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194 Rassegna bibliografica si innesta in sistemi poetici e ideologici affatto diver-

si – sia essa un esercizio di inappellabile autenticità, fantastico rifugio nel mensonge, emanazione di una pulsione totalmente terrena, oppure di un anelito es- senzialmente trascendente.

Nel capitolo dal titolo «L’homme est né pour le bonheur», dedicato all’opera di Gide, Adinolfi rico- struisce le più sottili implicazioni teoriche del bonheur

de la sincérité perseguibile solo attraverso un’eman-

cipazione dalla morale precostituita che affligge les

esprits faux e mediante un radicale svelamento di sé.

Questo ritorno ad uno sguardo puro su sé e sul mon- do – rappresentata dalla ricorrente immagine antifra- stica della cecità – è vincolato alla conquista di un’au- tentica libertà, condizione ineludibile del bonheur. Diversa, e contrapposta al bonheur terreno, è invece la Joie data dalla restaurazione di una freschezza e di una purezza della fede invocata nei romanzi di Berna- nos. Nel capitolo «Tout est grace» l’A. illustra come nella prosa di Bernanos il perseguimento di un’auten- tica Joie ultraterrena sia appannaggio di chi ritrova, seguendo un percorso segnato dalla tristesse e dall’«a- gonia» terrena, l’innocenza dell’état d’enfance e con essa la grazia di Dio. La leggerezza e il gioco, come pratiche immaginifiche capaci di penetrare nell’unica dimensione autentica della vita, la poesia, sono invece la cifra del bonheur in Cocteau, il quale, secondo una concezione orfica dell’arte, riconosce ancora una vol- ta nell’enfant terrible, nell’imposteur, l’eletto detentore della chiave d’accesso al mondo ultraterreno dell’im- maginazione.

Nel solco di Nietzsche, per Montherlant negare un significato metafisico all’esistenza significa conferire senso ad ogni singola esperienza estemporanea, fonte di piacere se concepita in tutta la sua caducità. L’indi- viduo, unico maître della propria felicità, dovrà quindi calibrare con sapiente alternanza appagamento e pri- vazione, e intraprendere una quête che determinerà il perimetro di senso dell’esistenza. Il bonheur per Al- bert Camus è concepibile solo nel segno dell’amore e della solidarietà verso gli altri esseri umani, ed è auten- tico solo in quanto bonheur «negativo», ovvero quan- do nasce nella consapevolezza dell’assurdo.

Nell’escursione poetica e ideologica dei percorsi, Adinolfi lascia intuire anche alcune consonanze, pro- prie di un momento storico, e di un fermento culturale impegnato nella liquidazione di tutta la tradizione car- tesiana e di una produzione che a diverso titolo è in- fluenzata dalle letture nietzschiane: il bonheur, nuova risorsa di senso esistenziale, è sempre inteso nel nesso stringente ch’esso, in modo diverso, contrae con uno stato primigenio e incontaminato, ed è relazionato «alla parte più istintiva e naturale dell’essere umano, sia a livello sensoriale, sia a livello morale e spiritua- le» (p. 9).

[GiuliaboGGiomarZeT]

sylvie ballesTra-Puech, Templa serena. Lucrèce au miroir de Francis Ponge, Genève, Droz, 2013, pp. 470.

In questo saggio denso e complesso, Sylvie Balle- stra-Puech indaga l’influenza esercitata su Ponge dal celeberrimo poema di Lucrezio, a cui il poeta nove- centesco, autore di un suo personalissimo De natu-

ra rerum, era accomunato dall’importanza attribuita

all’osservazione razionale della natura.

A dimostrare la contiguità tra le due opere non so- no solo i numerosi rimandi espliciti, le citazioni dirette e indirette, le suggestioni, le riprese di immagini e gli

echi più sottili, peraltro finemente analizzati nel volu- me, ma anche analogie di fondo nel pensiero dei due autori.

Tra queste, la prima su cui Sylvie Ballestra-Puech concentra la sua attenzione è l’interesse rivolto al feno- meno linguistico, all’origine del linguaggio verbale e al suo rapporto con gli oggetti: se per Lucrezio il suono, nato dall’emozione, conserva la capacità di suscitar- la, anche per Ponge nominare qualcosa significa, sia pur in modo tortuoso, esprimere e glorificare la ma- teria. Tra mondo e linguaggio vi è inoltre un’analogia di funzionamento, in quanto entrambi si costruiscono attraverso combinazioni di elementi semplici quali gli atomi e le lettere. A questa visione della lingua vanno ricondotte anche alcune tecniche di scrittura, come la paronomasia, le figure di suono, lo sviluppo di mots-

thème, che fanno dell’opera di Ponge «moins [le] récit

d’une genèse du monde [que la] création d’un monde verbal homologue au monde des choses» (p. 67).

A fornire a Ponge un’ulteriore chiave di accesso al poema di Lucrezio fu, ricorda l’A., il filosofo Bernard Groethuysen, che gli fece conoscere il titolo dell’ope- ra di Cardano De varietate rerum. Nell’osservazione del mondo, il poeta era infatti soprattutto colpito dalla capacità della materia di dare luogo a oggetti tanto di- versi a partire da alcuni limitati elementi, varietà a cui corrisponde nell’opera una vera e propria poetica del- la variazione che avvicina molte pagine di Ponge alla tipologia musicale della fuga (E. Noulet, cit. a p. 131) e che giustifica l’ammirazione manifestata dall’autore anche per le Metamorfosi di Ovidio.

Nel suo continuo dialogo con l’opera lucreziana Ponge si inserisce inoltre, a suo modo, anche nel di- battito sviluppatosi nei secoli attorno all’opera e alla figura di Lucrezio. Ponge prende in particolare posi- zione contro l’interpretazione di Benjamin Logre che nel 1946, aggiungendosi a una lunga schiera di detrat- tori, pubblicava L’Anxiété de Lucrèce, interpretazione clinica dell’opera di Lucrezio in cui, forzando non po- co il testo lucreziano, tentava di avvalorare la tesi di San Gerolamo di un Lucrezio affetto da disturbi psi- chici che lo avrebbero condotto fino al suicidio.

Sylvie Ballestra-Puech approfondisce infine la poe- tica della contemplazione, a cui la citazione lucreziana del titolo, templa serena, allude. Ogni oggetto, anche minimo, è un mondo a sé e al tempo stesso contiene il mondo, poiché costituisce un frammento della sua tessitura. Come i quadri di Braque, non a caso amato dall’autore del Parti pris des choses, i testi di Lucrezio e quelli di Ponge sono altrettanti templa, ossia porzio- ni di mondo, frammenti in cui «l’océan de la matière devie[nt] objet de contemplation au lieu d’être ressen- ti comme une menace d’annihilation» (p. 208).

[saraarena]

caTherine laWs, Headaches Among the Overtones. Music in Beckett/Beckett in Music, Amsterdam-New

York, Rodopi, 2013 («Faux titre», 391), pp. 508. In un capitolo del suo Literature, Modernism and

Dance (Oxford University Press, 2013, pp. 279-306),

Susan Jones dimostra in modo circostanziato come, al convergere di influssi che vanno da Kleist alle avan- guardie storiche e nonostante l’estraneità di Beckett al culto del Gesamtkunstwerk e la sua scarsa propen- sione per il balletto allorché ridimensiona la musica a mero supporto della danza, il teatro beckettiano rap- presenti anche uno spazio di sperimentazione coreo-

grafica: tensioni concettuali come quelle tra mente e materia, animato e inanimato, dinamismo e inerzia, espressività del gesto e meccanizzazione del movimen- to, si traducono in principi formalizzanti e dispositivi drammaturgici progressivamente orientati verso l’a- strazione ritmico-geometrica.

Allo stesso modo, nel suo ponderoso e documen- tatissimo volume, Catherine Laws rileva e supera i li- miti di certo impressionismo interdisciplinare che ri- duce la comparazione tra Paroles et Musique – titolo di un dramma radiofonico dove la Musica diventa un personaggio, qui commentato nel capitolo 8 relativa- mente alla tardiva partitura di Feldman – ad analogie non sempre sufficientemente approfondite, benché giustificate. Nel suo lavoro, estremamente informati- vo non solo sulle collaborazioni con vari musicisti, ma anche sulle conoscenze e sui gusti di Beckett pianista dilettante e grande appassionato di musica, l’A. mette a frutto un sapere settoriale che rende tuttavia accessi- bile anche ai non esperti riconducendo puntualmente le osservazioni musicologiche alle grandi problemati- che affrontate da uno scrittore che concepiva la sua opera innanzi tutto come una «questione di suoni fon- damentali».

Corredato di indice – sia dei nomi che delle ope- re –, il libro è suddiviso nelle due parti annunciate dal sottotitolo: la musica in Beckett e Beckett in musica. Dopo aver contestualizzato gli interessi musicali dello scrittore sul piano biografico e culturale, l’A. si con- centra sulle idee espresse nel saggio sulla Recherche e, mediante l’alter ego Belacqua, nelle prose inglesi degli anni Trenta: tra Schopenhauer e Pitagora, pas- sando per Proust, l’idealizzazione astratta della musi- ca come controparte della parola, come arte eminen- temente incorporea e areferenziale, è controbilanciata da una pronunciata attenzione per la dimensione per- formativa dell’esperienza dell’ascolto. Con un’effica- ce infrazione all’ordine cronologico, alle considerazio- ni del primo Beckett su Beethoven, e in particolare sull’«indicibile traiettoria» che disegnano gli intervalli della Settima Sinfonia, viene accostato lo studio del trattamento che Beckett riserva, molti anni dopo e in una ri-composizione ulteriormente mediata sia dal ge- sto attoriale che dall’inquadratura televisiva, alle note tratte dal Trio op. 70 n. 1 nel videodramma intitolato appunto Ghost Trio. In merito al riferimento musica- le più frequente in Beckett, quello a Schubert, si giu- stappongono poi le analisi del radiodramma All That

Fall (Tous ceux qui tombent), di cui vengono prese in

esame sia la realizzazione britannica che quella ameri- cana, e della pièce per la televisione Nacht und Träu-

me, dove le uniche parole che si odono sono quelle

dell’omonimo Lied. Mezzo per interrogare i rapporti tra suono e senso, nonché le condizioni e i limiti del linguaggio verbale e, più ampiamente, dei processi di rappresentazione, la musica consente altresì al dram- maturgo di problematizzare – inscenandola visiva- mente e/o acusticamente, tra realtà e immaginazione, tra suoni di dentro e di fuori – la situazione dell’a- scolto e, più in generale, la percezione uditiva come componente fondamentale della sua scrittura. Secon- do argomentazioni non dissimili da quelle di S. Jones sulla danza, C. Laws sottolinea così come il pensiero beckettiano della musica sia un pensiero del «come» piuttosto che del «perché».

La seconda parte del volume si apre con un excur-

sus sui legami di Beckett con la musica del Novecento.

Ricca di raffronti – tra Quad e pas de cinq: wandelsze-

ne del compositore Mauricio Kagel, per esempio – e

di sviluppi sulla musica seriale e aleatoria e sul silen-

zio – in merito al parallelo tra Beckett e John Cage, soprattutto –, questa panoramica cede poi il passo all’analisi dettagliata delle risposte di qualche com- positore contemporanee agli scritti di Beckett, sia che la «musicalizzazione» dia voce ai testi, come nel caso dell’opera lirica neither di Morton Feldman, recente- mente coreografata da Martin Schläpfer, sia che la mu- sica si renda completamente autonoma dalle parole, come nel caso di Ne songe plus à fuir per violoncello solo amplificato di Richard Barrett. La chiusa sui com- ponimenti poetici – mirlitonnades e aforismi versifica- ti – musicati da György Kurtág in …pas à pas – nulle

part… riconduce, attraverso l’influsso che su Beckett

aveva esercitato la lettura di Hölderlin, alla predilezio- ne per il Romanticismo tedesco e per la sua musica, che a tratti ancora risuona in queste musical transla-

tions.

Di traduzioni interlinguistiche si tratta invece nel piccolo cofanetto Rien à faire. Volume 4. Beckett, L’ou-

verture de “Godot” pubblicato nel 2013 dalle Presses

Universitaires de Bordeaux nella collana «Transla- tions», dove già erano apparsi estratti di Shakespeare, Omero e Cervantes. Oltre all’introduzione di Pasca- le sarDin, esso raccoglie, in altrettanti fascicoletti, il

testo francese di Beckett, l’autotraduzione «en anglo- irlandais» (p. 4), la versione coeva del traduttore tede- sco Elmar Tophoven e quella in castigliano, ad opera di Ana María Moix e datata 1995, dell’inizio di En at-

tendant Godot. A oltre sessant’anni dalla prima rap-

presentazione, ci piace ricordare anche l’intensa testi- monianza intitolata Sam di Jean marTin, pubblicata

nel 2013 da Michel Archimbaud in edizione limitata e con disegni di Jean-Paul Chambas: «[c]’est la corde au cou que j’ai assisté à la rencontre de Samuel Beckett avec la célébrité» (p. 5), esordiva il primo interprete del ruolo di Lucky.

Sul versante italiano degli studi beckettiani, si se- gnalano due pubblicazioni recenti. In La seconda

chance. Bilinguismo e auto-traduzione nell’opera di Sa- muel Beckett (Roma, Aracne, 2013, pp. 260, con pre-

fazione di Letizia norci caGiano), Francesca milane- schi, dopo aver passato in rassegna l’ampia letteratura

critica sul tema, moltiplica e diversifica i passi che ana- lizza. Successivamente, mette in rilievo le motivazio- ni e le implicazioni estetiche del bilinguismo creativo di Beckett, opportunamente soffermandosi, ad esem- pio, sull’epanortosi in quanto tratto distintivo della sua prosa. Conclude il volume una preziosa intervista dell’A. con Raymond Federman, scrittore, traduttore e docente franco-americano vicino a Beckett, nonché studioso della sua poetica autotraduttiva.

Tra gli estremi dello scarto e dell’interferenza, ma in termini di modalità di scrittura e di media espres- sivi più che di lingue a confronto, si muove anche il saggio di Susanna sPero, L’invenzione di una forma. Poetica dei generi nell’opera di Samuel Beckett (Mace-

rata, Quodlibet, 2013, pp. 147). In un percorso che, dai fondamenti di un’estetica – compresa l’adozione del francese –, attraversa tutta l’opera di Beckett, qui citata in traduzione italiana, l’A. torna su argomenti quali l’analogia tra scena mentale e spazio teatrale o la dissociazione di voce e corpo, sottolineando come l’autore, tramite costanti mutazioni di generi, ridefini- sca e valorizzi l’esperienza percettiva del lettore/spet- tatore, fino a farne – ed è quanto emerge dagli studi di S. Jones sulla danza e di K. Laws sulla musica – il fulcro stesso della creazione.

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Rassegna bibliografica

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