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Il sistema della Dogana della Mena delle Pecore e i mutamenti degli equilibri interni al baronaggio.

TENTATIVI DI AUTONOMIA AMMINISTRATIVA: I CAPITOLI DI AGNONE E CAMPOBASSO

5.5. Il sistema della Dogana della Mena delle pecore.

5.5.4. Il sistema della Dogana della Mena delle Pecore e i mutamenti degli equilibri interni al baronaggio.

Lo stabilizzarsi in via definitiva del sistema della Dogana della Mena delle pecore, prevedendo la corresponsione di un corrispettivo economico al feudatario o all’università di cui sfruttava il territorio a diverso titolo per lo stazionamento degli armenti, il loro nutrimento e il passaggio attraverso i passi, comportò uno squilibrio all’interno del gruppo dei feudatari. Diede infatti la possibilità ai fortunati che avevano tra i propri possedimenti terre attraversate dalla rete tratturale o in qualunque modo appartenenti alla dogana, di subire sì una sospensione di fatto della propria autorità su di essi per tutto ciò che riguardava le attività della dogana – e quindi di patire quell’indebolimento del proprio prestigio e del proprio potere su uomini e terre di cui si è parlato sopra – ma di compensare tale indebolimento grazie a un introito economico stabile e abbastanza garantito che bilanciava in proporzioni variabili le spese obbligatorie per lo svernamento degli animali nel Tavoliere. In questo senso, i feudatari e le università che non si trovavano in questa situazione dovevano pagare per condurre obbligatoriamente in Puglia i propri animali: nel caso dei feudatari poi, questa perdita economica si aggiunse a quella che derivava dalle vicende militari. Dopo le riforme in ambito militare promosse da Ferrante, infatti, tutti i baroni avevano visto anche diminuire enormemente la possibilità di guadagnare tramite l’attività mercenaria498. A ben guardare, poi, i documenti della Sommaria rivelano però come in realtà nella maggior parte dei casi anche i feudatari cui sulla carta era garantito un introito avevano crescenti difficoltà a percepirlo. Vediamo alcuni esempi del reale destino di queste entrate legate alla dogana nella documentazione rinvenuta nei registri Litterarum Partium.

496 Ibidem. 497 Ibidem.

144 Il primo febbraio 1479 la Sommaria scrisse al doganiere per fare fede del danaro da corrispondere ad Alberico Carafa per l’utilizzo delle sue terre: Cercemaggiore, la Rocchetta, Castelvetere, Geneze, Gildone, Sant’Angelo di Radicinosa, Quatrano499, Volturara e Ferrazzano. Le cifre di cui si parlava erano: per i passi di Cercemaggiore, la Rocchetta e Castelvetere dodici ducati; per quelli di Geneze, Gildone, Sant’Angelo e Quatrano venti; per gli erbaggi di Volturara Appula settanta ducati «et trovamo confuso Ferrazano con le infrascripte terre»500.

In realtà, oltre a una serie di annotazioni riguardanti il pagamento a vari baroni di diritti di passo, erbaggi etc. da cui emerge che le quote non erano fisse ma variabili, troviamo poi una notizia molto interessante:

in libri et cunti presentati in questa camera per quondam Gasparro de Castigliono vostro precessore, dalo anno prime indictionis per tucto lo anno XI indictionis proxime passato [quindi dal settembre 1467 a tutto agosto

del 1478] non se trova essere stata pagata quantità alcuna per li passi et herbagi predicti. Et ulterius ve

certificamo che lo dicto missere Alberico per le pecore che have avuto in dohana con Massarocto de Fresilone501, have pagata la fida come li altri, et in fide de ciò vende facimo la presente certificatione.

Quindi il Carafa non solo aveva dovuto pagare annualmente la fida per i suoi animali transumanti – anche perché se il proprietario non pagava, gli animali venivano trattenuti in dogana −, ma addirittura per undici anni non aveva ricevuto neanche un ducato di quanto gli spettava per l’utilizzo che la Dogana faceva delle terre soggette alla sua potestà.

Il tutto considerando che il barone in questione era nipote di Diomede Carafa, influentissimo consigliere del re, conte di Maddaloni, castellano di Castel dell’Ovo e Scrivano di Razione, cioè responsabile «dell’ufficio competente per il controllo della spesa militare»502 incarico nello svolgimento del quale si avvalse dell’aiuto proprio del nipote Alberico fin dalla fine degli anni ’60, tanto che poi questi lo sostituì quando morì nel maggio del 1487503.

Il Carafa non era il solo in questa situazione: nel 1486 la Sommaria inviò al re una supplica a lui diretta presentata da Salvatore e Tommaso di Sangro504 dopo le opportune verifiche: i di Sangro affermavano infatti di avere un credito relativo al pagamento degli erbaggi (per metà Dragonara, Castelbottaccio, Lucito e Montazzoli) per l’anno della quarta indizione505 pari a 194 ducati, 2 tarì e

499 Gildone, Sant’Angelo, Senese e Quatrano le aveva avute da Ferrante l’8 febbraio 1467 (Doc 185). 500 Ibidem. Tale documento è presente integralmente sia nel registro 4 (doc. 185) che nel registro 545 (doc 186)

501 Frosolone (IS).

502 STORTI, L’esercito, p. 164n. 503 Ibidem.

504 Doc 276.

145 10 grana, cui andava aggiunto il residuo di 123 ducati e 2 tarì dell’anno indizionale precedente. Chiedevano di scomputare da essi i 123 ducati e 1 tarì dovuti per la fida, potendo poi avere la differenza o sugli introiti dei pagamenti fiscali delle loro terre o scomputandoli sulla fida da pagare. Su incarico della Sommaria il doganiere rispose affermando che i due dovevano pagare 129 ducati, 2 tarì e 2 grana per la fida della quarta indizione, mentre i loro crediti erano pari a 100 ducati per gli erbaggi della metà di Dragonara e 20 ducati per i passi di Castelbottaccio, Lucito e Montazzoli; inoltre vantavano un credito per l’anno precedente pari a 34 ducati, 2 tarì e 10 grana dovuto al fatto che il doganiere aveva trattenuto tale cifra per il pagamento dell’adoha poi revocato dal re. Quindi, andando a sottrarre il dovuto dai crediti, essi dovevano avere 25 ducati e 7506 grana. Il doganiere aveva specificato che di solito si pagavano 120 ducati per gli erbaggi della metà di Dragonara a loro afferente, ma che gli erano stati scomputati 20 ducati

per lo dicto terreno essere in più parte guastate le poste et reducte ad culture, quale non se fanno cedere ad beneficio de dicti supplicanti, ma ad beneficio de Carlo de Sangro.

I due dunque supplicavano il re che

se degnye, de gracia singulare, fare ordinare er conmandare a lo daganero de le pecore che voglia fare reintegrare le poste non altramente si come se faceva al tempo de la felice memoria de Re Alfonso507.508

Un documento di eccezionale importanza che mette nero su bianco quanto scritto in precedenza su come il sistema della dogana delle pecore abbia contribuito a stravolgere gli equilibri del ceto baronale a vantaggio dei baroni fedeli alla casa aragonese e quindi ad aumentare il potere regio nei riguardi degli altri poteri del Regno, è il seguente che − al di là di qualche imprecisione e contraddizione perché chiaramente scritto trascrivendo man mano i dati che i funzionari rinvenivano nella documentazione d’archivio – riporta le rendite che alcune terre portavano ai propri signori feudali.

506 Sic.

507 Alfonso I d’Aragona. 508 Doc. 276, f. 25v.

146 Dovendo eseguire l’ordine regio di ordinare al doganiere della Dogana delle pecore di pagare al da Capua conte di Termoli «li soi herbagii et passi delle soe cità et terre»509 di Serracapriola, Campomarino, Termoli, Apricena, Monterotaro, Campobasso, Ripalimosani, La Rocchecta, Gambatesa e Campodipietra «per lo presente anno XVe indicitionis»510, i funzionari della Sommaria procedettero alla verifica delle scritture presenti in archivio relative alla questione e ne comunicarono gli esiti:

trovamo che in tempo de re Ferrando primo et de re Alfonso secundo, lo dohanero delle pecore, lo quale omne anno dona lista de li patruni del herbagi quali se havet servita la dohana con la quantità de quello deveano haver per dicti herbagii

aveva rendicontato che il conte di Campobasso per gli erbaggi di Apricena e per i passi ed erbaggi di Termoli e Campomarino riceveva 400 ducati; continuavano aggiungendo che

per multi anni in tempo de dicta bona memoria de re Ferrando primo, trovamo che lo gra[n] Seneschalico have consequito ducati quatrocento per anno per li herbagii soi de la Serra Crapiola511 et Santo Martino [in Pensilis]512

fino al primo gennaio 1482. Per il periodo successivo avrebbe dovuto avere 950 ducati − che erano la cifra che Francesco Montluber corrispondeva ad Iñigo de Guevara per gli erbaggi di tutte le sue terre coinvolte nel sistema della Dogana delle Pecore − in virtù di un accordo stabilitosi in occasione del Parlamento generale del 1481513.

Per il 1483, scrissero i funzionari, Pietro de Guevara aveva però ricevuto quattrocento ducati con la motivazione – presente nel documento la cui collocazione archivistica viene citata – «che la dohana non se servio, in dicto anno, de li territori de la Serra Crapiola nè integramente de alii soi territori»514.

Ed è questo un passaggio di fondamentale importanza per il discorso che stiamo affrontando, perché, collegandolo a quanto è emerso per Alberico Carafa, ben esemplifica le conseguenze reali e

509 Doc. 354, f. 47r.

510 Dal 1 settembre 1496 al 31 agosto 1497. 511 Serracapriola (FG).

512 Doc. 354, f. 47v.

513 In quell’anno si tennero due parlamenti: uno a Foggia dal 5 al 13 febbraio tenutosi per la richiesta regia di un sussidio per la riconquista di Otranto e uno a Napoli dal 5 al 7 novembre per la riforma fiscale che Ferrante voleva introdurre. (cfr. SCARTON,SENATORE, Parlamenti generali, pp. 379, 388).

147 concrete della creazione della Dogana della Mena delle Pecore e come essa sia stata un instrumentum regni nelle mani dei sovrani aragonesi.

Un barone “normale” − potremmo dire – come il Carafa, per undici anni continuò a pagare senza ricevere quanto gli spettava e per anni e anni, almeno fino al 1483, Pietro de Guevara, Gran Siniscalco del Regno e figlio di quell’Iñigo morto ventuno anni prima che era stato uno dei principali pilastri della casata aragonese, percepiva dalla Dogana meno della metà di quanto percepiva il padre. Così come la concessione di prerogative al feudatario era di carattere personale – come abbiamo visto – e determinò un fortissimo squilibrio nei rapporti di forza interni alla feudalità, allo stesso modo la creazione del sistema della Dogana della Mena delle pecore divenne un’arma nelle mani del sovrano per accrescere le entrate statali, premiare gli amici fedeli e colpire chi poteva esser un pericolo per lui acquisendo troppo potere e troppa forza economica.

Tutto questo avvenne tra la fine degli anni sessanta e gli anni settanta del XV secolo, gli anni in cui l’affermazione dell’autorità regia si fece più dura, quasi violenta – ci si passi il termine – , gli anni in cui in una città sede episcopale e economicamente importante come Termoli si trattavano con la Sommaria diritti e prerogative che prima si sarebbero trattate direttamente con il sovrano, in cui troviamo documenti dai quali traspare un atteggiamento quasi sprezzante e in cui si impongono ad uno dei sette grandi ufficiali del Regno delle condizioni durissime. Solo la necessità di danaro dovuta alla vitale riconquista di Otranto avrebbe fatto sì che un barone del livello del Guevara si vedesse riconosciuto, quanto meno formalmente, lo stesso trattamento del padre. Ci sembra quindi ovvio che tutto questo portasse di lì a qualche anno alla rivolta dei baroni che vide tra i principali animatori proprio il Guevara, il quale, già pieno d’odio nei riguardi di Ferrante per aver privato la moglie dell’eredità paterna515, non poteva certo accettare di essere trattato in questo modo.

La Dogana delle pecore dunque fu uno strumento complesso nelle mani della corona e della Sommaria, che gestiva quotidianamente i conflitti che ne derivavano: fonte di ricchezza, strumento di controllo dei fedeli del sovrano, ma anche – per un lungo periodo – strumento arbitrario per incamerare denaro, punire i baroni meno fedeli e in generale impoverirli tutti. L’uso e l’abuso di tale strumento, condotti sistematicamente e combinati ad altri provvedimenti di grande peso come la riforma dell’esercito, portarono al malcontento che a sua volta avrebbe condotto alla sollevazione degli anni 1485-6 e probabilmente al diffondersi e radicarsi di atteggiamenti di contestazione della corona i cui frutti si sarebbero visti sin troppo bene alla morte di Ferrante, nel 1494.

515 Il Guevara aveva sposato Gisotta Ginevra del Balzo, primogenita di Pirro duca d’Andria e di Venosa, la quale gli avrebbe portato in dote «un ricchissimo stato se il re Ferdinando non avesse invertito quei diritti ereditari a profitto della secondogenita di Pirro, Isabella, fidanzata successivamente a’suoi figli principi Francesco e Federico d’Aragona» (L. VOLPICELLA, Note biografiche, p. 345)

148 5.6. I rapporti con il clero e con gli enti ecclesiastici

Nella documentazione di interesse molisano rinvenuta nei registri Litterarum Partium non potevano mancare documenti riguardanti i rapporti della corona e della Camera con il clero e con gli enti ecclesiastici, che dimostrano ancora una volta la varietà di temi in merito ai quali interveniva la Sommaria e la profondità di tale intervento.

I documenti di questo ambito riguardano tutti problematiche di tipo esattivo e tributario. Vediamo infatti impegnati a chiedere esenzioni totali dai pagamento ecclesiastici locali e non, come, nel 1487,

lo Cardinale de Milano516 [che] tene doye castelle le quale so exempte de tucti pagamenti secondo contene lo privilegio facto ad quilli boni homini de dicte castelle […] le castelle de Toro et Sancto Iohanne in Gaudo517 de la abbatia de Santa Sofia de Benevento sono state servate franche et immune de pagamento de fochi et sali518

o a precisare gli anni per i quali questo o quel prelato doveva effettivamente pagare, come nel caso di Pietro di Città di Castello abate di Sant’Elena in Valfortore, al quale era stato richiesto il pagamento dell’adoha per i casali di Montecalvo e Torricchio «che tene dicto abate»519 relativamente agli anni della XIV520, I521 e XI indizione522. L’abate si recò in Sommaria e dimostrò che negli anni della XIV e I indizione l’abbazia era retta dal cardinale di Ravenna523 e da Giovanni dell’Orto in suo nome, ragion per cui essa non era stata inserita nel cedolario delle terre da cui riscuotere l’adoha. Pertanto chiese di non dover pagare lui quanto era stato abbonato ad altri. La Sommaria, dopo aver verificato, accolse la sua richiesta e ordinò al commissario di riscuotere l’adoha per «casali et terre che tene dicta abbacia» solo per l’anno della XI indizione.

Capitava anche che si chiedesse di precisare i beni per i quali pagare, come fece il prete Nardo Bruno di Venafro che si rivolse alla Sommaria poiché riteneva ingiusta la pretesa dell’università di esigere dei pagamenti fiscali per dei beni stabili che il padre gli aveva donato e che erano situati sia in città che fuori «contra la antiqua consuetudine de dicta cità»524. La Sommaria scrisse pertanto al

516 Giovanni Arcimboldi (1430 ca.-1488), arcivescovo di Milano e cardinale (C. EUBEL, Hierarchia catholica

medii aevii, II, Monasterii 1914, p. 188).

517 Gli attuali comuni di Toro e San Giovanni in Galdo in provincia di Campobasso. 518 Doc. 279.

519 Doc. 195.

520 L’anno della XIV indizione andava dal 1 settembre 1465 al 31 agosto 1466. 521 L’anno della I indizione andava dal 1 settembre 1467 al 31 agosto 1468.

522 Viste le date propendiamo per considerare l’anno della XI indizione come il periodo tra il 1 settembre 1477 e il 31 agosto 1478.

523 Bartolomeo Roverella (1406-1476), arcivescovo di Ravenna e cardinale. (Dispacci Sforzeschi, V, p. 5n) 524 Doc. 372.

149 capitano di Venafro ordinandogli di verificare la cosa perché non bisognava in alcun modo introdurre novità rispetto alla consuetudine relativa alle donazioni di beni che i preti ricevevano dai padri.

Abbiamo anche notizia di problematiche relative alla fida degli animali e ai pascoli invernali come quelli che coinvolsero la diocesi termolese.

Il6 dicembre 1468, in una lettera diretta al doganiere di Termoli Giovanni Nicola Pugliese, la Sommaria ordinava che al vescovo di Termoli525 venisse fatta pagare la fida per i maiali, regolata da una convenzione, solo nei giorni in cui effettivamente questi erano stati nel bosco di Campomarino e non per tutto l’anno. La ragione di questo provvedimento era che nel bosco erano sopraggiunti i maiali del re e quelli del vescovo erano stati spostati altrove.

Sei mesi dopo, però, Pietro Zavaglia castellano di Termoli, pretese dal vescovo il pagamento della fida per i maiali che il predecessore Perricone aveva concesso solo «a la iglianda et non ad acqua et erba»526, ritenendo falsa la polizza527 presentata dal vescovo, il quale aveva reclamato in Sommaria dicendosi disponibile a pagare alla Camera il dovuto se fosse stato verificato che così era giusto. I funzionari incaricarono il doganiere di Termoli di costringere lo Zavaglia a restituire quanto aveva sequestrato al vescovo − in particolare un cavallo e una mula − in seguito ad una lite insorta tra i due (con parole grosse del castellano) e poi di prendere tutte le informazioni528 del caso, sentendo ambo

le parti e inviando tutto in busta chiusa529 in modo che la Camera potesse decidere.

Qualche anno dopo, il suo successore, il vescovo Giacomo530, aveva presentato una supplica al re nella quale affermava che «havendo et possidendo uno casale inhabitato nominato Sancto Iacomo531 sito et posto nelle pertinencie de dicta cità de Termole», per gli erbaggi del quale egli riceveva cinquanta ducati all’anno durante il regno di Alfonso I, per poi scendere a venti all’anno,

fino a lo anno passato de la VIII indictione532, et che dopo essendo succese le guerre di Toscana et del Turco et altre oppressiune, non ha possuto consequire et haverine dicto pagamento (…) actenta la propria inopia et povertà che appena po’ vivere in statu episcopali533,

525 Il vescovo di Termoli era Leonardo abate del monastero di Santo Stefano (E

UBEL, Hierarchia, II, p. 247). 526 Doc. 8

527 La polizza, qui detta police – era una ricevuta scritta di propria mano, sigillata con la nizza e sottoscritta da testimoni.

528 «Informazione era un termine tecnico, utilizzato nel regno per tutti i dossier messi insieme per finalità amministrative e giudiziarie»: F. SENATORE, La corrispondenza, p. 219.

529 La lettera chiusa era lo strumento standard per inviare ordini, chiedere e dare informazioni e consulenze (cfr. SENATORE, ivi, p. 1).

530 EUBEL, Hierarchia, II, p. 247.

531 L’attuale comune di San Giacomo degli Schiavoni(CB). 532 Dal 1 settembre 1474 al 31 agosto 1475.

150 chiedeva di aver tale cifra tanto per il passato che per il futuro.

Il sovrano trasmise tale supplica alla Sommaria affinché i funzionari controllassero l’esattezza delle sue affermazioni. Essi allora scrissero che

visti per nui li cunti del quondam Francesco Molober et Gasparro de Castiglione dohaneri de le pecore, trovamo in li libri tenuti de dicto Gasparro, quali se conservano in questa vostra camera, essere stato pagate al dicto episcopo de Termole in li anni passati VIe534, VIIe535 et VIIIe indictione ducati XX per anno per gli herbagi del dicto territorio de Sancto Iacomo de dicto episcopato: videlicet li dui terçi in denari contanti et l’altro in panni536.

Infine, abbiamo documenti riguardanti le problematiche relative al pagamento delle tasse per casali di proprietà della diocesi, che spesso si trascinavano per lungo tempo, come nel caso della diocesi di Boiano.

Il vescovo Oddo537 aveva presentato in Sommaria una supplica scritta al sovrano nella quale

diceva che lui «tene et possede»538 il casale di Santo Stefano, disabitato e distrutto dal terremoto,

nella giurisdizione del suo episcopato. Da quattro anni a quella parte − quindi nel 1471 presumibilmente − vi si erano stanziati sedici fuochi «de sclavoni et albanisi et miserabile»539 che

avevano dei pagliari come abitazioni e che il vescovo «have nutrtiri et substentati de li soy grani et altre cose necessarie»540. Ora il commissario fiscale aveva richiesto il pagamento delle «rasune fiscale […] de che per la loro grandissima paupertà per niente non poriano pagare le dite rasune fiscale. Più presto desabitariano da dicto loco»541.

La Sommaria aveva preso informazioni scritte per verificare quanto affermato dal vescovo, e molti testimoni avevano confermato che i sedici fuochi erano «multo poverissimi»542 e che se ne sarebbero andati perché non potevano pagare. Fu analizzata anche la relazione di Agostino de Risi, commissario per la numerazione dei fuochi in quei luoghi il quale

534 Dal 1 settembre 1472 al – 31 agosto 1473. 535 Dal 1 settembre 1473 al – 31 agosto 1474. 536 Doc. 209,f. 77v.

537 Oddo de Oddonis (Eubel, Hierarchia, II, p. 108). 538 Doc. 118, f.82v.

539 Ibidem. 540 Ibidem. 541 Ibidem. 542 Ibidem.

151

fa una rubrica in la numeracione che fa de dicto casale in questo modo, videlicet: “castrum Sancti Stephani inhabitatum (…) inveni habitare quasdam sclavonos et albaneses in numero foculorum pauperum et inpotencium XX”. Sichè vostra maiestà, de tucto avisata, manda quello le piace se habia ad exequire543

Molto tempo dopo si ripresenta la stessa situazione con il vescovo Oddo, che si era lamentato del fatto che il commissario pretendeva i pagamenti fiscali da alcuni suoi vassalli del casale di Santo

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