riflessioni intorno alla (perduta) fonte
9. Senso e valore dei marginalia a Virgilio tramandati nel LG: per lo studioso moderno
Le voci Virgili del LG fungono da scrigno prezioso quanto alla storia della lingua latina, alla filologia virgiliana e all’esegesi virgiliana. Ci si può infatti imbattere in:
a) hapax. Ad es.,
AD 853 Adtulit: inspiranter (-per-) dedit. (Aen. 5,201)
inspiranter (-per-) ] inspiranter P L
L’avverbio insperanter73, ‘in modo insperato’/‘inaspettatamente’ rappresenta un hapax legomenon: non siamo cioè a conoscenza di altre occorrenze del termine al di fuori del LG – né si può risolvere facilmente la forma come errore di copista: troppo lontane (per suono e grafia) le forme avverbiali corrispondenti (aventi cioè la medesima duplice valenza suddetta) a noi invece note: insperato (cfr. ThLL, vol. VII/I, col. 1949, rr. 30-39, s. v. Insperatus [Furnée-Ehlers]) e, utilizzata a partire dalla Bibbia Vulgata, insperate (ThLL, ibidem, rr. 40-54). Insperanter è infatti forma registrata nel ThLL, e sulla sola testimonianza del Liber (viene in questo caso citata l’edizione di Hagen
72 Cfr. Cinato 2015b, pp. 53-55.
73 Corretto infatti l’emendamento dell’Ed.: il tràdito inspiranter manifesta un errore di copista, probabilmente dovuto all’influenza della parola (relativamente omofona/omografa) inspirare – difficilmente si tratta di una forma volgare (nel latino volgare la é tende a diventare i tipicamente nella desinenza -es; cfr. Väänänen 19672, pp. 81-82, par. 54).
1902a; cfr. supra, par. 1): ThLL, vol. VII/I, col. 1948, rr. 4-6, s. v. Insperans [Furnée-Ehlers].
b) vocaboli di cui il LG rappresenta la testimonianza più antica. Ad es., AN 84 Ancipitem: dubium, inegressibilem. (Aen. 5,589)
Al di fuori del LG, l’aggettivo inegressibilis, ‘che non può uscire da se stesso’ è documentato solo nella teologia cristiana; le attestazioni abbondano a cominciare dal sec. XII, ma la prima risale ad Ilduino, abate di Saint-Denis († 840): nella sua traduzione del De divinis nominibus di Dionigi Areopagita (anonimo teologo siro del sec. V o VI), l’aggettivo corrisponde al greco ajnekfoivthtoı74, termine tecnico della teologia sia neoplatonica sia cristiana attestato a partire dal sec. V ca.75.
Il ThLL, che nel suo spoglio della letteratura latina si arresta notoriamente al 636, non conosce infatti il vocabolo se non per l’attestazione del LG (di nuovo sulla scorta dell’ed. Hagen 1902a); cfr. ThLL, vol. VII/I, col. 1290, rr. 17-19, s. v. Inegressibilem [Rehm]76.
L’attestazione del Liber risulta dunque di fondamentale importanza per non rischiare di ritenere inegressibilis un neologismo, coniato proprio sul far del sec. IX per la traduzione di un termine tecnico greco (un calco); al contrario, va supposto un passato non (segnatamente) letterario dell’aggettivo: in uso già prima della fine del sec. VIII, e non ancora connotato in senso teologico.
c) varianti virgiliane. Ad es.,
AD 389 Adlapsa: caute veniens. (Aen. 9,632)77 Adlapsa L ] Adlabsa P
Anzitutto è utile segnalare l’esistenza di un “doppione” – alla luce di quanto discusso già nel par. 5 – di questa voce (che cade sotto l’etichetta de glosis di AL 34):
74 Cfr. Tombeur 1995, vol. I, pp. 92, 367.
75 Come si può facilmente rilevare dal TLG online: fra le prime occorrenze, per es., Proclo, in Tim. 1,6; Damascio, in Parm. 289. Cfr. anche LSJ, p. 131. Si tratta di un composto (tramite doppio prefisso, ajn-ek) dell’aggettivo verbale foithtovı, a sua volta derivato da foitavw, ‘andare avanti e indietro’/‘frequentare’; cfr. Chantraine 1984-1990, pp. 1220-1221; Beekes 2010, p. 1585.
76 Di conseguenza, per rintracciare le occorrenze del termine mi è stata di ausilio fondamentale la
LLT-O. Il termine si trova registrato raramente nei moderni repertori lessicali di latino; oltre al ThLL, per
es., nel Lex. Lat. Nederl., vol. IV, p. 2472.
77 L’individuazione del passo di riferimento è mia, come si vedrà: l’Ed. non riconosce alcun passo virgiliano per questa voce.
AL 36 A<l>lapsa: [in]caute veniens.
A<l>lapsa ] Alapsa P L ; [in]caute ] incaute P L
Oltre che per una variante fonetica a lemma, le due voci si distinguono per un errore: caute vs. incaute. Per il momento non prendo posizione circa la presunta forma corretta, ma mi limito ad osservare che, fra le due, la lectio difficilior è senz’altro incaute – nonostante l’Ed. intervenga ad espungere il prefisso in- in AL 36.
Nel testo virgiliano approntato dalle edizioni moderne di Virgilio (per le quali, cfr. infra, par. 10) adlapsa ricorre due volte nell’Eneide (9,578; 12,319); ricorre anche a Ciris 476. La voce del LG – attestata in forma doppia, come s’è visto – non può però riferirsi ad alcuno di questi passi: la sua glossa non può spiegare né le due occorrenze eneadiche, per ragioni sintattiche (adlapsa è lì in composizione verbale con est), né l’occorrenza nella Ciris, per senso (adlapsa è lì participio congiunto della flotta che scorge l’isola Donusa, ‘sfiorandola’, ma non si capirebbe perché caute – o incaute che sia – nella glossa).
Si osservi tuttavia che ad Aen. 9,632 (effugit horrendum stridens adducta sagitta) adlapsa può essere variante rispetto alla tradizionale lezione adducta, almeno secondo la testimonianza del codice tardoantico cosiddetto ‘Palatino’, nonché del manoscritto di sec. IX Wolfenbüttel, Herzog-August Bibl., Gud. lat. 70; e nota peraltro a Tiberio Claudio Donato. In effetti, la voce del Liber sembra dipendere proprio da questo passo, dove la variante adlapsa svolge la funzione di participio attributivo rispetto a sagitta (con lo stesso peso quindi dell’espressione horrendum stridens, ‘stridendo orrendamente’): la freccia, che, scagliata da Ascanio, va a colpire la testa di Numano Remulo che insulta e deride i Troiani, è adlapsa perché – spiegherebbe la glossa –
incaute veniens, ossia ‘arriva di sorpresa’ (al nemico)78. A questo punto è finalmente
evidente che, fra AD 389 e AL 36, la voce corretta è la seconda.
Il LG andrebbe dunque segnalato tra i testimoni (indiretti) della variante adlapsa ad Aen. 9,632; Geymonat 2008, l’unica edizione virgiliana che dichiara di tener conto del Liber, ad loc. tralascia però di citarlo.
78 Da notare l’uso singolarmente passivo di incaute: con il valore di ‘inaspettatamente’ (per il quale la lingua latina possiede propriamente improviso), l’avverbio è utilizzato solo da Commodiano (sec. III-V?), apol. 1003, stando al censimento lessicografico del ThLL, vol. VII/I, col. 853, rr. 27-28, s. v.
Incautus [O. Prinz]; cfr. anche Souter 1949, p. 192. La glossa virgiliana dà quindi prova di un termine del
d) errori nella tradizione di Virgilio. Ad es.,
AN 100 Ancorae: quibus iactatis naves in alto detinentur. (Aen. 1,169; 3,277; 6,4; 6,901)79
Ancorae ] Ancore P Anchore L ; iactatis L ] lactatis P ; naves P2 L ] navis P
La lezione ancorae restituita dal lemma di questa voce non compare mai in Virgilio, dove si trova invece quattro volte il rispettivo nominativo singolare, ancora (Aen. 1,169 ulla tenent, unco non alligat ancora morsu; 6,4 ancora fundabat navis et litora curvae; 3,277 e 6,901, versi identici, ancora de prora iacitur, stant litore puppes). A garantirci che ancorae sia però lezione originaria della voce, non si tratti cioè di un errore, è la glossa, costruita evidentemente per un lemma al plurale, cominciando essa per quibus. Da specificare che nemmeno è possibile vedere in ancorae un lemma “creato” dall’estensore della nota a Virgilio, dal momento che uno svolgimento al plurale suonerebbe eccezionale per la natura dei marginalia, dove invece sappiamo essere ammissibile uno spostamento del termine a lemma al nominativo o all’accusativo, secondo normalizzazione. Insomma, ancorae pare riflettere una lezione già propria di un verso di Virgilio, ma erronea (non una possibile variante)80, per ragioni metriche: in tutti i quattro versi suddetti il tràdito ancora occupa lo spazio di un dattilo (senza elisione della vocale finale), e al suo posto ancorae non può evidentemente funzionare; essendo peraltro il vocabolo sempre al nominativo, come s’è detto, una lezione ancorae potrebbe significare uno svolgimento al plurale del verbo stesso, con ulteriore compromissione della struttura esametrica.
Si noti, a questo punto, che nel Liber si legge, entro una sequenza di voci virgiliane senza tag ma successive a una voce con indicazione Virgili (IA 23), il testo seguente:
IA 25 Iaciuntur: porro iactantur.
Iaciuntur non è lemma virgiliano, a meno che non rifletta un errore per iacitur, che in Virgilio ricorre proprio ad Aen. 3,277 e Aen. 6,901. Potrebbe dunque questa voce suggerire l’ipotesi di una corruzione, in un esemplare di Virgilio, di uno dei due (o entrambi i) versi indicati, a livello sia di soggetto (ancorae) che di verbo (iaciuntur)? In
79
L’individuazione dei possibili loci virgiliani di riferimento è mia; l’Ed. non ne propone alcuna.
80 Ho controllato che né le edizioni moderne di Virgilio (di cui infra, par. 10) né l’«Index grammaticus» di Ribbeck 1866 (p. 381ss.) registrano l’errore.
effetti, l’esametro in questione presenta una struttura simmetrica, quanto a forma e contenuto, che sembra prestarsi bene a una banalizzazione invalidante – oltre che la metrica – l’elegante variatio numerica stabilita dal poeta fra i due emistichi: nell’àmbito della descrizione dell’approdo della flotta troiana (rispettivamente, ad Azio e a Gaeta), ‘si getta l’ancora da prua, stanno presso riva le poppe’81.
e) nuove letture morfo-sintattiche del testo di Virgilio. Ad es., AL 248 Alitus: nutritus, pastus. (Aen. 9,30)82
pastus P L2 ] partis L
Anzitutto va segnalato che la voce ricorre in forma “doppia” nel Liber; vi leggiamo infatti, con indicazione de glosis, anche la voce seguente:
AL 390 Altus: nutritus, pastus.
Il “doppione” gioca sulle possibili varianti del participio perfetto di alo (alitus e altus, a lemma), che però negli esametri virgiliani ricorre sempre (e necessariamente, per ragioni metriche) nella forma sincopata: AL 390 rappresenta dunque la versione corretta.
L’unico riferimento possibile è Aen. 9,30 (ceu septem surgens sedatis amnibus altus): solo qui altus può avere valenza verbale; nella restante decina di occorrenze virgiliane il termine è piuttosto l’aggettivo altus, ‘(posto in) alto’/ ‘grande’/ ‘profondo’, epiteto di divinità (Aen. 6,9; 10,875; 11,726; 12,140) o uomini (Aen. 10,737; 12,295) o fiumi (georg. 4,368) o del sonno (Aen. 8,27). Per la verità, anche ad Aen. 9,30 altus può significare ‘profondo’, quale attributo del Gange menzionato al verso successivo – tale infatti la lettura di Servio ad loc. (come si evince sin dal lemma circoscritto dal
grammaticus: Altus per tacitum Ganges)83 –, ma la glossa documentata dal LG sembra
81 A margine, si osservi che a precedere IA 25 nel Liber si trovano le voci IA 23 (con etichetta
Virgili) Iacitur: mari mittitur e IA 24 (senza tag) Iacitur: iactatur. Dato che sappiamo (dal par. 5) che la
fonte Virgili è duplice, e perdipiù i possibili loci virgiliani sono due, la presenza di IA 23 e IA 24 non esclude affatto che anche IA 25 sia voce virgiliana – subito a seguire, nel Liber si trova poi una voce da Origene, IA 26 Iacob (per la fonte origeniana del LG, cfr. Parte I, par. 8).
82 L’individuazione del locus virgiliano è mia; l’Ed. non ne propone alcuna.
83 Altus per tacitum Ganges: fluvius Indiae est, qui secundum Senecam in situ Indiae novem alveis
fluit, secundum Melonem septem: qui tamen et ipse commemorat non nullos dicere, quod tribus alveis fluat. Vergilius tamen, Nilo eum iungens, septem alveos habere significat. Hanc varietatem Donatus fugiens longum hyperbaton facit, dicens ‘ceu surgens septem amnibus Nilus aut Ganges’. Altus per tacitum: sane bene addidit ‘per tacitum altus’, hoc est per profundam altitudinem; nam licet crescat, intra ripas tamen est, nec, ut Nilus, superfunditur campis; unde Asper distinxit ‘altus per tacitum’.
invece legare altus con il complemento septem sedatis amnibus: Virgilio direbbe il Gange ‘alimentato’ da sette placidi corsi d’acqua.
Di conseguenza, agli occhi dell’estensore della glossa i sette amnes del Gange rappresenterebbero i suoi affluenti. Diversamente, legando il complemento con surgens, essi potrebbero rappresentare piuttosto il suo delta. Probabilmente, però, è questa seconda la lettura che riflette meglio l’idea di Virgilio, che – come osserva Servio84 – troverebbe una conferma nella Chorographia del geografo Pomponio Mela, III 7 (sec. I d.C.), se non dipende da una confusione con il delta del Nilo, menzionato al v. 31 e secondo varie fonti geografiche antiche formato proprio da sette rami.
f) scolii nuovi. Ad es.,
OR 11 Orabant (-unt) causas melius: d<ic>ent vel perorabant (-unt), unde ‘orate’ et ‘orato’; vult autem Demo[n]st<h>enem Atheniensem accipi; hic invidisse Ciceroni Virgilius videtur. (Aen. 6,849)
Orabant unt) ] Orabant P L ; d<ic>ent ] dent P L dicetur L2 ; perorabant (-unt) ] proorabant P L ; Demo[n]st<h>enem ] Demonstenem P L ; Atheniensem P
L2 ] Hateniensem L
La voce si riferisce ad Aen. 6,849 (orabunt causas melius caelique meatus): all’interno della sua profezia su Roma e sui Romani, Anchise predice a Enea che altri (gli alii del v. 847), con allusione ai Greci, saranno migliori nelle arti, oratoria compresa – per concludere, però (vv. 851-853): tu regere imperio populos, Romane, memento.
L’espressione virgiliana a lemma nella voce del Liber, orabant causas melius, non è fatta oggetto di commento da parte di Servio (né del Servio Danielino), né di Tiberio Claudio Donato. La glossa tràdita da OR 11 porta invece l’attenzione anzitutto sul verbo orabunt: corradicale del termine tecnico perorare, ad esso va ricondotto altro vocabolario oratorio, esattamente oratae (causae), le ‘cause perorate’ e orator, l’ ‘oratore’85. Molto interessante è poi il tentativo di interpretare gli intenta di Virgilio nascosti dietro l’espressione in esame, anch’esso una novità nel panorama scoliastico a mia conoscenza: con l’espressione del v. 849 il poeta vorrebbe alludere (vult accipi) in particolare a Demostene, l’oratore dell’Atene di sec. IV; e per di più, indicando la superiorità retorica dei Greci sui Romani, Virgilio esprimerebbe qui (hic) la propria
84
Cfr. la nota precedente.
85 Mi sembra infatti che, al testo approntato dall’Ed., possano essere suggeriti due ulteriori emendamenti (lievi): orat<a>e, per il tràdito orate; e orator, per il tràdito orato.
antipatia (o invidia?; oppure getterebbe il malocchio?)86 nei confronti di Cicerone, l’orator romano per eccellenza. Queste due affermazioni sono avanzate senza il supporto di una spiegazione; ciò certo non sorprende per la natura dei marginalia, ma la ragione dei due assunti non mi è del tutto chiara: se si può capire la menzione di Demostene, l’ultimo (tradizionalmente perciò l’apice) degli oratori dell’Atene aurea, nulla sappiamo invece dei sentimenti nutriti da Virgilio nei confronti di Cicerone (una generazione avanti al poeta)87 – forse dietro lo scolio si cela piuttosto la dichiarata antipatia per l’Arpinate (dovuta a questioni politiche) da parte di Asinio Pollione, l’amico di Virgilio? Mi sembra infatti da scartare che lo scolio possa invece dipendere dalla scarsa passione che, come ci informano le biografie antiche di Virgilio, il poeta ebbe per gli studi forensi in gioventù (difese una sola causa, forse senza successo)88.
g) scolii nuovi, ma accompagnati da espressioni tipiche dell’esegesi serviana. Ad es.,
AR 561 Artificum manus: ‘opera artificum’ antiqui dicebant. (Aen. 1,455)
La voce si riferisce al nesso artificum manus di Aen. 1,455: introducendo la descrizione degli affreschi del tempio di Giunone a Cartagine, che occuperà i vv. 466-493, il poeta dice che Enea ammira ‘le mani degli artefici’. La glossa ha due funzioni: sciogliendo la metafora virgiliana, individua nel sintagma opera artificum l’usus tipico degli antiqui per designare le opere d’arte.
Antiqui dicebant è un’espressione che nell’esegesi serviana (e nel Servio Danielino in particolare) ricorre numerose volte, con riferimento agli autori precedenti a
86 Vari i possibili significati del verbo invideo, secondo il ThLL, vol. VII/II, col. 191, r. 16-col. 199, r. 18, s. v. Invideo [Stiewe].
87
Viceversa, sembra che il giudizio di Cicerone su Virgilio fosse molto positivo: al solo ascoltare la recitazione di una delle sue Egloghe, lo disse ‘spes altera Romae’, secondo Servio (ad ecl. 6,11:
Dicitur autem ingenti favore a Vergilio esse recitata, adeo ut, cum eam postea Cytheris meretrix cantasset in theatro, quam in fine Lycoridem vocat, stupefactus Cicero, cuius esset, requireret. Et cum eum tandem aliquando vidisset, dixisse dicitur et ad suam et ad illius laudem ‘magnae spes altera Romae’: quod iste postea ad Ascanium transtulit [ad Aen. 12,168], sicut commentatores loquuntur).
L’episodio è dubbio, ma non da escudere; in merito, cfr. almeno Manzoni 1995, pp. 36-38 («Il canto di Citeride»).
88
Cfr. Elio Donato, Vita Vergilii, parr. 15-16: Egit et causam apud iudices unam omnino nec
amplius quam semel: nam et in sermone tardissimum ac paene indocto similem fuisse Melissus tradidit
Virgilio (compreso)89, ma la nozione dispensata da AR 561 non appartiene al commento di Servio.
La glossa è dunque utile ad ascrivere a un’età antica l’usus dicendi ‘opera artificum’, del quale faccio presente che la prima attestazione diretta risale a Plinio il Vecchio, nat. 35,145, soltanto cioè al sec. I d.C. Qual è, però, esattamente l’Antichità cui il glossatore fa riferimento? La stessa, suddetta, di Servio? Forse, ma nulla può garantircelo (nemmeno si danno altre occorrenze dell’espressione antiqui dicebant – o similia – nel novero delle voci Virgili del LG, sulla base delle quali poter eventualmente azzardare un’ipotesi)90.