L’IMPRESA E LA RELAZIONE CON IL CLIENTE
2. Dall’individualismo alla relazionalità
2.1 Sull’evoluzione dei bisogni e dei desider
L’obsolescenza economica caratterizza l’inizio del terzo millennio: i beni necessari sono sempre meno, mentre aumentano quelli legati all’intrattenimento, allo svago,
rispondenti a pulsioni ben precise, ma non alla necessità. Acquistano così importanza segni e simboli: il cliente dall’acquisto del prodotto deve ottenere non solo benefici funzionali, ma anche dei vantaggi simbolici, correlati al significato che il prodotto assume sul piano psicologico e/o sociale.
Diversi sono i fenomeni che ne derivano. Si evidenzia quello della domanda con esclusioni, ossia con forte selettività: se in precedenza il cliente aveva necessità di accedere al consumo senza particolari sofisticazioni, ora tende a eliminare le offerte che danno benefici assai inadeguati rispetto a quelli desiderati. Si palesa, poi, un aumento della domanda di servizi. Come sostiene Gronroos (1996) ogni business è un servizio nel momento in cui la chiave del successo è la competizione nel servizio stesso. E’ evidente, dunque, come l’attenzione si sposti dall’offerta alla domanda, intensificando la necessità di analizzare comportamenti di consumo, stili di vita, tenendo presente che le scelte dell’individuo sono anche determinate da pulsioni riferibili all’inconscio e al subconscio. In particolare l’individuo è spinto da pulsioni consolatorie, compensatorie, liberatorie, ostentative e imitative o dettate da consumi ripetitivi, non rispondendo unicamente alla necessità di appartenenza a uno status, ma a progetti di vita, a passioni.
Non vi sono, dunque, solamente bisogni di natura biologica che reclamano la soddisfazione; esistono bisogni relazionali che, se trascurati, possono rendere vano lo sforzo teso ad accrescere i livelli di efficienza, poiché le persone, come anticipato nel precedente paragrafo, esistono solo in un contesto relazionale (Sacco e Zamagni, 2002).
In accordo con tale prospettiva, Arrow (1999: 3) afferma: “…much of the reward for
social interaction is intrinsic – that is the interaction is the reward”. Il valore di
un’interazione, quindi, per Arrow, non sempre risiede nel fatto di essere strumentale al raggiungimento di un altro obiettivo, di essere fase intermedia per qualcos’altro che, solo, avrebbe significato in sè. In ogni interazione c’è anche una dimensione che nel linguaggio della teoria economica si potrebbe chiamare “di consumo”, una dimensione che si rivolge a soddisfazioni di natura morale, affettiva o psicologica.
Gui (2002), ritiene utile riservare uno spazio a questa voce nel “bilancio” di ogni incontro, per non precludersi una chiave interpretativa potenzialmente importante3. L’esito di un’interazione potrebbe, infatti, dare luogo a “mali relazionali”, sebbene, secondo l’autore, sia comunque preferibile parlare di beni, ammettendo che questi possano essere indesiderati. Gui (2002) osserva, inoltre, come il linguaggio comune non aiuti a seguire
3 Gui (2002) fa riferimento all’esempio di un impiegato di banca che viene trasferito da un piccolo centro ad
una grande città, dove i clienti sono più impazienti e cambiano continuamente. Ciò, oltre che dare origine ad un diverso approccio alla clientela da parte del gestore, può influire sulla job satisfaction di quest’ultimo.
questo approccio. Infatti, in genere nel descrivere l’aspetto comunicativo-affettivo di un’interazione si tende a passare immediatamente al piano soggettivo: si salta subito alla gratificazione per l’uno e all’umiliazione per l’altro, senza passare per un’interpretazione neutrale, valida per ambedue le parti, ad esempio che l’incontro ha accentuato la differenza di status tra di esse.
Anche altri autori che non rientrano nella corrente di pensiero che si occupa di beni relazionali riconoscono l’esistenza e la rilevanza di beni di natura affettiva, psicologica generati da interazioni personali e consumati dai soggetti coinvolti. Corneo e Jeanne (1999a) affermano che i beni consumati dagli agenti non includono solo quelli scambiati nel mercato, ma anche quelli che essi chiamano socially provided private goods, come il ricevere deferenza, simpatia, approvazione e cortesia. Pettit (1995) parla di beni attitude
dependent e a questo proposito afferma: “…la gente è interessata anche a beni…come
essere amati, essere apprezzati, essere presi in considerazione, essere rispettati, essere ammirati”.
L’essere umano, quindi, si scopre nel rapporto interpersonale, si realizza nel rapporto con l’altro, il suo bisogno fondamentale è un bisogno di relazionalità (Zamagni, 2002). Al fondo della domanda di qualità della vita sta una domanda che va ben al di là di una semplice domanda di merci “ben fatta”. Si tratta piuttosto di una domanda di attenzione, di cura, di partecipazione, in buona sostanza, di relazionalità. In altri termini, la qualità cui oggi si fa riferimento con sempre maggiore insistenza non è solo quella dei prodotti oggetto di consumo, ma anche (e forse soprattutto) la qualità delle relazioni umane (Zamagni, 2002).
Anche la recente teoria dei giochi di rete, frutto della fusione della teoria dei giochi evolutivi e dell’analisi dei network sociali, permette di gettare luce sul fatto che il nostro star bene, nel senso di well-being, dipende in buona parte dal consumo di quella speciale categoria di beni che sono i beni relazionali (Zamagni, 2002). Un gioco di rete (Ellison, 1993; Morris, 1997; Macy, 1996) è, infatti, definito, oltre che dalla familiare matrice dei pagamenti, dalla matrice del network sociale i cui elementi quantificano il peso della relazione che coinvolge due o più agenti. Ciascun giocatore è influenzato dagli altri, oltre che per il tramite del gioco, anche attraverso lo specifico insieme di relazioni quale espresso dalla matrice del network sociale (Zamagni 2002). Il punto è precisamente questo: all’interno della prospettiva individualista del modello della scelta razionale, l’altro è un mero strumento per il conseguimento dei nostri scopi utilitaristici, ma è un fatto difficilmente controvertibile che la felicità postula l’esistenza dell’altro come un fine in sé:
bisogna essere almeno in due per essere felici, mentre si può massimizzare la propria utilità da soli4 (Zamagni, 2002).
La nostra felicità e infelicità dipende, dunque, soprattutto dalla qualità dei rapporti che costruiamo con gli altri (Bruni, 2002). Nonostante questo, mentre altre discipline, come la sociologia o la psicologia, hanno fatto della relazione interumana il principale oggetto delle loro indagini, la scienza economica, incentrata sull’idea di agente individuale, separato, in-dividuum, considera la dimensione relazionale della persona umana come qualcosa di estrinseco, di accidentale, o di strumentale (Bruni, 2002). Lo stesso ha fatto la teoria del marketing, focalizzando le proprie attenzioni sul marketing transazionale.
Eppure, fino agli inizi dell’Ottocento è prevalente nella cultura occidentale, una linea di pensiero che concepisce il mercato come l’istituzione capace di conciliare soddisfacimento dell’interesse individuale e perseguimento del bene comune (Sacco e Zamagni, 2002). La prima riflessione sistematica sulla felicità si ebbe con il pensiero greco, che nell’etica aristotelica raggiunge il suo apice (Bruni, 2002). Già Aristotele aveva chiaro che l’azione umana ha come fine ultimo la ricerca della felicità. Uno dei suoi principali obiettivi fu, infatti, quello di distinguere il suo eudaimonismo dall’edonismo di Aristippo e della sua scuola: solo “i più grossolani stimano che la felicità stia nel piacere” (EN, paragrafo 7). Diversamente da Platone, che per rendere la felicità indipendente dalla sorte consiglia il distacco dalle circostanze esterne, compresi i rapporti con gli altri (per non far dipendere la nostra felicità dalle loro scelte), Aristotele, nell’Etica Nicomachea, afferma che l’eudaimonia è sociale, ha natura sostanzialmente relazionale. La felicità non è, dunque, totalmente controllabile poiché dipende dai beni relazionali, dalla libertà e dalle motivazioni degli altri. Anche Tommaso identifica la felicità come fine ultimo dell’uomo; manca però nel suo pensiero una fondazione ontologica della relazione interumana che gli impedisce di spingere l’antropologia cristiana sostanzialmente più in là da dove l’aveva portata Agostino e il grande pensiero medioevale (Bruni, 2002). Durante l’Umanesimo si ripresenta, fino al 1400 circa, il pensiero aristotelico rivalutando la dimensione orizzontale e relazionale dell’essere umano (periodo definito Umanesimo Civile), per riproporre in seguito l’anima individualista e contemplativa platonica. Sarà quest’ultima a prevalere anche dal Sei-Settecento in poi (Bruni, 2002): la socialità è qualcosa di estrinseco, di
4 Un ambito di ricerca dove l’approccio relazionale ha prodotto risultati di grande rilievo è quello degli studi
sulla qualità della vita delle persone. In particolare, i Rapporti sullo sviluppo umano, annualmente redatti dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, alla architettura dei quali è stato decisivo il contributo di A. Sen, centrato sull’approccio delle capabilities, e soprattutto la riflessione filosofica di Martha Nussbaum (2002) circa il passaggio dalla nozione di individualismo a quella di persona. Di speciale interesse è l’argomento della Nussbaum volto a mostrare come la prospettiva individualista sia incapace di pensare all’essere umano come “animale con bisogni”.
transitorio, accidentale. La felicità viene confusa col piacere e la riflessione su di essa si sgancia dalla grande tradizione classica che, secondo Bruni (2002), costituisce in questa traiettoria culturale un’importante eccezione.
A partire da quel periodo, per l’influenza decisiva, per un verso, dell’utilitarismo di Bentham, per l’altro verso, dell’Illuminismo francese, prende corpo nel discorso economico l’antropologia iper-minimalista dell’homo oeconomicus e con essa la metodologia dell’atomismo sociale. La nozione di mercato che in tal modo si impone è quella del mercato come meccanismo allocativo, che può essere studiato prescindendo dal tipo di società in cui esso è immerso. E’ così potuto accadere che il mercato divenisse, anche a livello di cultura popolare, il luogo ideal-tipico in cui non vi è posto per la libera espressione dei sentimenti morali e soprattutto per l’affermazione del valore di legame in aggiunta ai valori d’uso e di scambio (Sacco e Zamagni, 2002). In Bentham, la felicità coincide con il piacere e la felicità sociale è vista come somma di piaceri individuali. L’altro sinonimo di felicità nel pensiero di Bentham è l’utilità, dove per essa si intende “quella proprietà di ogni oggetto per mezzo della quale esso tende a produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o
felicità” (1998 [1789], 90-91, corsivi aggiunti da Bruni (2002)). E’ dopo la rivoluzione
marginalista che il dominio della scienza economica non è più la ricchezza, ma la felicità- piacere. Per questo non è corretto, secondo Bruni (2002), affermare che nell’economia neoclassica la felicità non è più centrale: la felicità classica non c’è più, c’è però quella utilitarista.
Recentemente si assiste però ad un fatto nuovo: nelle società a reddito elevato
avere più reddito non ci fa più felici, o meno di quanto ci aspetteremmo5 (Bruni, 2002).
Oggi molti “credono che la felicità debba avere ancora una volta un posto più centrale nella scienza economica” (Dixon, 1997; 1812). La scienza economica, infatti, nel concentrarsi sulle sue variabili focali (reddito, ricchezza, consumo..) trascura qualcosa di importante che poi si riflette sulla felicità o star-bene delle persone. Senza entrare nella ricchissima letteratura psicologica, il qualcosa di importante è individuato da economisti e da altri scienziati sociali: nella salute (Lebergott, 1993), negli status lavorativi (Frey e Stutzer, 2001), negli stimoli sociali (Scitovsky, 1976), nelle aspirazioni sociali (Easterlin, 2000), nelle libertà (Veenhoven, 2000; Sen, 2000), nella diminuzione di altruismo (Phelps, 2001), nella disuguaglianza (Alesina, Di Tella e Mac-Culloch, 2002), nella diminuzione della vita associativa e del social capital (Putnam, 2000; Lane, 2000), nelle esternalità
5 L’ipotesi spesso implicita che infatti sottostava alle analisi degli economisti era che l’aumento della
ricchezza, o del benessere economico, anche se non sempre portava ad un proporzionale aumento di felicità, non portasse comunque ad una diminuzione.
posizionali (Frank, 1997; 1999; Keely, 2000). Si può, quindi, affermare che il qualcosa che l’economia trascura ha a che fare con i rapporti interpersonali genuini.
Anche rispetto ad un mutato modo di comprendere i bisogni delle persone, dunque, la letteratura del marketing e quella economica sembrano avere punti in comune. Entrambe si spostano da un’analisi delle necessità pratiche che generano l’utilità dei beni e dei servizi, ad uno studio maggiormente approfondito dei bisogni psicologici e sociali. Indispensabile appare, quindi, focalizzare l’attenzione non solo sul bene offerto e sulla sua qualità, ma anche e soprattutto sul servizio. Emerge l’importanza dei rapporti con i clienti (o fornitori) e del valore che da tali rapporti ha origine.