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144 Rassegna bibliografica polemizza con Tesauro, sottoponendo il motto ai cri-

teri classici della justesse, della régularité e del naturel. Alla chiarezza “che vibra come un lampo nell’intellet- to” si sostituisce un’uniforme clarté che elimina ogni effetto di chiaroscuro.

Alain FauDemay fa il punto sulle diverse accezioni

della parola clarté nei più diversi ambiti, religioso, filo- sofico, linguistico, giuridico. Sottolinea in particolare l’opposizione tra una lumière che si impone in quanto

éclat, che è segno del potere, come mostra l’immagine

del Roi-Soleil, e una lumière che mostra, che discerne e critica trasformandosi in un contropotere, come nel- la metafora illuministica delle lumières. John PeDersen

affronta invece l’evoluzione del concetto di clarté tra i due estremi cronologici rappresentati da Malherbe e da Diderot. I due ambiti su cui l’autore si focalizza so- no l’ambito sintattico con il problema dell’ordine del- le parole e l’ambito più generale della comunicazione. Per tutto il corso del Seicento il rispetto dell’ordine “naturale” delle parole è considerata la ragione dell’ec- cellenza della lingua francese e i principali rappresen- tanti del razionalismo linguistico condannano l’iper- bato come infrazione a questo principio. Ma già nella

Rhétorique di Bernard Lamy troviamo una posizione

molto più sfumata e aperta nei confronti delle inversio- ni. Se la teoria dell’ordine naturale trova ancora soste- nitori per tutto il Settecento, il sensualismo filosofico di un Diderot e di un Condillac portano invece ad una valorizzazione delle inversioni come espressione delle passioni. Se dall’ordine delle parole ci spostiamo sul piano della clarté delle idee, vediamo come una com- ponente essenziale della “dottrina” di Malherbe sia il rifiuto dell’équivoque, cioè delle ambiguità di senso, un tema che sarà ripreso in senso più ampio da Boileau nella sua dodicesima satira. A questa posizione di rifiu- to totale corrisponde cinquant’anni più tardi la rifles- sione complessa di Diderot, che nei suoi testi filosofi- ci riflette sui limiti della comunicazione e valorizza la componente metaforica del linguaggio.

Anche Anne Elisabeth sejTen si concentra sulla fi-

gura di Diderot. La studiosa mostra come nel ripensa- mento del concetto di ragione tra Sei e Settecento sia centrale il rapporto tra filosofia e scienze della natura: se da una parte la nuova filosofia appare dipendente dalla scoperte scientifiche, dall’altra mantiene la sua autonomia e soprattutto la capacità di trarne delle con- seguenze filosofiche. Diderot porta all’estremo questa tendenza a trarre dal discorso scientifico tutte le pos- sibilità che esso offre, costruendo ardite ipotesi filoso- fiche tramite la congettura, la finzione e l’analogia. Il filosofo diderottiano si fa quindi interprete e non solo osservatore della natura. Da qui la tensione che attra- versa l’opera di Diderot e soprattutto la Lettre sur les

aveugles tra esperienza e speculazione: l’aveugle non

è più tanto un soggetto clinico, quanto una figura di pensiero e un interlocutore del filosofo. Ne risulta un ripensamento del concetto di clarté che è ancora più complesso e sfumato di quanto possa sembrare ad una lettura superficiale.

Jean-Paul sermain indaga i complessi rapporti tra

Marivaux e il classicismo seicentesco. Criticato da D’Alembert per la sua oscurità, segno di un allonta- namento dai grandi del secolo di Luigi XIV, Marivaux risponde definendo il pensiero come processo in cui il senso risulta dal contesto, dalle condizioni della sua produzione. Marivaux riprende il concetto barocco di

ingéniosité sottomettendolo però all’esigenza classica

di clarté (ingéniosité claire). L’espressione dei perso- naggi in se stessa è chiara e priva di ambiguità, è solo nel contesto che essa acquisisce un carattere di inge-

gnosità nello scarto ironico tra il discorso dell’opera e quello del personaggio, una caratteristica che Mari- vaux ha in comune con i grandi autori del primo Sette- cento. L’analisi di alcune scene de Le Jeu de l’amour et

du hasard conferma che la presa in considerazione del

contesto enunciativo e la complessità del dispositivo teatrale conferiscono alla clarté del discorso dei perso- naggi dei sensi ulteriori, in cui non è facile capire dove l’interpretazione debba fermarsi.

Jean-Marc civarDi traccia invece una breve storia

del termine galimatias, uno dei tanti antonimi di clarté, nei diversi generi teatrali. Prevalente nella farsa, questo termine non designa tuttavia necessariamente l’assenza di senso, ma oscilla tra il jargon specialistico e preten- zioso dei pedanti e il linguaggio convenzionale e ma- nierato degli amanti. Il termine ha soprattutto una va- lenza polemica e viene rivolto spesso da personaggi di buon senso a pedanti, medici e cattivi poeti. Quest’uso polemico non è frequente solo all’interno delle pièces, ma anche nei libelli critici e teorici, dove accusare di

galimatias significa attribuire all’avversario infrazioni

sul piano della logica, dell’espressione o della dram- maturgia. L’ambito di applicazione del termine resta comunque poco preciso, e l’A. cerca di identificare al- cune costanti di significato in questa varietà di usi.

Infine, Jean-Charles Darmon mostra il ruolo centra-

le svolto dall’ideale etico e retorico della clarté nella tradizione del libertinage érudit. Gassendi in partico- lare valorizza nell’epicureismo l’etica dello stile chiaro in funzione polemica contro i due dogmatismi, aristo- telico e cartesiano. La valorizzazione della perspicuitas dello stile di Epicuro punta ad escludere ogni dissimu- lazione e ogni ambiguità, opponendosi in questo alla strategia libertina del chiaro-scuro. In Cyrano, invece, il discorso epicureo diventa oscuro per eccesso di éclat, cioè per l’uso e l’abuso di pointes che giocano sull’am- biguità tra l’interpretazione seria e quella ludica. Tra- mite l’uso sistematico del paradosso, la scrittura di Cyrano oscilla tra varie modalità conoscitive, da quella del reale o del verosimile, a quella del possibile o del- la pura invenzione fantastica. Ne risulta una messa in discussione della clarté come risultato dell’impostura della ragione dogmatica: a dissiparla ci pensa la retori- ca libertina che tende a far apparire dietro la clarté l’o- scurità e la polisemia. La retorica dei libertini, insom- ma, associa due accezioni contrarie della clarté: da una parte il discorso libertino demistifica le superstizioni teologico-politiche, dall’altra ricorre per prudenza ad un’arte consumata della simulazione e del paradosso che copre di oscurità il pensiero.

[FeDericocorraDi]

n. l. breTon De hauTeroche, Théâtre complet,

Edition de A. blanc, Paris, Classique Garnier, 2014,

vol. I pp. 665, vol. II pp. 611.

L’opera teatrale di Noël Le Breton, signore di Hau- teroche, drammaturgo e attore, contemporaneo e suc- cessore di Molière, è oggi sconosciuta. Eppure le do- dici commedie del drammaturgo (una delle quali rima- sta manoscritta e oggi perduta), alcune comiche, altre contenenti una satira piccante della società, ebbero un grande successo, nella Francia di fine Seicento.

L’edizione moderna di A. Blanc, prima edizio- ne completa delle opere di Hauteroche (se si esclu- de un’edizione pirata pubblicata in Olanda nel 1683) è suddivisa in due volumi. Il primo volume contiene un’introduzione generale – nella quale l’autore riper- corre la lunga carriera d’attore di Hauteroche, la sua

vita privata, le sue qualità come drammaturgo – e le sue prime sei commedie L’Amant qui ne flatte point,

Le Souper mal apprêté, Crispin médecin, Le Deuil, Les Apparences trompeuses e Crispin musicien. Il secondo

volume raccoglie altre cinque commedie del dramma- turgo Les Nobles de province, L’Esprit follet, Le Cocher,

Le Feint Polonais e Les Bourgeoises de qualité e una sua

lettera sulla Sophonisbe di Corneille.

Tutte le opere sono precedute da una breve presen- tazione, da un apparato di note esplicative e dalle va- rianti. Un glossario, una breve bibliografia, un indice dei nomi e delle opere concludono il secondo volume.

[monicaPavesio]

Daniel vaillancourT, Les urbanités parisiennes au xviie siècle. Le livre du trottoir, Paris, Hermann, 2013,

pp. 310 (prima edizione: Québec, Les presses de l’Uni- versité de Laval, 2009).

L’obiettivo che si pone Daniel Vaillancourt, specia- lista delle forme semiotiche della sensibilità nel xvii se-

colo, è quello di mostrare come le trasformazioni ur- banistiche che il potere monarchico impone alla città di Parigi nel corso del xvii secolo diano luogo a nuove

“pratiques urbaines” che modificano l’habitus degli in- dividui, strutturando così indirettamente l’immagina- rio classico. La città non è soltanto un luogo o un in- sieme di edifici, ma un insieme di rappresentazioni tal- volta divergenti: lo studioso si propone di individuare, sulla scorta di Michel Serres, delle isomorfie tra le poli-

ces de l’urbanité e le produzioni culturali dell’epoca. In

un periodo in cui, dopo la pausa imposta dalle guerre civili, Parigi conosce una fase di importanti trasforma- zioni, i re Borboni mettono in opera una politica di in- tervento urbanistico massiccio con l’obiettivo di razio- nalizzare gli spazi, di rendere più fluida la circolazione, di imporre un nuovo ordine sia in ambito architetto- nico che amministrativo. Queste trasformazioni sono la traduzione urbanistica della volontà da parte della monarchia di affermare un’immagine di ordine e di ef- ficienza, avviando così quel processo di curializzazione di cui parlò Norbert Elias nel suo libro classico sulla civiltà di corte. Le trasformazioni urbane rivelano nel loro complesso una monumentalizzazione del potere e una teatralizzazione dello spazio, finalizzata a mettere in scena il commemorativo. La produzione letteraria del tempo si fa eco di questi eventi, per lo più in termi- ni di celebrazione ammirata. Tuttavia a questa politica interventista lo spazio urbano risponde anche con una resistenza, dando luogo ad una “contre-urbanité” che si esprimerebbe, ad esempio, in La Bruyère e nel suo pessimismo anti-urbano. I due eventi simbolici che de- limitano il quadro cronologico preso in considerazione sono l’entrata di Enrico IV a Parigi nel 1594 e la par- tenza di Luigi XIV per Versailles nel 1673, ma altri due eventi, più strettamente legati all’urbanismo, segnano questo periodo: la nomina di Sully a Grand Voyer e quella di La Reynie a Lieutenant général de la Poli- ce. Vaillancourt identifica cinque “strates discursives” all’interno delle quali si esprime l’immaginario della città: il discorso lessicografico, che consente di precisa- re l’evoluzione semantica dei termini legati alla città, il discorso proto-turistico, cioè i testi degli antiquari che percorrono la storia della città e ne descrivono i luoghi rappresentativi, il discorso tecnocratico, cioè l’insieme degli editti e delle regolamentazioni riguardanti la voi-

rie, ma anche i testi prodotti dai funzionari che si oc-

cupano della manutenzione urbana, il discorso sull’ur-

banitas e sulla civilité, che regola i comportamenti an-

che in relazione allo spazio urbano, e infine il discorso letterario e filosofico. Naturalmente un approccio di questo tipo tende a mettere tra parentesi la distinzione tra testi letterari e non letterari, mettendo tutto sullo stesso piano: documenti di ogni genere vengono let- ti quindi con gli stessi metodi interpretativi applicati alle opere degli autori classici. Il volume, nonostante esibisca una retorica un po’ farraginosa di ascendenza foucaultiana, contiene comunque alcuni spunti interes- santi e mette a confronto utilmente testi distanti tra lo- ro. Il suo limite è che l’esito dell’indagine è largamente prevedibile, essendo implicito nelle premesse adottate. Il primo oggetto preso in considerazione, che ha una consistenza sia materiale che simbolica, è il Louvre, che già durante il regno di Francesco I aveva perso la sua funzione tradizionale di fortezza per diventare uno spazio sociale in cui la nuova immagine rinascimentale del potere si dava a vedere. Il Louvre, che sul piano les- sicografico passa progressivamente a designare la cor- te a prescindere dal luogo in cui essa si trova, appare spesso nei testi come spazio in cui la pratica curiale na- sconde una violenza incontrollata e un rovesciamento dei valori: è il caso delle Tragiques di D’Aubigné e di una favola di La Fontaine. Gli sforzi dei sovrani per modificarne la natura non riusciranno mai a imporre il Louvre come modello compiuto di urbanité: sarà Ver- sailles a ereditare questa funzione. Ma le grandi tra- sformazioni non si limitano al palazzo reale, la nomina di Sully a Grand Voyer e l’acquisizione successiva da parte dello stesso Sully della carica concorrente di Vo- yer de Paris segnano l’apice della volontà da parte della monarchia da una parte di accrescere la circolazione di merci e denaro, dall’altra di pianificare le trasformazio- ni urbane secondo una visione pragmatica dello stato efficace le cui origini sarebbero da cercare nella fede ugonotta di Sully ed in una progressiva “protestantisa- tion des esprits”. L’A. cerca nel tessuto urbano le trac- ce di una connivenza, per la verità abbastanza scontata, tra “la quête de la ligne droite et de l’espace cadastré” e il razionalismo cartesiano. È questo spazio matematico, “smaterializzato” la scenografia all’interno della quale si muove l’honnête homme, rappresentante dell’urbani-

tas, cioè di una politesse etimologicamente legata allo

spazio cittadino.

Un’altra esigenza che si manifesta più nettamente nel corso del secolo è quella di pavimentare le strade, relegando così fuori dai margini della città il fango e le idee ad esso associate di cattivo odore, di materia informe, di spazio non civilizzato. L’A. segue questo processo sul filo degli editti successivi, che mostrano come un sistema di pulizia delle strade, pur con dif- ficoltà, si metta progressivamente in opera fin dal re- gno di Francesco I. Ma per gli autori classici la strada è ancora per eccellenza lo spazio della crotte e dell’em-

barras, della circolazione impossibile, segno della resi-

stenza della materia allo sforzo di razionalizzazione. Il burlesco, genere basso per eccellenza, mette in scena questo immaginario rimosso dai grandi generi trasfor- mando in topos ricorrente la lotta del passante con il fango e con gli imprevisti della strada. Ma il roman- zo comico, basti pensare a Furetière e al suo Roman

bourgeois, evidenzia anche l’ethos tendenzialmente

borghese che secondo l’A. informa le pratiche urbane: un culto dell’uniformità, della pulizia e della decenza che mette al bando ogni stravaganza e relega in spazi marginali o comunque separati tanto il popolo minuto quanto l’aristocrazia. Già prima del “grand enferme- ment” descritto da Foucault, una logica di controllo e di repressione presiede alla riorganizzazione del-

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Rassegna bibliografica

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