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Sviluppare equanimità per scorniciarsi.

Nel documento Ben-essere organizzazione. (pagine 151-176)

Capitolo quarto: La meditazione e la sua possibile applicazione nel settore del sociale.

4.3 Sviluppare equanimità per scorniciarsi.

“Allo scettico, i suggerimenti di Nhat Hanh suoneranno alquanto assurdi, una facezia strampalata, l’ennesima riedizione del noto vaniloquio mistico. Ma anche la scelta pacifista appare a molti altrettanto assurda: proteggere la vita e vivere senza armi in un mondo criminale. La via della meditazione si limita a far fare a quel disarmo personale che abbiamo già intrapreso un altro passo radicale: portare la non violenza non solo nel confronto con i governi, le corporazioni e gli eserciti di liberazione, ma nell’incontro con la realtà stessa. È questa la chiave per comprendere una semplice verità altrove ricordata da Nhat Hanh: “Chi è privo di compassione non può vedere ciò che si vede con gli occhi della compassione”. Questa capacità di vedere di più segna la piccola ma cruciale differenza fra disperazione e speranza”.197

Per equanimità198 si intende qui l’assenza di giudizio, la stessa che dovrebbe

caratterizzare l’operato di un servizio sociale. La capacità di vedere le cose profondamente, senza pregiudizi, capendo attraverso l’osservazione attenta quelli che sono i reali bisogni e sentimenti, potendo così fornire la soluzione più adeguata alle necessità dell’altro con cui interagiamo.

Vorrei partire da una poesia di Thay per introdurre l’argomento.

197 T.N. Han, Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini Editore, Roma, 1992. Pag. 88.

198 G. Desbordes et al., Moving beyond mindfulness: defining equanimity as an outcome measure in

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Please Call Me by My True Names.

Don't say that I will depart tomorrow even today I am still arriving.

Look deeply: every second I am arriving to be a bud on a Spring branch, to be a tiny bird, with still-fragile wings,

learning to sing in my new nest, to be a caterpillar in the heart of a flower,

to be a jewel hiding itself in a stone.

I still arrive, in order to laugh and to cry, to fear and to hope.

The rhythm of my heart is the birth and death of all that is alive.

I am a mayfly metamorphosing on the surface of the river.

And I am the bird

that swoops down to swallow the mayfly.

I am a frog swimming happily in the clear water of a pond.

And I am the grass-snake that silently feeds itself on the frog.

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I am the child in Uganda, all skin and bones, my legs as thin as bamboo sticks.

And I am the arms merchant, selling deadly weapons to Uganda.

I am the twelve-year-old girl, refugee on a small boat, who throws herself into the ocean

after being raped by a sea pirate. And I am the pirate, my heart not yet capable

of seeing and loving.

I am a member of the politburo, with plenty of power in my hands.

And I am the man who has to pay his "debt of blood" to, my people, dying slowly in a forced labor camp.

My joy is like Spring, so warm it makes flowers bloom all over the Earth.

My pain is like a river of tears, so vast it fills the four oceans.

Please call me by my true names, so I can hear all my cries and laughter at once,

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so I can see that my joy and pain are one.

Please call me by my true names, so I can wake up and the door of my heart

could be left open, the door of compassion.

Thich Nhat Hanh199

Cambiare punto di vista e prospettiva può essere una buona chiave di lettura per comprendere quelli che sono gli agiti altrui e le motivazioni ad essi sottese.

Se provassimo a fare un’analisi del cattivo della storia, il pirata che stupra la ragazza, partendo dal suo punto di vista e dal suo vissuto personale, potremmo osservare sotto una diversa luce il perché del suo comportamento. Non siamo qui a discutere di giusto e sbagliato, non siamo qui per giudicare, stiamo cercando di comprendere una condotta, una vita, per riuscire a trovare una soluzione efficace ad un problema.

Se ci mettessimo nei panni di un bambino nato in condizioni economiche oltremodo precarie, cresciuto da due genitori poveri e privi di strumenti

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appropriati per educarlo; un ragazzo cresciuto di espedienti che ha ricalcato le impronte del padre ed è divenuto un povero pescatore di un paese del terzo mondo, che a stento arriva a fine giornata; forse potremmo avere una diversa chiave di lettura.

Immaginiamo poi che questo ragazzo una volta uomo sia entrato in contatto con persone che gli abbiamo proposto di rubare, solo per una volta, di attaccare una barca carica di rifugiati, e che questo uomo abbia accettato poiché disperato rispetto alla sua condizione. Pensiamo poi che presi dall’enfasi del momento i pirati abbiano deciso di approfittare delle donne a bordo e che il nostro uomo non sia stato capace di tirarsi indietro ed abbia stuprato una ragazza. Quando tutto è finito per non lasciare tracce e non rischiare la prigione possiamo immaginare che il gruppo abbia optato per uccidere tutti i presenti a bordo.

A questo punto cerchiamo di sviluppare un’ottica maggiormente ecologica. La soluzione più ovvia alla condotta agita dai pirati sembrerebbe la morte, per ripristinare l’ordine, per lenire le pene inflitte alle vittime e ai loro cari. Uccidendo il nostro uomo non avremmo però una reale soluzione, tranne quella di infliggere una nuova sofferenza ai suoi parenti.

Se pensassimo invece a tutti i bambini, come lo era il nostro pirata, che subiscono la stessa sorte e versano nelle medesime condizioni e che possibilmente compiranno un uguale fato; non sarebbe più utile spostare il nostro sguardo a cosa poter fare per questi bambini affinché non patiscano la stessa sorte e non infliggano le medesime sofferenze?

Questa è l’ottica di cura che Thay ci spinge ad esercitare, evitando di colpevolizzare, cercando invece di capire realmente la trama del tessuto degli eventi. Un’osservazione attenta, una volontà di acquietare la sofferenza per

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gli esseri, può muoversi solo su questi binari, come tra l’altro riscontriamo nelle odierne tecniche di mediazione e gestione dei conflitti200.

La stessa dinamica viene applicata all’interno del curriculum della scuola Pestalozzi, questa parte del programma intitolata “Il paese dei tondi e dei quadrati”201 porta i ragazzi a sviluppare visioni in contrasto tra due diverse

realtà gruppali e ad invertire i ruoli per poter capire ed avvalorare anche il punto di vista dell’altro. Solo immedesimandosi nel ruolo si riesce a comprendere ed accettare le motivazioni alla base dell’agito altrui sviluppando empatia.

Secondo le teorie volte alla gestione dei conflitti l’importante non è la perfetta concezione della correttezza, la giustizia assoluta, ma la soddisfazione dei bisogni reciproci nel rispetto delle parti in causa. Per esempio, un giudice in un tribunale potrebbe decidere che la soluzione ottimale per una spartizione sia quella della metà ciascuno tra due contendenti, per assurdo il reale bisogno dei due potrebbe non essere stato accolto. Magari i due sarebbero stati più soddisfatti con un rapporto di trenta a settanta, o un’altra opzione ancora.

Ascoltare, capire, non giudicare, accogliere, accompagnare; sono tutti compiti legati ad un mandato sociale.

La consapevolezza derivata dalla mindful serve in questo caso a farci accettare la possibilità di non avere potere reale di intervento, quindi comprendere che non potevamo fare niente per evitarlo ed aiutarci a

200 C. Besemer, Gestione dei conflitti e mediazione, EGA, 1999.

201https://sites.google.com/site/educazioneaffettivapestalozzi/iii-biennio1/il-paese-dei-tondi-e-dei-

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convivere con questo dolore; oppure ad aiutarci a vedere come possiamo effettivamente agire per modificare concretamente gli eventi.

Partire da un approccio cibernetico valutando le varie concause e le retroazioni sottostanti alle dinamiche di un processo per avere una chiave di lettura funzionale, in questo caso la soluzione migliore sarebbe quella di coinvolgere governi ed autorità, cittadinanza e famiglie, per evitare che una piaga sociale come la povertà debba necessariamente sfociare in orfani che terminino le loro vite in arrembaggi.

Lavorare alle radici del problema per far sì che questi bambini vivano l’infanzia giusta a cui hanno diritto e diventino adulti migliori, invece che ordire esecuzioni. I nostri nemici sono l’odio, il fanatismo e la violenza, non gli uomini; se ci uccidessimo vicendevolmente in massa chi potrebbe sopravvivere? Come disse Gandhi: “Occhio per occhio… e il mondo diventa cieco202”.

“…il monaco buddhista Thich Nhat Hanh, aveva fondato la Scuola negli anni ’60 come applicazione concreta del “Buddhismo impegnato”. Essa aggregava giovani sinceramente motivati a operare in uno spirito di compassione. Conseguito il diploma, gli studenti si avvalevano dell’istruzione ricevuta per rispondere alle esigenze dei contadini coinvolti nel dramma della guerra. Aiutavano a ricostruire villaggi bombardati, insegnavano ai bambini, allestivano centri medici, organizzavano cooperative agricole. Nell’atmosfera di paura e sfiducia generata dalla guerra, i loro metodi di riconciliazione furono spesso fraintesi. Essi infatti

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rifiutarono sempre di schierarsi per ‘una o per l’atra delle fazioni armate, nella convinzione che entrambe le parti non fossero che il riflesso di un’unica realtà e che il vero nemico non fosse la gente, ma l’ideologia, l’odio e l’ignoranza”.203

Nel 1964 Thay fondò la School of Youth for Social Service204, migliaia di

giovani vennero preparati per andare a fornire il loro aiuto agli abitanti delle campagne, per ricostruire i loro villaggi. Lo spirito alla base di questa iniziativa era quello di non dover aspettare necessariamente l’aiuto del governo per poter agire.

Il buddhismo impegnato trova qui la sua espressione: è sì nostro compito fare presenti ai governi le necessità che abbiamo, allo stesso modo non ci è vietato compiere azioni legali di solidarietà. Ognuno può fornire il suo contributo nel rispetto della legge, apportando il proprio amore là dove la longa manus dello Stato non riesca ad arrivare.

Quindi come abbiamo potuto fin qui osservare possiamo trovare molti punti in comune tra il mondo del sociale ed il buddhismo impegnato, in questo capitolo abbiamo potuto osservare come queste due realtà siano compatibili e collegabili nel loro mandato e nelle loro modalità di implementazione progettuale. Inoltre anche i precedenti schemi organizzativi osservati negli antecedenti capitoli troverebbero ampio riscontro nel sistema organizzativo del settore socio-sanitario.

Andremo ora a concludere l’elaborato tirando le fila del lavoro finora svolto.

203 T.N. Hanh, Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini Editore, Roma, 1992.Pag. 7.

204https://eccemarco.wordpress.com/2016/02/02/mindfulness-in-times-of-war-the-school-of-youth-for-

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Conclusioni.

Per tirare le fila del percorso sviluppato in questa tesi possiamo riassumere che siamo partiti dalla metafora del divenire di Morgan al fine di introdurre una concezione dell’organizzazione che implicasse una totale interdipendenza tra le parti, una visione quindi di stampo cibernetico. Quest’ottica è stata in seguito collegata all’approccio sistemico relazionale per cui ogni singola componente viene riconosciuta come parte integrante di un sistema e gli agiti di ciascuna parte si sviluppano in un ciclo di retroazioni continue rispetto agli input e output pervenuti dagli altri membri del sistema stesso.

Abbiamo voluto pertanto rapportarci all’organizzazione come ad un unicum, in cui per analizzare il funzionamento sistemico interno, non possiamo prescindere dal tenere conto che non vi sia una reale separazione tra le parti. Questa visione della realtà si confà particolarmente alla filosofia buddhista che prevede la comprensione del “Non sé” per analizzare la realtà: ciò significa che secondo questa dottrina ogni singola manifestazione che possiamo percepire all’interno del sistema cosmo non abbia una discriminazione rispetto alle altre, ogni oggetto del reale è composto da tutti gli altri elementi presenti, in un processo continuo del divenire che porta ogni parte ad emergere e fondersi nel flusso di ciò che è manifesto.

Possiamo portare l’esempio di una carota che secondo questo pensiero non potrebbe esistere senza tutto ciò che carota non è: come il sole, l’acqua, il seme, la terra, le mani del contadino che hanno fatto sì che potesse crescere. Allo stesso modo possiamo pensare alla manifestazione di un oggetto ed al suo ritorno al flusso come alle onde del mare: ce ne sono di brevi, di lunghe,

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tutte appaiono a pelo d’acqua e si esauriscono a contatto con la costa quando vi si infrangono, per ritornare molecole d’acqua ed unirsi nuovamente all’oceano.

Abbiamo voluto pertanto proporre un modello sistemico relazionale basato sull’approccio cibernetico ed abbiamo potuto riscontrarne una forte validazione in succitata dottrina.

Lo step successivo è stato quello di provare la validità di tale relazione anche sotto un altro aspetto, la possibilità di educare l’essere umano a sviluppare tale concezione mentale, al fine di generare un sistema mondo quanto più possibile inclusivo e volto alla funzionalità dello stesso.

Collegandoci agli ultimi studi nati dalla collaborazione sviluppatasi tra neuroscienze e buddhismo abbiamo potuto rilevare le basi per convalidare tale presupposto. Grazie alla prova dell’esistenza della neuroplasticità cerebrale, che ci permette di dimostrare che la struttura fisica del cervello possa essere cambiata grazie a modificazioni delle risposte comportamentali a stimoli esterni, siamo potuti giungere anche alla costruzione di un funzionale equilibrio mentale che in questi studi è stato ampiamente agevolato dalla pratica meditativa. Abbiamo pertanto proseguito analizzando i vari protocolli mindful sviluppati nel tempo ed i loro benefici in più campi come ospedali, scuole e strutture gerarchiche.

Siamo in seguito andati ad analizzare alcuni casi concreti come l’industria e la scuola, mostrando come alcuni prototipi che hanno abbracciato questa scuola di pensiero si siano dimostrati particolarmente funzionali per la riuscita dei propri scopi.

Per il caso dell’industria abbiamo potuto osservare che un approccio di questo tipo può agevolare i rapporti interni all’impresa, creando un clima

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sinergico tra le sue componenti, generando un miglior stato di benessere all’interno del corpo dei lavoratori e favorendo una leadership estremamente attenta a mediare tra necessità aziendali ed umane.

Rispetto al caso scuola abbiamo potuto vedere che un approccio mindful riesca a toccare sia ragazzi che docenti favorendone collaborazione ed apprendimento in un’ottica maieutica che sviluppi un’istruzione curiosa e legata alla realtà sociale circostante. I docenti risultano più collaborativi tra loro e maggiormente capaci di accogliere i bisogni del corpo studentesco, che a sua volta viene educato ad approcciarsi alla vita sociale ed alla realtà civica circostante.

L’ultimo capitolo è stato rivolto alla pratica meditativa per affrontare più da vicino l’argomento e per cercare un possibile collegamento col settore del sociale di nostra competenza. In quest’ultimo frangente abbiamo potuto vedere come il buddhismo impegnato di Thich Nhat Hanh possa essere collegato al mandato sociale proprio della nostra professione, cercando possibili collegamenti e tecniche per sviluppare empatia, compassione e non giudizio, quelli che per noi assistenti sociali dovrebbero essere i pilastri del lavoro.

Lo scopo finale dell’elaborato era quello di dimostrare l’importanza delle relazioni tra le componenti di un sistema, ricercando un modus operandi che agevolasse questo funzionamento e permettesse una felice convivenza tra i membri dello stesso. La mindfulness sembra fornirci un buon sentiero da percorrere, alla ricerca di una maggior consapevolezza dell’interdipendenza tra le parti, dell’importanza della propria compartecipazione attiva, della rilevanza della collaborazione tra i membri. L’ascolto, la compassione, l’educazione diventano dei capisaldi della rete, per far sì che vi sia un equilibrio non solo tra le parti, ma anche interno ad ogni sua componente.

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L’individuo deve acquisire una capacità di razionalizzare il suo agito, educandosi a comprendere l’importanza di queste dinamiche e favorendo modalità relazionali consone, senza perdere la propria indole, ma capendo come questa possa rapportarsi al meglio con il proprio essere e con la realtà circostante. La consapevolezza del proprio ruolo, del proprio posto, del proprio interessere col resto degli elementi del sistema aiuta a sviluppare questo percorso volto all’inclusione ed alla collaborazione.

Questo estratto è il monologo di Robin Williams dal film “Patch Adams”, ho scelto queste parole per concludere l’elaborato poiché secondo me molto esaustive riguardo il tipo di approccio relazionale da sviluppare all’interno di una relazione di aiuto, all’interno di un èquipe e all’interno della società. “Well sir, I live with several people that come and go as they please and I offer them whatever help I can. … Everyone who comes to the ranch is a patient, yes. And every person who comes to the ranch is also a doctor. Every person who comes to the ranch is in need of some form of physical or mental help. They are patients. But also, every person who comes to the ranch is in charge of taking care of someone else, whether it’s cooking for them, cleaning them or even as simple a task as listening. That makes them doctors. I use that term broadly gentlemen but is not a doctor someone who helps someone else? When did the term “doctor” get treated with such reverence as, “oh! right this way Doctor Smith” or “excuse me Dr Scholls, what wonderful foot pads” or “pardon me Dr. Patterson but your flatulence has no odour”. At what point in history did a doctor become something more than a trusted and learned friend who visited and treated the ill? Now you ask me if I’ve been practising medicine. Well if this means opening your door to those in need, those in pain, caring for them, listening to them, applying a

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cold cloth until a fever breaks, if this is practising medicine, if this is treating a patient, then I am guilty as charged sir.

What’s wrong with death sir? What are we so mortally afraid of? Why can’t we treat death with a certain amount of humanity and dignity and decency and, god forbid, maybe even humour. Death is not the enemy gentlemen. If we’re going to fight a disease, let’s fight one of the most terrible diseases of all, indifference. Now I’ve sat in your schools and heard people lecture on transference and professional distance. Transference is inevitable sir. Every human being has an impact on another. Why don’t we want that in a patient doctor relationship? That’s why I’ve listened to your teachings and I believe they’re wrong. A doctor’s mission should be not just to prevent death but also to improve the quality of life. That’s why, you treat a disease, you win you lose, you treat a person, I guarantee you win no matter what the outcome.

Now here today, this room is full of medical students. Don’t let them anaesthetise you. Don’t let them numb you out to the miracle of life. Always live in awe of the glorious mechanism of the human body. Let that be the focus of your studies and not a quest for grades which will give you no idea of what kind of doctor you’ll become. And don’t wait until you’re on the ward to get your humanity back. Start your interviewing skills now. Start talking to strangers, talk to your friends, talk to wrong numbers, talk to everyone. And cultivate friendship with those amazing people in the back of the room – nurses. They can teach you. They’ve been with people everyday, they wade through blood and shit. They have a wealth of knowledge to share with you. And so do the professors you respect, the ones that are not dead from the heart up. Share their compassion. Let that be contagious.

Nel documento Ben-essere organizzazione. (pagine 151-176)