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Thomas Hobbes

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO (pagine 57-62)

2. Evoluzione macrostorica del diritto: la vasta storia di un’idea

2.2. Al di là del contratto sociale

2.2.2. Thomas Hobbes

Nel Leviathan del 1651, Thomas Hobbes fornisce una delle più rilevanti e stimolanti declinazioni della teoria del contratto sociale che siano mai state elaborate. Di grande interesse è, innanzitutto, la caratterizzazione che Hobbes fornisce dello stato di natura, la quale si basa su una preliminare valutazione delle passioni fondamentali che animano la natura umana, ovvero su un’analisi delle componenti emotive e psicologiche che essenzialmente caratterizzano gli esseri umani. Dopo aver argomentato a favore di una sostanziale uguaglianza degli esseri umani dal punto di vista biologico e cognitivo56, Hobbes riconosce come fondamentali due passioni

55 Tuttalpiù, come già nel caso di Lucrezio, il momento del contratto sociale può essere considerato, nell’ottica delle teorie evolutive del diritto, come finzione atta a significare il ruolo svolto da razionalità e intenzionalità umana nel processo di evoluzione macrostorica del fenomeno giuridico.

56 In polemica con l’idea aristotelica della naturalità dei rapporti gerarchici a ragione di presunte differenze biopsichiche strutturali, Hobbes afferma che gli uomini dal punto di vista fisico e cognitivo sono sostanzialmente uguali. Petrucciani sintetizza così questo punto: «Hobbes (che avrebbe potuto addossare ai sostenitori dell’ineguaglianza il difficile onere della prova) dimostra con argomenti semplici ma efficaci che gli uomini sono uguali per natura, e che quindi è implausibile e illegittimo spacciare come naturale qualsiasi rapporto gerarchico: quanto alla forza fisica, gli uomini possono anche differire, ma si tratta di differenze non dirimenti perché, infine, anche il più debole ha abbastanza forza per uccidere, magari con l’astuzia o a tradimento, il più forte. Quanto alle facoltà mentali, la prudenza si acquista con l’esperienza, che ovviamente è alla portata di tutti […] Gli uomini,

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egoistiche: il desiderio di possedere beni e guadagni materiali e il desiderio di onore, gloria e riconoscimento. A parere di Hobbes, tali passioni egoistiche determinano un inevitabile conflitto tra volontà di potenze: ognuno ricerca il dominio su tutti gli altri, nella misura in cui l’altro è percepito come ostacolo alla realizzazione dei propri obiettivi. Scrive Hobbes:

La competizione per le ricchezze, l’onore, il comando o per gli altri poteri inclina alla contesa, all’inimicizia e alla guerra, perché la via che porta un competitore al conseguimento del proprio desiderio è quella di uccidere, sottomettere, soppiantare o respingere l’altro.57

Al fianco del desiderio di possedere beni, guadagni materiali e riconoscimento, Hobbes colloca un’altra passione fondamentale: la paura. L’altro è, infatti, avvertito non solo come ostacolo alla realizzazione dei propri obiettivi, ma anche come una minaccia alla propria sicurezza, nella misura è riconosciuto come ugualmente caratterizzato da passioni egoistiche e volontà di dominio. Nell’analisi di Hobbes, dunque, la paura si rivela passione che, in prima istanza, contribuisce ad alimentare il conflitto:

Cosicché nella natura umana troviamo tre cause principali di contesa: in primo luogo, la competizione, in secondo luogo, la diffidenza, in terzo luogo, la gloria. La prima fa sì che si aggrediscano per guadagno, la seconda per sicurezza, la terza per reputazione.58

Egoismo, volontà di potenza e timore: ecco gli essenziali caratteri della natura umana che determinano il famoso stato di guerra di tutti contro tutti che Hobbes ritiene sia la condizione originaria in cui versa l’umanità. In tale primordiale situazione di bellum omnium contra omnes, vige un unico principio di condotta: ricorrere a ogni mezzo possibile per evitare la morte ed ottenere sicurezza. Si tratta del cosiddetto «diritto naturale di ogni uomo ad ogni cosa», in virtù del quale «non ci può essere sicurezza per alcuno (per quanto forte o saggio egli sia) di vivere per tutto il tempo che la natura ordinariamente concede agli uomini di vivere»59.

Stabilito quale sia lo stato di natura, la disamina di Hobbes volge quindi a mettere in evidenza come la paura – da passione che contribuisce a determinare lo stato di guerra di tutti contro tutti – si trasformi in passione societaria. Infatti, come sostiene Hobbes nel De Cive60, «se non vi fosse il timore, gli uomini sarebbero portati dalla loro natura molto più a desiderare il dominio

dunque, sono e si pensano eguali; nel senso che anche le diseguaglianze che pur sussistono non alterano questa fondamentale parità, e quindi non potrebbero mai giustificare la naturale sottomissione degli uni agli altri» (S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, cit., p. 81).

57 T. Hobbes, Leviatano, cit., p. 94.

58 Ivi, p. 119.

59 Ivi, p. 125.

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che la società» e, di conseguenza, «si deve quindi stabilire che le società grandi e durevoli hanno tratto origine non dalla benevolenza reciproca degli uomini ma dal timore reciproco»61. In particolare, la paura assurge a questo ruolo in quanto “passione ragionevole”, ovvero passione capace di mobilitare la ragione affinché si arrivi a cogliere tanto la necessità che ognuno rinunci al diritto naturale di avere ogni cosa, quanto l’esigenza di una qualche forma di collaborazione e accordo sociale. Dal connubio di paura e ragione derivano infatti le cosiddette “leggi di natura”:

[La possibilità di uscire dalla triste condizione in cui l’uomo è effettivamente posto dalla natura] si trova in parte nelle passioni e in parte nella sua ragione. Le passioni che inclinano gli uomini alla pace sono il timore della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie per condurre una vita comoda, e la speranza di ottenerle mediante la loro industria. La ragione poi suggerisce convenienti articoli di pace su cui gli uomini possono essere tratti ad accordarsi. Questi articoli sono quelli che vengono altrimenti chiamati leggi di natura.62

Hobbes individua in particolare diciannove leggi di natura, alla cui esposizione dedica due densi capitoli del Leviathan e il cui significato di fondo egli stesso sintetizza nella massima: “Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”. Nella sua ricostruzione, Hobbes non pare tuttavia far corrispondere al riconoscimento delle leggi di natura una fase specifica di evoluzione sociale o giuridica in quanto, pur riconosciuta l’esigenza di tali leggi, si permane nello stato di natura. Infatti, per Hobbes «le leggi di natura […] in se stesse, senza il terrore di qualche potere che le faccia osservare, sono contrarie alle nostre passioni naturali che ci spingono alla parzialità, all’orgoglio, alla vendetta e simili»63, di modo che risulta possibile concludere che «i patti senza la spada sono solo parole e non hanno la forza di assicurare affatto un uomo»64. Per Hobbes, in altri termini, è unicamente attraverso il contratto sociale e la consequenziale nascita dello Stato che si esce dalla condizione anarchica e violenta che è lo stato di natura e si perviene alla società civile. Il contratto tra individui è al tempo stesso un pactum unionis e pactum subjectionis in quanto, per suo tramite, si attribuisce potere assoluto ad un sovrano, cui spetterà il compito di creare le leggi e farle rispettare con la forza della spada.

Riportata brevemente l’argomentazione hobbesiana relativa al passaggio dallo stato di natura allo stato civile, diviene possibile cercare di cogliere fra le righe del discorso la sua visione

61 Ivi, p. 82.

62 T. Hobbes, Leviatano, cit., p. 123.

63 T. Hobbes, Leviatano, p. 163.

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dell’evoluzione macrostorica del fenomeno giuridico. Come si è avuto modo di accennare, ciò implica lo sforzo di mettere tra parentesi le componenti ideologiche e promozionali della teoria di Hobbes. In tal senso, bisogna allora osservare, innanzitutto, che la tesi hobbesiana che prima della stipulazione del contratto sociale si permanga nello stato naturale – anche quando siano riconosciute le leggi di natura – risponde non solo all’obiettivo politico di affermare la legittimità e necessità dello Stato assoluto, ma anche alla volontà di sostenere – in polemica con Edward Coke – che di diritto si possa propriamente parlare solo nel caso del prodotto di una legislazione positiva. Astraendo da tali intenzioni propriamente politiche e ideologiche – e tenendo conto del fatto che proprio dalla polemica con Edward Coke emerge chiaramente che Hobbes è ben consapevole dell’esistenza di forme di diritto consuetudinario e giurisprudenziale65 – appare evidente come per l’autore del Leviathan tra l’anomico e anarchico stato di natura e lo stato civile che si determina con il contratto sociale (che è anche l’epoca del diritto risultante da legislazione positiva) esista almeno uno stadio intermedio di evoluzione sociale, politica e giuridica. Delle caratteristiche strutturali della vita associata in tale stadio intermedio, in effetti, Hobbes pare rendere conto tramite l’esposizione dettagliata delle leggi di natura, le quali – più che espressione di una «morale razionale della reciprocità»66 – devono essere considerate come regole di condotta caratterizzanti forme sociali “primitive”. Infatti, delle diciannove leggi di natura, le prime due risultano astratte e generali – la prima prescrive di cercare e perseguire la pace, mentre la seconda prescrive di rinunciare al diritto naturale su ogni cosa – , ma le altre si configurano come regole di condotta ben più specifiche, riguardanti: il valore dei giuramenti e dei patti, la proprietà comune, le finalità rieducative e dissuasive che deve avere la pena (e anche la vendetta, intesa come sanzione), la possibilità di perdonare le offese, la ricerca di equità, la necessità di un terzo imparziale per la soluzione dei conflitti, il ruolo dei mediatori etc. Prescindendo dalle componenti ideologiche e, di conseguenza, interpretando la descrizione delle leggi di natura come descrizione di uno stadio intermedio tra lo stato naturale e quello propriamente civile, pare possibile affermare che per Hobbes esiste una forma sociale prestatale che presenta una certa regolamentazione giuridica, la quale tuttavia risulta incapace di garantire un effettivo superamento del rischio di ripiombare nello stato di guerra di tutti contro tutti. In altri termini, in questa prima forma di organizzazione sociale e giuridica, esiste un problema di instabilità, dato sostanzialmente dalla mancanza di strumenti che garantiscano

65 Cfr. T. Hobbes, A dialogue between a philosopher and a student of the common laws of England, Milano, Giuffrè, 1960.

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il rispetto effettivo delle norme vigenti. Ecco che allora – per ovviare al problema di ineffettività caratterizzante tale stadio intermedio di evoluzione sociale e giuridica – avviene la comparsa di organi specifici, preposti alla creazione/definizione del diritto e alla sua applicazione, vale a dire la comparsa dello Stato. Scrive Hobbes:

Il solo modo per dar vita alla costituzione di un potere comune capace di difendere gli uomini dalle invasioni degli altri popoli e dalle reciproche ingiurie, ed insomma di garantire la loro sicurezza in modo che con la propria attività e con i prodotti della terra essi possano nutrirsi e vivere comodamente, consiste nell'investire di tutto il proprio potere e di tutta la propria forza un uomo od una assemblea di uomini che sia in grado di ridurre tutte le varie opinioni, per mezzo della pluralità dei voti, ad una sola volontà; il che è come dire di dare incarico ad un uomo o ad una assemblea di uomini di rappresentare la persona dei singoli cittadini e riconoscersi, ciascuno per quanto riguarda se stesso, come l'autore di qualsiasi cosa che colui che è stato eletto a rappresentarli, farà o farà in modo che venga fatta, in quelle cose che concernono la pace e la sicurezza comune, ed in questo, ridurre le proprie volontà ciascuno alla volontà di lui, ed i loro giudizi al giudizio di esso.67

In questo passaggio – che tramite la finzione del contratto sociale è pensato come repentino, ma che evidentemente deve essere inteso come processo graduale – è ancora una volta la paura che si rivela essenziale: da passione che contribuisce allo stato di guerra, la paura diviene passione ragionevole e condizione necessaria ma non sufficiente di un ordine sociale stabile, per rivelarsi infine – come timore della sanzione – requisito per “assicurare” il rispetto delle norme giuridiche e per garantire la stabilità sociale stessa. Sul ruolo centrale che la paura svolge nella ricostruzione di Hobbes insiste efficacemente Elena Pulcini in Paura, legame sociale e

ordine politico in Thomas Hobbes68:

La costruzione dello Stato è allora l’ultimo e decisivo atto che scaturisce dall’alleanza tra paura e ragione, tra paura e autoconservazione. È la strategia risolutiva che la paura adotta, per rimediare alla propria inefficacia: trasformandosi da paura della morte in paura della sanzione, da paura reciproca in paura comune. È vero, dunque, come è stato detto, che la paura è passione produttiva, politicamente produttiva, in quanto risolve il problema del conflitto e della morte. Ma è vero anche che la paura non scompare; non può scomparire, nell’universo hobbesiano, in quanto è la passione che, in tutte le sue forme, garantisce il bene fondamentale della conservazione della vita. E ciò vuol dire che la politica, chiamata a liberare gli uomini dalla paura della morte, è in grado di garantire la vita solo facendosi a sua volta produttrice di paura, erigendosi ad istituzione coercitiva, tutrice di un ordine repressivo.69

67 T. Hobbes, Leviatano, cit., p. 167.

68 E. Pulcini, Paura, legame sociale e ordine politico in Thomas Hobbes, in G. M. Chiodi e R. Gatti (a cura di), La filosofia politica di Hobbes, Milano, Franco Angeli, 2009, pp. 65-80.

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Proprio tale attenzione nei confronti delle componenti emotive e psicologiche in gioco nel processo macrostorico di evoluzione sociale e giuridica si rivela elemento estremamente moderno della riflessione di Hobbes e, sebbene in misura minore, anche della riflessione degli altri pensatori che adottano il paradigma contrattualista. Infatti, la tendenza ad ancorare le riflessioni sulle origini della società politica e dello Stato (ma anche del fenomeno giuridico) a considerazioni preliminari di ordine psico-antropologico relative all’essenza della natura umana – con pensatori come Hobbes e Spinoza e Kant che insistono sul fondamentale egoismo (più o meno illuminato) degli esseri umani e altri come Locke e Rousseau più inclini a riconoscer all’essere umano un’intrinseca predisposizione alla socievolezza – si ritroverà poi sviluppato, ovviamente con maggiore rigore scientifico, dalla sociobiologia e dalla psicologia evoluzionistica nei loro tentativi di render conto delle origini e dello sviluppo della socialità e della giuridicità. In tal senso basti pensare all’ampio dibattito su pure altruism, kin altruism e reciprocal altruism che prende avvio a partire dalla seconda metà del XX secolo e di cui approfonditamente rende conto Wojciech Załuski in Evolutionary Theory and Legal Philosophy70.

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO (pagine 57-62)