5.3 Caratteristiche, peculiarità e punti di sovrapposizione tra sex work e pornografia
5.3.1 Stigma e Consenso
La questione del privilegio è legata in modo forte e palese a quella dello stigma e, in un certo senso, della vulnerabilità, andando a definire una prima particolarità di questa intersezione tra le due industrie.
Mentre per le lavoratici della sex industry “classica”, mi si conceda il termine, lo stigma è particolarmente presente durante il periodo, più o meno lungo, in cui si esercita (con ripercussioni legate all'aventuale scoperta dopo l'interruzione della carriera nel sex work), le performer, proprio perchè appartenenti anche all'industria dell'intrattenimento, sperimentano un tipo di stigma differente. Come vedremo nel capitolo “vivere di pornografia” il proprio lavoro può causare delle difficoltà su altri ambiti della propria vita ma, in linea di massima, lo stigma durante la propria carriera è minore. Detto in altri termini, ci troviamo di fronte ad una situazione in cui, in effetti, il privilegio di essere una performer, più o meno nota, più o meno autorevole, va a limare lo stigma affrontato quotidianamente dalla sex worker classica . Terminate le carriere però la situazione sembra rovesciarsi. La sex worker classica non ha necessariamente un'immagine pubblica e, salvo le persone direttamente coinvolte nello scambio sessuo-economico, non lascia traccia materiale di sé e del proprio operato (ad eccezione di numeri di telefono, annunci ecc che sono però “pensati” proprio per sviare dall'identità off-work della lavoratrice...vedremo poi in che modo). Per la performer non è invece previsto il diritto all'oblio. Il solo uso dello pseudonimo è reso pressochè inutile dal fatto che esistano dei prodotti che testimoniano la propria esperienza nell'industry. Il corpo della performer è un corpo “esposto” per definizione, il suo viso e la sua voce, tratti distintivi della propria unicità, non possono essere mostrati “solo” durante la perfomance, al contrario del corpo privo di volto (Abbatecola, 2006) della sex worker. Il proprio viso può essere immediatamente riconoscibile e il rischio di dover affrontare stigma e ripercussioni in vari settori, da quello
lavorativo a quello sentimentale a quello legale in sede di contenzioso per la custodia di minori, ad esempio,una volta terminata la carriera è nettamente superiore rispetto alla sex worker indoor, ad esempio.
Se la sex worker che autogestisce il suo lavoro in un contesto indoor può rischiare un grado di isolamento più o meno profondo la perfomer, con il suo lavoro si rende potenzialmente visibile a un numero estremamente maggiore di persone.
Il problema del “buco sul cv” della sex worker classica viene aggravato dalle testimonianze materiali della propria professione. Questo passaggio diviene particolarmente interessante se pensiamo alla narrazione in cui è sta “pensata” la sex worker. La prostituta è per definizione “esposta”, “pubblica” a sottolineare la forte visibilità nello spazio di questi soggetti. In realtà, nel caso della “prostituzione” indoor questa dimensione viene rinegoziata (a dire il vero si potrebbe osservare la stessa traiettoria nei continui provvedimenti atti a rendere “non visibili” anche le sex worker di strada). Quella che immaginiamo come una donna impegnata in una professione “ipervisibile” è invece, spesso, una che esercita in un contesto delimitato e che dell'invisibilità fa una strategia di sopravvivenza.
Sophy Day (2007, 11) sottolinea come sia proprio lo stigma legato alla professione che promuove una particolare enfatica divisione tra pubblico e privato (con conseguente “bipartizione” della sex worker in queste sfere) ed è innegabile che tale processo venga in qualche modo rovesciato nel caso della performer che della visibilità ne fa una strategia di avanzamento di carriera.
Naturalmente anche per la performer vi è una rivendicazione di una netta divisione tra il proprio privato e la propria professione ma in questo momento è la sola questione della visibilità e dello stigma ad essere presa in esame. Durante una delle interviste, una regista, ex performer, D., mi ha raccontato un episodio a cui dava una lettura tutto sommato positiva ma che, nella sua essenzialità, può servire per meglio comprendere il concetto. Suo figlio era stato invitato ad un pomeriggio di gioco a casa di alcuni compagni di scuola e la madre che avrebbe ospitato l'incontro, dopo essersi avvicinata a D. ha pronunciato le seguenti parole “...I want you to know that I do know and I don’t care. I don’t care and I honestly don’t think anybody else does either...”. D. ha risposto che immaginava dal momento che non le era mai stata posta alcuna domanda sulla sua professione. Sembrerebbe altamente improbabile che, se D. avesse svolto un'altra professione, la sua interlocutrice avrebbe pronunciato quelle stesse parole, seppur di accettazione, ma il fatto
di lavorare nel porno, con un passato da performer, l'aveva resa visibile e riconoscibile e perfino l'atto di “chiedere per conoscersi” era divenuto superfluo.
Altra peculiarità che deriva da questo frame specifico è collegata alla questione del consenso. Come anticipato, i soggetti a cui mi riferisco sono soggetti il cui operato è basato sul consenso. Il concetto di consenso assume una connotazione spazio-temporale ben definita: inserito in un determinato contesto può essere revocabile in qualsiasi momento, non è necessariamente “ripetibile” anche in contesti simili, necessita di continua conferma. Mentre la sex worker esprime il suo consenso a svolgere un servizio in un determinato contesto, la performer oltre a questo, esprime il suo consenso a che la performance venga reiterara nel tempo e nello spazio, nella forma del prodotto audiovisivo. Avrà dunque necessariamente, come qualsiasi performer, modella ecc... meno controllo proprio in virtù del prodotto stesso e dell'uso che ne verrà fatto una volta distribuito e reso fruibile alle masse. La performance sarà quindi potenzialmente infinita e, per un intervallo di tempo più o meno lungo, sfuggirà al consenso del soggetto, lasciando comunque traccia di sé (a differenza della semplice performance sessuale) e andando incontro al rischio potenziale di pirateria, rimontaggi ecc...ma anche a questioni spinose come quelle del “tag”. Il modo in cui vengono suddivise le categorie nei grandi tubes (in base alla performance/pratica o alle/i performers) è al centro di profonde critiche, soprattutto da parte degli/delle insiders. Le categorie vengono costantemente messe in discussione dalle persone intervistate: da una parte riflettono la visione che l'audience ha di una/un determinat* performer (dando adito a categorizzazioni completamente opposte: milf/teen ad esempio), dall'altra possono (ri)creare una suddivisione delle sessualità e dei soggetti coinvolti permeata di transfobia/razzismo/omofobia ecc... La messa in discussione di queste categorie, con una profonda riflessione sul pericolo del concetto di categoria stesso, è ad esempio al centro del lavoro che Stoya e Kayden Kross operano sul loro sito TrenchcoatX.com, attraverso un complesso e personalizzato meccanismo di likes (squeeze) e dislikes (squicks), che siano rispettosi sia della volontà delle/dei performes coinvolti che di tutte quelle soggettività che spesso vengono marginalizzate o feticizzate nelle categorie classiche e che richiedono alla fruitrice/fruitore un certo impegno e tempo nel costruire il proprio archivio di squeeze and squick, venendo a mancare molte categorie che definiscano il/la performer aprioristicamente (pensiamo ad esempio alle categorie basate su una divisione “razziale”) e andando quindi anche a ridefinire il tipo di consumo stile “fast food” della pornografia basato spesso su una rapida ricerca per categorie e una risposta “immediata” da parte
dell'archivio. L'attribuzione di tag, ed è questo l'elemento che lo rende interessante per la questione del consenso di cui sopra, avviene ex-post e, salvo eccezioni, le/i performers non partecipano al processo decisionale, trovandosi dunque sotto etichette in cui potrebbero non riconoscersi o che potrebbero trovare particolarmente offensive,politicamente scorrette o problematiche per collaborazioni future.
In un articolo comparso su “The Nation”107, il performer Mickey Mod spiega che, con le
dovute eccezioni (sempre più numerose), i/le performer non hanno praticamente voce in capitolo su come vengano tagliati e postati sui tubes i materiali. D. ad esempio, durante la sua esperienza come performer, si è trovata più volte ad arrivare sui set senza informazione alcuna e ad avere più dettagli solo una volta sul posto. A quel punto le veniva di volta in volta attribuita una diversa “origine” (asiatica, centro-americana ecc...), richiesto di pronunciare frasi “...say something in spanish” o di lavorare sulla propria estetica per rispondere allo stereotipo legato all'etnia in questione. Tutte cose non troppo confortevoli o viste di buon grado dalla performer che però portava comunque a termine, sottolineando come le persone coinvolte e presenti fossero estremamente gentili e la mettessero a proprio agio creando comunque un ambiente di lavoro positivo. In questo senso dunque, la questione del consenso, non solo verso una pratica/performance, ma verso la propria immagine o verso un prodotto, risulta ancora più sfuggente.