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142 Rassegna bibliografica prudentemente l’espressione del proprio scetticismo

mentre nel secondo lo manifesta apertamente. Pierre le moyne, De l’Histoire (1670) (a cura di

M.-A. De Langenhagen e A. Mantero). L’opera, mai ripubblicata, era destinata ad accompagnare una mo- numentale storia sul regno di Luigi XIII che non fu mai editata e il cui manoscritto è andato perduto. Se ne apprezzano la chiarezza dell’esposizione, l’abbon- danza delle informazioni e degli aneddoti. L’apparente semplicità racchiude uno spessore informativo e con- cettuale che, al di là del sapere dell’autore, trasmette una grande varietà di tradizioni storiografiche.

César vicharD De sainT-réal, De l’usage de l’hi- stoire (1671) (a cura di C. Meurillon). Ha conosciu-

to una fortuna editoriale molto contrastata nel tempo: pubblicato nel 1671, rieditato due volte nel 1672, ebbe molte riedizioni tra il 1713 e il 1772 e ben dodici tra il 1803 e il 1830.

Il progetto di Saint-Réal si distingue da quello dei suoi predecessori per il fatto che non si concentra né sul metodo né sulla scrittura della storia, ma sulla let- tura. Non pone l’accento sulla produzione ma sull’uso che se ne può fare: «L’intérêt de l’Histoire est double. Par les histoires qu’elle rapporte, elle fait voir la fo- lie ou la faiblesse de l’esprit humain, qui est la chose du monde la plus nécessaire à savoir. […] Savoir, c’est connaître les choses par leur causes; ainsi savoir l’His- toire c’est connaître les hommes qui en fournissent la matière, c’est juger de ces hommes sainement; étudier l’Histoire c’est étudier les motifs, les opinions et les passions des hommes, pour en connaitre tous les res- sorts, les tours et les détours, enfin toutes les illusions qu’elles savent faire aux esprits, et les surprises qu’elles font aux cœurs» (p. 474).

René raPin, Instructions pour l’histoire (a cura di B.

Guinon). Pubblicato per la prima volta nel 1677, senza il nome dell’autore, poi rieditato dall’autore nel 1684 all’interno della raccolta Comparaisons et Réflexions col titolo Réflexions sur l’histoire. Rapin afferma l’im- portanza della storia osservando che «on ne peut rien savoir en perfection dans les belles lettres, que par le commerce des Anciens» (p. 567). La sua ottica retorica non lascia spazio a interrogativi di ordine epistemolo- gico sulla natura né sulla possibilità della conoscenza storica. La storia è vista come narrazione e, nel trattato, cinque capitoli sono dedicati allo stile e solo l’ultimo alla materia.

[ceciliarusso]

myriam TsimbiDy, La Mémoire des lettres. La lettre dans les Mémoires du xviie siècle, Paris, Classiques Gar-

nier, 2013, pp. 348.

Questo lavoro indaga le interazioni tra i mémoires e la lettera, soggetto raramente studiato finora. In parti- colare riflette sull’utilizzo della forma epistolare (ormai assunta pienamente a genere letterario nel Seicento) da parte dei memorialisti per rilevare come il materia- le epistolare partecipi alla costruzione di una rappre- sentazione del passato, permettendo di effettuare dei

déplacements enunciativi e temporali che rimodellano

l’esperienza del tempo. Deve quindi essere considerata una «forme incontournable dans l’écriture des mémoi- res» (p. 273).

Nel primo capitolo, «Corpus insérant des mémoi- res», l’A. presenta il corpus (che comprende 42 mémoires riguardanti il periodo 1643-1661, cioé la mi-

norité di Luigi XIV), definendone i criteri di selezione.

Nel secondo, «Typologie des lettres insérées dans les

mémoires», stabilisce la natura e le categorie di lettere più rappresentate nel corpus. Si tratta essenzialmente di lettere di carattere pubblico o politico (e non ap- partenenti alla sfera intima o privata) presentate come autentiche, la cui presenza all’interno del racconto me- morialistico risponde ad esigenze dimostrative e/o in- formative e non a scelte estetiche. Nel terzo, «La let- tre dans la composition des mémoires», si sofferma sul ruolo delle lettere nella narrazione e sulle modalità di inserzione utilizzate dai memorialisti (fusione tra di- scorso epistolare e discorso memoriale o, invece, ete- rogeneità delle lettere). Questa operazione di ‘tissage et démontage du texte épistolaire’ (p. 113) riflette due concezioni diverse della scrittura della storia (una ten- dente alla narratività e una più scientifica) e provoca un cambiamento di livello e di registro nel récit impo- nendone una lettura frammentata. Nel quarto capitolo, «L’énonciation épistolaire: jeux et enjeux» si concentra sulla variazione che l’introduzione di lettere provoca, a livello enunciativo, nella scrittura dei mémoires. La forma epistolare, messa in scena enunciativa che imita una conversazione familiare con una persona assente, crea una situazione comunicativa complessa, in cui il destinatario dei mémoires diventa spettatore e il narra- tore cede la parola, occultandosi. Nel quinto, «La let- tre dans le régime et la conduite de la narration» esami- na il ruolo delle lettere nella narrazione dei mémoires. Pur rivestendo la doppia funzione di documento sto- rico e di fonte di fictionalité necessaria alla narrazione, la lettera vede il suo statuto alterato: perde la sua au- tonomia per diventare l’elemento di uno scenario. Nel sesto ed ultimo capitolo, «La lettre ou les autoportraits des mémorialistes», osserva come le lettere, attraverso i protocolli e le scenografie sociali mobilitati, entrino nella poetica del genere dei mémoires e lo modifichino, accentuando il ruolo del memorialista e complicando- ne l’immagine.

Completano l’opera gli elenchi delle lettere conte- nute nei mémoires analizzati e una utile bibliografia.

[anTonellaamaTuZZi]

emmanuel bury et carsTen meiner (sous la direc-

tion de), La Clarté à l’âge classique, Paris, Classiques Garnier, 2013, pp. 282.

Pochi concetti appaiono tanto centrali nella cultura dell’âge classique quanto quello di “clarté”. Basti pen- sare alle due immagini che riassumono i due secoli in questione: quella del Roi-Soleil, che evidenzia l’éclat che emana dal sovrano in epoca assolutistica, e quella delle lumières, che invece disegna lo spazio, per tan- ti versi opposto, di un sapere che diventa critico nei confronti del potere. Ma la clarté caratterizza anche la lingua francese agli occhi dei dotti dell’epoca, motivan- do le affermazioni trionfalistiche sulla sua superiorità rispetto alle altre lingue moderne. E non si può dimen- ticare quanto essa sia centrale nel metodo cartesiano come criterio per accedere ad una conoscenza solida ed esente da errore. La parola insomma torna ossessi- vamente sia nel discorso filosofico che nella riflessione retorica e grammaticale, nella speculazione teologica come nella teorizzazione estetica. Ma l’unità apparente dell’oggetto di studio maschera una grande varietà di accezioni; per accorgersene basta prendere in conside- razione i sinonimi possibili della parola: distinction e

lumière, ma anche éclat, évidence, sublime, perspicacité, sagacité, finesse, subtilité, pénétration, ecc. Uno studio

stinzioni disciplinari, abbracciare diversi campi del sa- pere e mostrare gli elementi di continuità ma anche le fratture che le elaborazioni ideologiche sulla clarté na- scondono, deve poi elaborare delle ipotesi sulle ragioni di questa centralità. È ciò che si propongono i curatori di questo volume, che raccoglie gli atti del convegno tenutosi a Copenhagen dal 26 al 28 maggio 2005. Em- manuel Bury e Carsten Meiner sottolineano nell’intro- duzione come dai diversi contributi emergano soprat- tutto tre accezioni della parola: clarté come éclat, bril- lantezza che si impone al destinatario in modo inconte- stabile, clarté come evidenza oggettiva che si offre alla conoscenza, clarté come clarification, come operazione che consiste nell’illuminare, nel chiarire.

I primi articoli si soffermano sul versante filosofico del concetto. Jon schosler analizza uno dei problemi

centrali posti dalla filosofia di Locke: conciliare le po- sizioni sensualiste con l’universalità dei precetti morali e con l’evidenza dei principi matematici e logici. Per Descartes la clarté (evidenza) di questi principi era ba- sata sul loro essere idee innate ispirate da Dio. Locke, polemizzando con Descartes e con la scolastica, non rifiuta l’evidenza, ma la sua relazione necessaria con l’innatismo. L’evidenza è invece legata nel suo sistema a una semplice intuizione dell’intelletto, a una dispo- sizione interna ad esso a cogliere in modo immediato la relazione tra due idee. I filosofi e divulgatori france- si (Condillac, Du Marsais, Quesnay, Helvétius, Fonte- nelle, d’Holbach, ecc.) che nel Settecento si ispirano a Locke riprendono le sue idee su questo punto, ma le loro interpretazioni spesso divergono, rivelando una comprensione solo parziale del pensiero del filosofo in- glese. Denis Kambouchner si interroga sul significato

del sintagma tipicamente cartesiano del “clair et distin- ct”, che si applica alla conoscenza scientifica o a quelle conoscenze che per evidenza sono equiparabili ad essa. La concezione cartesiana della clarté e della distinction è confrontata con quella di Leibniz, che accusa Des- cartes di non aver sufficientemente definito questi con- cetti. Kambouchner conclude la sua analisi di vari passi cartesiani affermando che per Descartes «la clarté et la distinction ne se trouvent pas dans le donné perceptif lui-même, mais dans notre manière de l’appréhender» (p. 44) e invita a mettere in relazione queste caratteri- stiche del pensiero cartesiano con la sua scrittura, edu- cata all’atticismo delle lettere di Guez de Balzac.

Uscendo dall’ambito filosofico, Mogens laerKe

si interroga sull’uso nelle controversie teologiche del concetto di claritas Scripturae come dispositivo critico ed ermeneutico. I protestanti, contestando la media- zione della Chiesa, sostengono che le Scritture presen- tano i loro significati più profondi e più sublimi in pie- na luce in modo che chiunque possa interpretarle nel modo giusto. Tuttavia, i due concetti opposti di claritas e di obscuritas non vanno intesi soltanto in senso stati- co, ma anche come categorie dinamiche: clarté equivale così a éclaircissement/clarification, obscurité a obscurcis-

sement/mystification. I protestanti utilizzano queste ca-

tegorie per denunciare l’allontanamento dal senso let- terale delle scritture, oscurato dalla ricerca dei sensi al- legorici nell’esegesi scolastica. Se nella Scrittura tutto è in piena luce, la sua pretesa obscurité è dovuta all’acce- camento di chi la interpreta. Ma ciò non impedisce che i protestanti sviluppino un’ermeneutica minima del te- sto biblico, basata sull’analogia fidei. I passi più com- plessi diventano chiari se spiegati confrontandoli con i passi il cui senso è più evidente. L’autore distingue poi tra le posizioni della scuola di Saumur, influenzata dal cartesianesimo, e la teologia protestante ortodossa, che

hanno posizioni opposte sulla natura dell’evidenza del testo biblico.

Passando al versante più propriamente letterario, Volker KaPP indaga il rapporto che le riflessioni sulla

poetica e la retorica tra il xvii e il xviii secolo in Fran-

cia e in Italia stabiliscono tra la clarté, cioè la perspicui-

tas dei latini, e lo style moyen. Nonostante che la clarté

entri sia in Italia che in Francia nella definizione dello stile medio, essa diventa, a partire da Bouhours, una discriminante per preferire questa qualità tipica della lingua francese all’affectation del Tasso e degli altri po- eti italiani. Per tutto il Settecento, fino ad arrivare al celebre discorso di Rivarol, la clarté costituisce il prin- cipale criterio di definizione del génie della lingua fran- cese. Fin da inizio Settecento, però, autori come Alga- rotti cercano di importare in Italia la clarté francese at- tingendo a una tradizione italiana opposta agli eccessi barocchi, quella che si rifà al Saggiatore di Galileo. Si arriva così a Parini che integra il concetto retorico della chiarezza in una riflessione estetica più ampia. Anche Anders ToFTGaarD indaga la nozione di clarté legata al

“génie de la langue française”, ma va a cercare le ori- gini di questo mito nell’accusa di barbarie lanciata da Petrarca ai francesi. Ad essa si sforzano di rispondere gli umanisti d’oltralpe del xvi secolo, che lavorano sul

duplice piano culturale e linguistico per far uscire la Francia e la sua lingua dall’oscurità medievale. Pren- dendo la parola clarté in due accezioni distinte, una più propriamente retorico-grammaticale (trasparen- za, limpidezza), una politica (splendore, fama), legata all’affermazione militare della Francia, l’autore mostra che è la seconda accezione che prevale nel xvi secolo,

in particolare nella Deffence di Du Bellay, ma in alcu- ni autori come Barthélemy Aneau e Pelletier du Mans compare anche la prima accezione: si annuncia così, seppure in maniera ancora esitante, quella celebrazio- ne della clarté française che dominerà incontrastata da Bouhours a Rivarol.

Alain méroT esamina la nozione di clarté nell’am-

bito delle arti figurative, tracciando un parallelo tra la terminologia retorica e quella pittorica. Il suo ambito di indagine è il cosiddetto “atticismo”, un movimento pittorico della metà del xvii secolo illustrato da pitto-

ri come Eustache Le Sueur e Laurent de La Hyre. In un’estetica che privilegia l’inventio e la dispositio, il di- segno è fondamentale. Le singole figure e il gruppo si costruiscono poco a poco in un’unità organica attra- verso una serie di aggiustamenti e ripensamenti che co- stituiscono quella che Mérot chiama una clarification. Ma la clarté propria dell’atticismo non è legata solo alla composizione che traduce in pittura l’idea, ma anche alla gradazione della luce, che sottolinea con chiarezza la disposizione rispettiva degli oggetti.

Giovanni baFFeTTi si propone di definire il ruolo

della clarté nelle teorie dell’emblema e del motto. In entrambi i generi l’interferenza di due sistemi semiotici diversi produce effetti semantici. Se l’emblema ha un carattere più popolare e rafforza la propria immedia- tezza espressiva ripetendo lo stesso messaggio con stru- menti diversi, il motto ha un carattere più aristocratico e rinuncia all’efficacia esplicativa del testo. Realizza co- sì l’equilibrio, raccomandato dai teorici, tra chiarezza e oscurità, basandosi su una maggiore partecipazione del destinatario nella decifrazione del messaggio. Uno dei maggiori teorici dei due generi è Tesauro nel Cannoc-

chiale aristotelico (1654). Tesauro descrive la chiarezza

che procede dal motto come un’improvvisa illumina- zione sul suo significato, che produce tanto maggiore ammirazione quanto più il significato era parso oscuro inizialmente. In De l’art des devises (1666), Le Moyne

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Rassegna bibliografica

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