzo inglese ottocentesco diventa parte del tentativo europeo di controllare, pensare e fare progetti sui territori d’oltremare201. Said non intende ovviamente sostenere che le narrazioni inducono i popoli a conquistare le terre che si estendono oltre i propri confini; egli mostra nondimeno come il romanzo borghese concorra a rimarcare il progetto imperiale, non solo astenendosi dal contestare la sua dottrina e pratica politica, ma offrendo, attraverso i movimenti dei personaggi su un ampio teatro di azione, una concreta narrativa che mette in scena l’espandersi e il dislocarsi dell’individuo su uno spazio che richiede di essere trasformato in luogo per potere essere pienamente goduto.

L’importanza del saggio di Said risiede nella sua originale e sovversiva proposta metodologica, applicabile entro il campo degli studi postcoloniali e comparati della letteratura; in aggiunta, esso costituisce, insieme al già citato Orientalism, una tappa fondamentale del percorso di riordinamento dei saperi e dei metodi di indagine in senso spaziale. Se, come afferma lo stesso autore, “[a]fter Lukacs and Proust, we have become so accustomed to thinking of the novel’s plot and structure as constituted mainly by

200 Ivi, p. 51. 201 Cfr. ivi, p. 68.

temporality that we have overlooked the function of space, geography, and location”202, le analisi che compaiono all’interno delle sue pagine riportano al centro la dimensione della spazialità, mettendo in evidenza la connotazione geografica e il processo di mappatura teorica del territorio sotteso ai prodotti della cultura occidentale. La funzione della dimensione spaziale nei lavori presi in esame, che vanno dai romanzi più apertamente coinvolti nel discorso imperiale – come Heart of Darkness di Joseph Conrad (1899-1902) e Kim di Rudyard Kipling (1901) – alle opere più apparentemente distanti – quali il romanzo Mansfield Park di Jane Austen (1814) e l’opera lirica Aida di Giuseppe Verdi (1871) –, è perlomeno triplice. In primo luogo, la distribuzione polarizzata e “razziale” dello spazio nei racconti serve a riconfermare costantemente l’autorità dell’osservatore europeo: nei romanzi di Kipling l’India è così descritta a partire da una prospettiva propriamente anglo-indiana, che, sebbene possa risultare a suo modo già distante ed estranea rispetto allo sguardo della madrepatria, non manca di collocarsi al di qua di quella linea discriminatoria oltre la quale si trova l’“Altro” coloniale, a cui è negata ogni possibilità di autosignificazione e il cui senso e la cui esperienza dipendono direttamente dal soggetto imperiale. In secondo luogo, i diversi spazi sono ordinati entro una rigida scala gerarchica che coincide con un preciso sistema di valori. Se i romanzi tardo-ottocenteschi tematizzano esplicitamente la centralità geografica e morale dell’Occidente in opposizione alla decadenza e alla dissolutezza delle periferie dell’impero, anche la narrativa più anteriore che non ha in oggetto le vicende coloniali “sanctions a spatial moral order, whether in the communal restoration of the town of Middlemarch centrally important during a period of national turbulence, or in the outlying spaces of deviation and uncertainty seen by Dickens in London’s underworld, or in the Brontë stormy heights.”203 Ancor più esemplare è il caso dell’austeniano Mansfield Park, che secondo Said documenta l’inscindibilità del rapporto tra il processo coloniale di espansione territoriale e l'etica che esso precede e garantisce. In questo romanzo la colonia di Antigua è sì ridotta a una semplice allusione, referente privo di caratteri sociali e culturali, ma è allo stesso tempo ciò che rende possibile la stabilità e la bellezza della tenuta dei Bertram. Servendosi di una modalità immaginativa che l’autore definisce “geographical and spatial clarification”204,

202 Ivi, p. 84. 203 Ivi, p. 79. 204 Ivi, p. 85.

la Austen articola i diversi episodi attorno a questioni relative all’uso corretto o improprio dello spazio, espressione del sistema di valori che regola non solo la vita a Mansfield Park, ma anche, su una più ampia scala, la colonia di Antigua e l’intero apparato coloniale. In terzo luogo, infine, i romanzi contribuiscono alla promozione di un discorso culturale che figura il non-europeo come soggetto politico subalterno: la metropoli deriva infatti la propria autorità da una svalutazione ontologica dell’“Altro” che giustifica lo sfruttamento economico necessario a garantire prosperità e sicurezza in patria. In conclusione al romanzo di Elizabeth Gaskell Cranford (1851-1853), per esempio, il ritorno dall’India di Peter Jenkyns avvalora la concezione del luogo coloniale non solo come fonte di risorse finanziarie necessarie a mantenere gli agi della vita nella madrepatria (mediante le ricchezze accumulate, Peter assicura per sé e per l’impoverita sorella Miss Matty, protagonista del romanzo, un futuro prospero), ma anche come territorio interamente sottoposto ai racconti orientalisti del colonizzatore (“more wonderful stories than Sindbad the Sailor” che trasformano Peter nel beniamino delle signore della cittadina, “[who] liked him the better, indeed, for being what they called ‘so very Oriental.’”205).

In conclusione, Said invita il critico ad adottare una prassi di lettura rivolta ai non-detti del testo, di cui è necessario districare la trama superficiale per osservarne l’intelaiatura segreta o la matrice implicita, arrivando così a considerare “the geographical division of the world […] as not neutral (any more than class and gender are neutral) but as politically charged”206.

Nel corso del primo di questi tre itinerari di avvicinamento si è già fatto cenno, percorrendo lo “spazio dell’Altro”, alla riappropriazione spaziale compiuta dal soggetto coloniale attraverso la scrittura. La connivenza tra la cultura occidentale e il progetto imperiale denunciata da Said viene infatti direttamente o indirettamente contestata dalla produzione artistica proveniente dalle colonie, la quale, anche quando non sembra apparentemente coinvolta in questioni geopolitiche, persegue una decolonizzazione dell’immaginario proprio mediante la messa al centro e la successiva messa in discussione della spazialità coloniale. Lungi dal rappresentare uno scenario inerte o un semplice dettaglio di ambiente, il paesaggio dei romanzi scritti nella fase della lotta contro l’impero e della successiva indipendenza viene così elevato al rango di vero e

205 Elizabeth Gaskell, Cranford, Oxford, Oxford University Press, 1998, p. 154. 206 Said, Culture and Imperialism cit., p. 93.

proprio protagonista. Si pensi a esempio al ruolo emblematico ricoperto nell’omonimo romanzo di Raja Rao (1938) da Kanthapura, villaggio immaginario inserito nello storico stato del Mysore, che permette – grazie al suo evidente legame con il dato reale (sottolineato, al di là di ogni cadenza lirica e metafisica, dall’impianto realistico del racconto) – di avvicinare la concezione gandhiana del Gram Swaraj (l’autosufficienza e l’autogoverno dei villaggi) e allo stesso tempo – grazie alla sua natura finzionale – di creare, all’interno di un territorio fagocitato dal potere britannico, uno spazio di resistenza, prefigurando infine la nazione indipendente e avanzando, attraverso la distruzione del villaggio e la sua riedificazione spirituale a Kashipura, la concezione di un’India intesa come realtà spirituale permanente che trascende le contingenze del tempo e dello spazio.

Sia lo scrittore proveniente dalle colonie sia il suo epigono postcoloniale fondano “sulla concretezza del luogo stesso, descritto attraverso il contatto e non riprodotto con il solo pensiero, la novità della [loro] produzione”207. È questo un luogo proprio, uno spazio non più “altro” verso il quale è possibile instaurare relazioni di topofilia; allo stesso tempo, però, esso non è esclusivo né immutabile: l’identità postcoloniale non è infatti radicata, ma “rizomatica”208, cioè alloggiata in uno spazio specifico simultaneamente in contatto con tutti i luoghi del mondo.