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188 Rassegna bibliografica coinvolto intellettuali e scrittori di spicco, tra cui Fran-

co Calamandrei, traduttore, insieme a Nicoletta Neri, del romanzo All’ombra delle fanciulle in fiore (1949), Mario Bonfantini, che ha siglato I Guermantes (1949), Franco Fortini, traduttore di Albertine scomparsa (1951) e Giorgio Caproni, che ha curato la traduzione de Il tempo ritrovato (1951).

Particolarmente interessante è l’analisi condotta dall’A. nella seconda parte del suo lavoro. Con un’am- mirevole finezza d’analisi, oltre che con un acuto senso critico, la studiosa si sofferma sulle traduzioni di Casa

Swann di Bruno Schacherl e su La strada di Swann di

Natalia Ginzburg.

La prassi traduttiva di Schacherl in Casa Swann si connota, per sua diretta ammissione, come un esercizio stilistico non sostenuto da riflessioni metodologiche, né tantomeno da preoccupazioni inerenti la ricezione testuale. Il risultato traduttivo risente dell’inesperienza del giovane intellettuale, all’epoca poco più che ven- tenne. Questi semplifica sistematicamente l’architettu- ra sintattica, abolendo così la tensione intellettuale del testo di partenza, ridisegna i paragrafi, riformulando, scrive Raccanello, «la transizione da un periodo all’al- tro con un’interpunzione normativa» (p. 39). Ciò con- tribuisce con ogni evidenza a snaturare un libro che fa della mancanza dei dialoghi e dei capitoli – propri dei romanzi per così dire tradizionali – uno dei suoi tratti distintivi.

Nella ristampa del 1965, licenziata sempre da San- soni, Casa Swann diventa Dalla parte di Swann, ma il traduttore, o forse l’editore, non sente la necessità di quella che Antoine Berman chiama retraduction. Ecco allora che ritroviamo la stessa dissoluzione della trama ipotattica di Casa Swann, senza tenere conto della le- zione di Leo Spitzer, pur citato nell’Introduzione della versione del 1965, che aveva indicato nella complessi- tà delle frasi proustiane, che tentano «per via sintatti- ca una forma di pittura verbale» (p. 45), la peculiarità precipua della Recherche.

Al pari di Bruno Schacherl anche Natalia Ginzburg ha intrapreso il lavoro di traduzione del volume La

strada di Swann a vent’anni, senza essersi mai accosta-

ta a questo tipo di lavoro, come rivela nella sua Nota

del traduttore che accompagna la ristampa del 1990.

Nel caso della Ginzburg non si riscontrano concessio- ni all’indole creativa e alla cifra stilistica personale. L’a- desione alla struttura del testo di partenza è manifesta, arrivando talora, rileva Raccanello, ai limiti dell’inter- ferenza linguistica (p. 70). La sua traduzione ha riscos- so il plauso di Giacomo Debenedetti, nonostante il cri- tico biellese vi avesse ravvisato alcune sviste, che non inficiavano comunque, a suo dire, il valore di un lavoro così impegnativo.

La casa editrice Einaudi ha fatto revisionare due volte la traduzione de La strada di Swann, affidando- si prima a Paolo Serini agli inizi degli anni Sessanta, e successivamente a Mariolina Bongiovanni Bertini nel 1978. Serini mantiene lo stesso titolo, ma opera numerose variazioni in nome di nuovi criteri tradut- tivi, applicati peraltro non sempre omogeneamente. L’intervento della Bertini, che recupera la forma ori- ginale di alcuni termini, ad esempio madeleine, che la Ginzburg aveva reso con «maddalenine», viene vissuto come abuso sul proprio testo da quest’ultima, come ri- vela nella Nota del traduttore apparsa nell’edizione de

La strada di Swann licenziata da Einaudi nel 1990. La

scrittrice ha considerato tale edizione come un gradito omaggio alla sua «vecchia, difettosa, appassionata» tra- duzione del 1946 (p. 87).

L’auspicio è che studi rigorosi di critica della tradu-

zione, come quello presentato da Manuela Raccanello, siano condotti anche per le altre opere di Proust.

[FrancescaPiselli]

PhiliPPe et PaulineDe Flers, Robert de Flers. Du théâtre à la Coupole. Biographie, discours de Robert de Flers et hommages rendus, préfaces de Francis veber

et de Pierre barilleT, Paris, Champion, 2013 («Cham-

pion Essais», 35), pp. 208.

Per celebrare il centenario – nel 2013 – de L’Ha-

bit Vert, popolarissimo vaudeville scritto da Robert de

Flers poco prima della Grande Guerra, il nipote del drammaturgo, Philippe de Flers, aiutato dalla moglie Pauline, ha raccolto una serie di documenti preziosi (te- sti e fotografie), tratti dagli archivi di famiglia, al fine di restituire un ritratto quanto più possibile autentico del letterato, eroe di guerra e uomo politico conosciuto con il nome di «marquis de Flers». Non è facile riassu- mere le molteplici e variegate «imprese» di Robert de Flers, che dopo aver scritto, in compagnia del fedele Gaston de Caillavet, L’Habit Vert, satira arguta dell’uni- verso degli académiciens, si vedrà indossare per davvero il celebre abito il 16 giugno 1921, quando sarà accolto tra gli immortali dell’Académie française. Le tre parti, distinte e complementari, di cui si compone il volume, rendono conto della complessa personalità di un intel- lettuale che ha affrontato anche la guerra con il sorriso. Nella prima parte, «De L’Habit Vert à la Coupole» (pp. 19-80), si ripercorrono sommariamente le grandi tappe della vita di Robert de Flers, dagli studi giuridici fino alle prime pubblicazioni (Vers l’Orient, premiato dall’Académie française) che lo indirizzano definitiva- mente verso la letteratura. Dall’amicizia con Marcel Proust all’incontro con Caillavet, con cui il dramma- turgo formerà il celebre duo, gli autori si soffermano in particolare sulla nascita e sulla composizione de L’Ha-

bit Vert, fornendo numerosi dettagli sulla scenografia,

le scelte dei costumi, nonché le reazioni della stampa che accompagnarono il trionfo dell’opera, rappresen- tata la prima volta nel novembre 1912. Viene altresì narrato l’importante ruolo diplomatico ricoperto da de Flers, nel corso del primo conflitto mondiale, tra Francia e Romania: de Flers riceverà la Legion d’Ono- re per il valore militare delle sue azioni. In conclusione, vengono descritti i retroscena della sua elezione all’A- cadémie, nonché le successive collaborazioni teatrali con Francis de Croisset, che lavorò a fianco di de Flers dopo la scomparsa di Caillavet.

Nella seconda parte del volume, «Discours de Ro- bert de Flers» (pp. 81-142) sono riprodotti per intero il Discours de réception à l’Académie française, che ben dimostra l’intelligenza briosa e non priva di sobrietà del suo autore, nonché il testo, meno facilmente repe- ribile, pronunciato nell’ottobre del 1921 su La Langue

française et la guerre, interessante disamina del genio

universale della lingua francese in chiave politica e di- plomatica.

La terza parte, «Hommages et souvenirs» (pp. 143- 198), completa il ritratto dell’uomo, del politico e del letterato, con gli omaggi di Louis Barthou, Édouard Herriot, Francis de Croisset e Henry Bordeaux, da cui emerge la «civilité profonde» (p. 154) dell’esprit che contraddistingue Robert de Flers. Il volume è corre- dato, in pagine non numerate, da numerose fotografie, riproduzioni di lettere e disegni, frutto delle ricerche d’archivio degli autori.

marion DeniZoT, Le “Théâtre de la Révolution” de Romain Rolland. Théâtre populaire et récit national, Pa-

ris, Champion, 2013 («Littérature de notre siècle», 47), pp. 289.

Esperta di studi teatrali i cui campi di ricerca ver- tono soprattutto sulla storia delle politiche e delle istituzioni teatrali, sull’eredità del teatro popolare e sulla rappresentazione drammatica della storia, nel presente volume Denizot coniuga questi suoi inte- ressi analizzando l’opera di Romain Rolland come un «phénomène social total» (p. 9) di cui è impor- tante evidenziare i legami esistenti tra teatro e conte- sto socio-culturale, rappresentazioni mentali, sistema di valori e pratiche culturali. Nella prima parte del volume l’A. prende infatti in considerazione, oltre a

Le Théâtre du Peuple – il più noto contributo teori-

co dell’artista – anche la corrispondenza, i diari, e il ciclo drammatico – ancora molto poco rappresentato e altrettanto poco studiato – del Théâtre de la Révo-

lution, composto da otto pièces scritte tra il 1898 et il

1938. La seconda parte verte sull’analisi della ripresa, nel 1936, de Le Quatorze Juillet di Gémier, ripresa che segna l’esplicitazione del legame ideale e ideolo- gico esistente tra il teatro popolare di fine xix secolo,

il Front Populaire e il suo programma politico per un teatro che si vuole, appunto, popolare, e il pensiero di Rolland che tuttavia – così come esplicitato nella terza parte del lavoro – non risulta esente da ambigui- tà e contraddizioni relativamente al rapporto con la produzione dell’epoca e a quello con il popolo, ideale destinatario della rappresentazione.

Ancora relativamente misconosciuta, l’opera di Rolland viene qui contestualizzata dal punto di vista estetico e storico ed esaminata nella sua unicità al fine di meglio comprendere come Le Théâtre de la Révo-

lution si inserisca non solo nel filone del teatro popo-

lare ma anche nel movimento di democratizzazione della cultura della prima metà del secolo scorso. Ad un livello più “epidermico”, l’A. evidenzia la concre- tizzazione di numerosi enjeux del teatro popolare – la presenza in scena del popolo, la semplicità dell’azio- ne drammatica, il costante confronto dell’individuale e del collettivo. Ad un livello più profondo, lo stu- dio mostra come il pensiero di Rolland si riallacci al movimento del teatro popolare in quanto fondato su una concezione unica della nazione e sull’idea vitali- stica e idealistica di un’arte, quella teatrale, finalizzata al rinnovamento di una società decadente. Per Deni- zot, l’opera in questione non solo si presenta «comme l’expression d’une vision singulière du monde, fon- dée sur la foi en l’Homme, et dans le même temps, comme le fruit d’un contexte historique, qui s’efforce de refonder l’unité nationale» (p. 252), ma trova nella Rivoluzione francese un riferimento quasi obbligato. Il ricorso alle istanze e agli avvenimenti rivoluzionari appare quindi non solo come la tensione verso la ri- cerca – a livello di estetica drammatica così come di visione del mondo – delle premesse di un’arte vera- mente nazionale e «popolare», ma anche come una matrice funzionale a spiegare e riconsiderare evolu- zioni storiche coeve quali l’impennata nazionalista della fine del xix secolo, le lotte per la supremazia in

Europa durante la prima guerra mondiale, l’ascesa di regimi autoritari in URSS e in Europa tra gli anni Venti e Trenta.

[PaolaPeraZZolo]

Alain GouleT, Les “Corydon” d’André Gide, Paris,

Orizons, 2014, pp. 221.

Considerato come uno dei massimi esperti dell’o- pera di André Gide, Alain Goulet ci invita a riscopri- re Corydon, uno dei testi più complessi e controversi dell’autore. Il saggio è concepito come prolungamen- to e completamento della recente pubblicazione di

Corydon nella «Bibliothèque de la Pléiade» (2009), cu-

rata dallo stesso Goulet. Il volume è diviso in due parti. Nella prima parte, il critico ricostruisce la lunga sto- ria di Corydon e formula alcune precisazioni riguardo alle cinque diverse versioni del testo, di cui presenta le principali caratteristiche. Ripercorrendo le varie tap- pe della genesi e dell’elaborazione dell’opera, dal 1911 al 1935, anno della pubblicazione dell’ultimo Corydon rivisto e corretto dall’autore, l’A. cerca di cogliere il pensiero di André Gide in movimento. Un ampio spa- zio è dedicato alla presentazione del materiale di cui lo scrittore si è servito prima e durante la redazione. Con lo scopo di reintegrare l’omosessualità nell’ordine na- turale, André Gide ha infatti accumulato una notevole quantità di note preparatorie e vari articoli scientifici, di cui sono riportati degli estratti.

Alain Goulet rivolge particolare attenzione al

Corydon del 1911, il testo che André Gide ha da sem-

pre considerato come l’edizione originale. Apparso in forma anonima con il titolo di C.R.D.N., il libro com- prende solamente i primi due dialoghi e una piccola parte del terzo, interrotto in modo piuttosto brusco. Destinato ad alcuni amici intimi, dai quali l’autore si aspettava un primo riscontro, è di fatto rimasto per an- ni nel suo scrittoio. Nel presente saggio, il C.R.D.N. del 1911 si trova per la prima volta riprodotto nella sua interezza.

Nella seconda parte del libro, l’A. raccoglie nume- rosi documenti relativi a Corydon, per la maggior parte inediti. Di particolare interesse sono i testi provenienti dagli archivi Catherine Gide, tra cui delle lettere in cui giovani sconosciuti confessano all’autore le proprie in- clinazioni omosessuali. Di grande valore sono inoltre gli appunti di André Gide sulla personalità di Marcel Proust; in poche pagine, il critico sintetizza con grande efficacia ciò che lega, e al contempo divide, i due scrit- tori. Passando per la prefazione all’edizione americana di Corydon (1947), ultima riflessione dell’autore sulla propria opera, il saggio si conclude con due articoli, di cui uno molto recente. A dimostrazione dell’importan- za e dell’attualità del testo gidiano, Alain Goulet cita un articolo apparso in occasione del dibattito sul «ma- riage pour tous» (2012). Opera di una vita, Corydon è ancorato nella propria epoca e al contempo proiettato verso il futuro, tanto da essere, secondo il curatore del saggio, un riferimento imprescindibile per la società moderna.

[PaolacoDaZZi] La Linguistique de Claudel. Histoire, style, savoirs,

sous la direction d’emmanuelle Kaës, Didier alexan- Dre, Paris, Classiques Garnier, 2014 («Rencontres»,

71), pp. 212.

Il presente volume raccoglie una serie di saggi, tesi ad esplorare il rapporto di Paul Claudel con la scienza linguistica del suo tempo. I diversi contributi presentati mettono in luce come, per l’autore de Le Soulier de sa-

tin, la riflessione linguistica nasca sempre dal dato con-

creto, ovvero dall’osservazione dei fenomeni in atto nel complesso tessuto del testo, che Claudel manipola, al fine

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Rassegna bibliografica

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