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8. IL MARKETING CHE SI EVOLVE: DALL’ORIENTAMENTO ALLA

8.1. La relazione con il consumatore

Se diventa essenziale capire perché il consumatore ha acquistato, e se e cosa desidererebbe acquistare ancora, non basta più informare il potenziale consumatore di cosa possiamo offrirgli, serve la sua risposta che ci dica perché ha scelto e se un domani sceglierebbe la stessa cosa o no e soprattutto perché. È necessaria una relazione che fornisca un feedback ed è essenziale che questa sia duratura nel tempo per vederne l’evoluzione e poter tracciare un ciclo di vita sia del prodotto che del consumatore. Il marketing smette di essere azione rivolta alla massa, all’acquisizione di grandi numeri. Si tramuta in un’azione individuale, one to one, in una strategia sempre più mirata al singolo.

Creare una relazione con il cliente permette all’impresa di rivolgersi direttamente a lui offrendo promozioni personalizzate. Contemporaneamente è importante far percepire al cliente la sua importanza come individuo. Il cliente si fidelizza se viene gestita la relazione.

In questa situazione si è passati dal tangibile all’intangibile, dalla sfera razionale del far di conto a quella irrazionale della relazione, del rapporto, ben più complessa. Una volta individuati, ottimizzati ed esauriti tutti gli aspetti “pratici” (quindi produzione, punto vendita, personale, distribuzione, promozione ecc) si è puntato su aspetti che possono essere definiti “invisibili” (relazione, fiducia, fedeltà).

Agendo su quella parte intangibile del prodotto o servizio, se ne è creato il desiderio nel consumatore, al punto che ad un certo punto il mercato non ha più soddisfatto i bisogni ma li ha creati, ha indotti bisogni fittizi legati a qualcosa che trascende dal bisogno reale. Se nessuno a più bisogno di un paio di scarpe e può trovarne ovunque di qualsiasi modello, qualità e prezzo, è però possibile creare un qualcosa che vada oltre tutte queste caratteristiche “materiali” e differenzi la nostra scarpa e la faccia superiore a tutto il resto nell’immaginario collettivo. Da questo assunto nasce lo swoosh, il famosissimo baffo della Nike. Il marchio. Il baffo della Nike, gli archi di McDonald’s, la mela della Apple.

Il successo delle marche non è qualcosa he compare negli anni ’80. La fedeltà al marchio è sempre esistita, ma nel passato si era sempre legato al prodotto, alla sua

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qualità, al suo uso o alla “coscienza aziendale”, a quegli aspetti cioè che erano prove tangibili di un valore. Negli anni 80-90 non si ricerca più questo, il fascino del logo è dato da qualcosa che non riguarda il prodotto in sé, quanto il mondo che egli ruota attorno secondo ciò che viene percepito nell’immaginario collettivo: la brand image. Comunicare l’immagine della marca è essenziale per dare al prodotto un’aura che porti il consumatore a farne uno status symbol.

Scoprire che dietro quell’immagine si cela una realtà molto diversa può avere un effetto boomerang devastante, ma questo non era stato ancora attentamente considerato, perché non si immaginavano gli effetti reali di questa possibilità e si pensava fosse possibile separare il brand dalla realtà così come le distanze fisiche separavano la produzione dai consumatori.

Le tecnologie che si diffondono proprio negli anni ’90 permettono la comunicazione della globalizzazione. L’avvento della rete fa circolare le informazioni più facilmente e più velocemente che mai. È come se d’un tratto il mondo fosse diventato più piccolo.

Nel giro di dieci anni (1990/2000) il potente ma fragile potere del simbolo, del brand, si sgretola di fronte alla realtà. Iniziano a emergere le immagini che svelano cosa sta dietro a monte multinazionali. La loro brand image patinata ha spesso le sue fondamenta in realtà di sfruttamento e povertà assoluta, violazione dei diritti umani, incuria e devastazione dell’ambiente.

Il consumatore armato di internet non ci sta più, né ad essere complice né ad esser vittima di un sistema del genere. Diventa sempre più consapevole, sempre più critico, sempre più esigente. Fidelizzato diventa una sfida ancora più difficile.

Alla luce dei fatti il tema della customer loyalty nell’era di internet e delle nuove tecnologie in generale è quindi più che mai attuale. La diffusione degli smartphone, dei tablet, una connessione sempre attiva, permettono un controllo del consumatore pressoché totale e in tempo reale; al contempo lo dotano di una maggiore quantità di informazioni e conoscenza.

I clienti fedeli sono l’asset che ha più valore per l’impresa: generano feedback, sono più economici da mantenere e soprattutto attuano il passaparola, che è la base per la

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creazione e la diffusione della notorietà, ovvero una fiducia collettiva e diffusa, comprovata, consolidata.

La fedeltà ad una marca, quindi a determinati valori e principi che il consumatore gli riconosce può arrivare al fanatismo. Ma senza dover arrivare agli eccessi di chi decide di tatuarsi un logo e di portarselo addosso per tutta la vita, un consumatore fedele sarà comunque per l’azienda una pubblicità ambulante. Si “spenderà” per essenza senza neanche accorgersene, semplicemente perché finirà per sentirla parte della propria identità ed esprimerà per essa entusiasmo spontaneamente, come esprimesse parte di sé, del proprio essere. Questo accade nel momento in cui il consumatore si sente totalmente rappresentato dai valori che l’azienda esprime e ripone in essa tutta la sua fiducia. Quando arriva a sentirsi parte di qualcosa (un movimento, una corrente di pensiero, una moda) che è creato o rappresentato anche da quell’azienda.

Un coinvolgimento tale richiede necessariamente un’azione di comunicazione profonda, emotiva, effettiva. Non lo si raggiunge attraverso una banale pubblicità che si affida ad uno slogan o ad un jingle. Non è sufficiente la comunicazione dei pregi del prodotto attraverso qualcosa che enuncia, provoca stupisce. L’emittente e il ricevente devono entrare in contatto in maniera diversa.