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CAPITOLO 2: Gli impatti della trasformazione digitale sull’organizzazione delle impre-

2. Impatto della digitalizzazione sull’organizzazione

2.2. L’effetto scala: le grandi performance dei più piccoli

2.2.2. Rent not Own

La sharing economy e molti altri ambiti dell'economia stanno aprendo gli occhi ad una nuova filosofia, quella del noleggiare senza possedere, che sta rivedendo la tradizionale proprietà delle cose da parte delle aziende e sta offrendo grandi opportunità anche per le aziende più piccole, dotate di meno asset e capitali propri, ma capaci di sfruttare in modo efficiente tecnologie e strumenti senza dover affrontare il pesante investimento iniziale. Questa filosofia ci porta ad affermare che il più grande rivenditore al dettaglio non possiede nemmeno un negozio di proprietà (Amazon) o il più grande fornitore di camere non possiede nemmeno un hotel (Airbnb) (Schwab, 2016).Nei pilastri dell'Industry 4.0 è possibile vedere questo nuovo approccio con il cloud computing, che offrendo la

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capacità di raccogliere e gestire grandi quantità di dati pagando solo ciò che si usa, evita alle aziende di qualunque dimensione quella spesa rilevante che si avrebbe qualora si creasse una propria banca dati (Ismail, 2014).

Lo stesso concetto viene sempre più applicato anche al lavoro; si parla in questo caso del fenomeno del lavoro on demand che sta prendendo piede nelle organizzazioni di tutto il mondo. E' il fenomeno che permette alle imprese di dotarsi di una forza lavoro aggiuntiva per un tempo determinato senza, tuttavia, renderla propria.

Questa nuova forma di lavoro è stata sostenuta dalla rapida diffusione di nuovi business model basati sull'open innovation e, in particolar modo, sulle piattaforme. Sono nate in pochi anni molte start-up che hanno cercato di creare un incontro tra la domanda e l'offerta di lavoro impiegando le tecnologie più sofisticate come software di analisi e algoritmi intelligenti. Grazie a questi ultimi, in particolare, si sono riuscite a creare delle combinazioni tra lavoratori e imprese sulla base delle competenze e delle caratteristiche del lavoratore e dell'impresa che permettono di ridurre le problematiche successive all'assunzione che si potrebbero presentare con lavoratori non adatti alle richieste aziendali.

A queste piattaforme di ricerca del lavoro si associa anche la continua crescita dei lavoratori

freelance,ossia quei lavoratori che non sono dipendenti di alcuna azienda ma sono responsabili di se

stessi. La crescita in Italia, negli ultimi anni, è aumentata in modo vertiginoso: secondo l'Eurostat i freelance sono circa 5 milioni, il 22% della forza lavoro nazionale. Questi lavoratori sfruttano gli strumenti on demand come le piattaforme per farsi notare dalle aziende che possono "assumere" temporaneamente queste figure per incrementare la propria forza lavoro. E' così che si viene a creare quel fenomeno che aveva anticipato Handy in "The Age of Unreason" (1995): nel futuro solo il 50% della forza lavoro sarà impiegato a tempo pieno (tecnici, manager e professionisti), e il resto della popolazione sarà self-employed, quindi coinvolta solo sporadicamente nell'azienda in base alle proprie competenze necessarie in quel momento. Fin da ora si possono riscontrare nelle aziende più grandi una combinazione di lavoratori freelance e di lavoratori interni all'azienda, dimostrazione ancora una volta di come sia fondamentale un'apertura aziendale verso l'ecosistema delle conoscenze e competenze (Venier, 2017).

Il ricorso a questa tipologia di lavoratori contribuisce all'effetto scala generato dalle nuove tecnologie, in quanto permette, innanzitutto, una riduzione dei costi del personale che non dovrà essere più così numeroso in modo continuo ma si modificherà a seconda dei progetti e dei bisogni dell'azienda, e anche una riduzione dei rischi legati al fatto di avere dipendenti a tempo indeterminato che potrebbero non essere adatti al cambiamento e aggiornati sulle innovazioni o non possedere quelle competenze che sono sempre più richieste in queste nuove organizzazioni digitali.

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Una di queste piattaforme per il lavoro on demand maggiormente utilizzate è Upwork, specializzata nell'intermediazione del lavoro freelance; in pochi anni ha raggiunto cinque milioni d’imprese clienti e dodici milioni di lavoratori freelance. A questa si aggiunge anche Linkedin o piattaforme più specifiche di settore.

Le imprese si stanno affidando con sempre maggiore frequenza a queste piattaforme poiché offrono loro l'opportunità di impiegare persone esterne per brevi periodi senza dover apportare modifiche definitive alla propria forza lavoro ed evitando al lavoratore freelance pratiche di assunzione e licenziamento tipiche dell'azienda. La nuova workforce dell'impresa è considerata liquida poiché vede una commistione di figure diverse, in continuo cambiamento, create per gestire progetti e obiettivi temporanei. I team così creati non vedono più l'unità di appartenenza come unica fonte del team ma le competenze necessarie a quel progetto a prescindere che il gruppo sia fatto di persone interne od esterne. Il lavoro on demand, definito anche Gig economy, può portare a molti benefici sia per l'azienda sia per il lavoratore freelance: da una parte la prima trova un bacino di talenti che difficilmente possono essere scovati con i metodi classici di recruiting e quindi maggiore creatività e idee, dall'altra è un modo per i lavoratori di lavorare per progetti e aziende diverse contemporaneamente e di essere pagati sulla base del loro contributo e della loro performance e, soprattutto, un modo per gestire meglio la propria vita privata e lavorativa.

Tuttavia, dietro alle novità ci sono anche aspetti negativi da considerare, così anche il nuovo sistema di lavoro a noleggio ha sollevato molti dubbi sui rischi che potrebbero presentarsi in termini di scarsa protezione per il cliente e di mancanza di quelle sicurezze che derivano dal posto fisso come una retribuzione fissa, la pensione e soprattutto tutte quelle tutele legali date da un normale contratto di lavoro.

La questione principale che viene portata avanti da ambiti diversi, quello giuridico, politico e accademico, è legata alla classificazione che dovrebbero avere questi lavoratori: alcune aziende li considerano propri lavoratori, altre, invece, li classificano come autonomi. Non si è arrivati ancora ad una definizione certa in quanto le caratteristiche dei modelli di business delle piattaforme alimentano la confusione sul tema: alcune di queste farebbero pensare che questi siano dei lavoratori autonomi, altre, come i sistemi di controllo basati su ranking e feedback, spingono verso il lavoro subordinato. Ma, com'è noto, avere una chiara definizione permette di comprendere quali siano le tutele, essendo queste diverse tra lavoratore autonomo e subordinato16.

Nel primo caso, il lavoratore autonomo non può godere della sicurezza economica di cui gode un lavoratore subordinato e anche di quella sociale. Inoltre, le piattaforme sono un mercato nuovo e ancora sconosciuto che è molto influenzato dai cambiamenti nel mondo del lavoro. A questo stato di

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"La classificazione giuridica del lavoro ai tempi della on-demand economy: una lezione americana", Adapt, 2016. www.adapt.nova100.ilsole24ore.com

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insicurezza economica si deve aggiungere anche il rischio per la salute psico-fisica della persona che potrebbe essere danneggiata da un lavoro che va oltre i limiti di tempo e dalla incapacità a coprire i costi con le proprie prestazioni.

Un altro aspetto negativo che deriva dal lavoro on demand è l'uso distorto che potrebbe essere fatto dei sistemi di feedback previsti nelle piattaforme, infatti, questo strumento potrebbe essere manomesso in modo discriminatorio o di vantaggio per il lavoratore. Come ultimo elemento, ma non meno importante, risulta esserci l'impossibilità per i lavoratori di rivendicare in modo collettivo migliori condizioni di lavoro; questi lavoratori sono lavoratori di settori differenti con interessi diversi e senza alcun legame diretto se non quello virtuale della piattaforma che non sono in grado di agire assieme per chiedere e ottenere maggiori tutele e garanzie (Dagnino, Adapt.nova, 2015)17.

Box 2. Uber e la tutela dei lavoratori

Nel 2016 il Tribunale inglese ha accolto il ricorso dei sindacati, spinti da due autisti di Uber che pretendevano delle condizioni lavorative migliori e pretendevano di essere considerati più vicini a dei dipendenti della società. E' così che il Tribunale ha ribadito che i lavoratori della piattaforma debbano godere di alcune delle tutele dei lavoratori subordinati. E' stato stabilito che Uber dovrà pagare le ferie che non erano state pagate finora e ripagare quegli autisti con una tariffa oraria inferiore alla soglia minima. A quanto pare Uber ha fatto appello poiché questa decisione potrebbe spingere tutti gli altri autisti a chiedere le stesse tutele. Finora il tribunale ha stabilito il salario minimo, la limitazione dell'orario lavorativo e le ferie, quindi non è ancora previsto che questi siano lavoratori dipendenti di Uber a tutti gli effetti, e per questo non potranno tutelarsi dal licenziamento. Tuttavia la decisione del Tribunale è un primo passo verso una risoluzione dei problemi nell'ambito del nuovo lavoro.

Fonte: Di Turi, Uber "gli autisti non sono autonomi", 2016 www.nuvola.corriere.it