• Non ci sono risultati.

La danza nel cinema muto italiano

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "La danza nel cinema muto italiano"

Copied!
764
0
0

Testo completo

(1)

DOTTORATO DI RICERCA IN

STORIA DELL’ARTE E STORIA DELLO SPETTACOLO

CICLO XXVI

La danza nel cinema muto italiano

Settore Scientifico Disciplinare L-ART/06

Dottorando Tutore

Dott. Uffreduzzi Elisa Prof. Jandelli Cristina

Coordinatore

Prof. Messina Maria Grazia

(2)
(3)

1

La danza nel cinema muto italiano

Indice

Introduzione 5

I La danza folclorica italiana nei “dal vero” 13 II Il ballo da sala nel cinema muto italiano 37 II.1.a Il tango nel cinema muto italiano 38 II.1.b Tango apache: il contesto internazionale 48 II.1.c Tango e danza apache nel cinema muto: la via

italiana

59

II.1. d Un tango “fuori tempo”. Hollywood tra cortes

y quebradas. Emilio Ghione: l’ultimo tango,

per l’ultimo apache

69

II.2 Feste, balli e ricevimenti.La danza di società come “color locale”

77

III Attrazioni in punta di piedi: la danza classica nel cinema muto italiano

91

III.1 Excelsior, la danza classica al cinema 93 III.2 Lucio D’Ambra: le regie tra cinema e danza 99 III.3 Opzioni registiche per la danza classica nel

cinema muto italiano

102

IV Modernismo coreutico 113

IV.1 La danza nuova di Loïe Fuller 116 IV.2 Isadora Duncan e la lezione greca 128 IV.3 Orientalismo: coreografia di una seduzione 136

(4)

2

IV.3.a Salomè, l’Oriente, la danza moderna 143 IV.3.b Ruth St. Denis: un orientalismo sui generis 164 IV.4 Futurismo e danze d’avanguardia 180 IV.5 Ida Rubinštejn, il sincretismo coreutico e la

crisi del cinema muto italiano

218 V Conclusioni 237 V.1 I numeri 237 V.2 Il suono 238 V.3 Il movimento 245 Appendici

a Glossario dei termini coreutici ricorrenti nel testo

255

b Indice dei film del cinema muto italiano a contenuto coreutico (1896-1921 ca.)

263

Trascrizioni di documenti:

c. Il tango ed il suo fango: la censura contro il

tango sulle pagine de «L’Unità Cattolica»

581

d. Abbasso il tango e Parsifal!: Filippo Tommaso

Marinetti contro il tango

683

e. Excelsior: analisi strutturale del Passo a otto della Fama e del Primo quadro,

l’Oscurantismo (di Flavia Pappacena)

685

f. Dal Quaderno di Giovanni Cammarano: la partitura coreografica del Ballo Excelsior

689

g. La parola ritorna: prologo di Lucio D’Ambra

per la prima di Excelsior (Luca Comerio, 1913) al Teatro Adriano di Roma, il 29 aprile 1914

693

h. Manifesto de La danza futurista 701

i. Il mimodramma, manifesto 709

l. Tabella delle case di produzione dedite al cinema di matrice coreutica

(1896-1921 ca.)

(5)

3

m. Iconografia 717

n. Filmografia 739

(6)

4 Legenda: mdp: macchina da presa inq./inqq.: inquadratura/inquadrature dx: destra sx: sinistra min.: minuto/minutaggio did.: didascalia col.: colore s.d.: senza data

(7)

5

Introduzione

Fin dalle origini del cinema, la danza, in quanto spettacolo del movimento al pari di esso, ne è spesso stata protagonista. Sono molteplici le ragioni del ricorrere della presenza coreutica all’interno dei film. Quando nasce il cinema (convenzionalmente nel 1895), nella cultura dello spettacolo di inizio Novecento, il concetto di attrazione – intesa come «elemento avvincente, sensazionale, di un programma»1, come momento di «pura “manifestazione visiva”»2

– è molto diffuso e al cinema trova una prima applicazione nelle vedute unipuntuali (composte cioè da un solo piano e riprese in un unico quadro) della prima ora, ma sopravviverà ancora a lungo nelle vedute pluripuntuali (composte da più piani/quadri), in forma “narrativizzata” (quando cioè i singoli elementi di “attrazione” sono presenti ma in forma integrata nella narrazione). Nel primo caso, secondo la terminologia cara a Gunning e Gaudreault si parla di “sistema delle attrazioni mostrative”, mentre nel secondo di “sistema dell’integrazione narrativa”. Nel corpus di film che ho circoscritto per la presente ricerca, ho inviduato numerosi casi sia del primo che del secondo tipo, quest’ultimo certamente diffuso in modo molto più ampio. La danza infatti, parimenti a numeri circensi e scene comiche, riveste spesso nel primo cinema il ruolo di “effetto visivo”, spettacolo puro, condizione sufficiente alla visione filmica3

, tuttavia, se è vero che «nel sistema delle attrazioni mostrative il regime della narrazione filmica è chiaramente del tutto secondario. [e] Al contrario vi regnano sovrane la mostrazione filmica e l’attrazione»4

, più complicato è stabilire quanto le attrazioni siano tali – cioè forme di spettacolo puro – all’interno di una narrazione e quanto invece sfuggano ad essa, per svolgere ancora la funzione di “mostrazione”, in antitesi a quella narrativa. Spesso infatti,

1

Jean Giraud, Le lexique français du cinema des origins à 1930, Cnrs, Paris, 1958, cit. in André Gaudreault,

Cinema delle origini o della “cinematografia-attrazione”, Milano, Il Castoro, 2004, p. 38

2 Tom Gunning, Attractions, truquages et photogénie: l’explosion du présent dans les films à truc français

produits entre 1896 et 1907, in Michele Lagny, et al., a cura di, Les Vingt Premières Années du cinéma français, p. 179, cit. in A. Gaudreault, Cinema delle origini o della “cinematografia-attrazione”, cit, p. 38.

33 Sottolinea tuttavia Gaudreault come anche alcuni elementi oggi parte dell’abituale linguaggio

cinematografico (come il primo piano, il plongée e il carrello) nelle loro prime apparizioni abbiano spesso svolto questo ruolo attrazionale, al pari dei numeri circensi. Si pensi ad esempio al primo piano del capo dei banditi che spara in direzione dell’obiettivo della macchina da presa in The Great Train Robbery (La grande rapina al treno) di Edwin Porter (1903). Nella cinematografia successiva il primo piano sarebbe divenuto elemento funzionale alla resa psicologica del personaggio o avrebbe assunto funzione deittica nei confronti di dettagli del profilmico, divenendo così funzionale alla narrazione. Cfr. A. Gaudreault, Cinema delle origini o

della “cinematografia-attrazione”, cit., pp. 41-42.

(8)

6

pur perfettamente giustificate dalla trama e anzi funzionali ad essa, le attrazioni – la danza nella fattispecie – assurgono al ruolo di protagoniste, riprese perlopiù secondo una prospettiva di tipo teatrale, in lunghe scene, quando non intere sequenze, che si sottraggono a una definizione univoca. Svolgendo la ricerca della quale qui propongo i risultati, ho potuto appurare che la danza nel cinema muto italiano è quasi sempre “un’attrazione”, a prescindere dalla sua integrazione narrativa. Lo è ogniqualvolta cattura l’attenzione dello spettatore, squarciando la trama per divenire protagonista del quadro e ciò accade in larga parte della casistica filmica individuata. Sfugge forse a quest’ampia categoria di coreutica come “attrazione” la danza in quanto color locale, che nelle forme del ballo da sala talvolta può rimanere relegata nello sfondo senza divenire mai protagonista (nel film In assenza dei

padroni5, ad esempio). Eppure anche in questo caso si potrebbe obiettare che il fatto stesso che ne stiamo parlando tradisca la cifra “attrazionale” di quei balli: qualcosa, il punctum di cui parlava Roland Barthes6, ha catturato la nostra attenzione, facendo di nuovo della danza in certa misura una protagonista, un effetto, un’attrazione. Non dissimilmente dalle foglie mosse dal vento in Le repas de bébé (Frères Lumières, 1895), dove non era tanto la scena in avampiano, quanto piuttosto ciò che avveniva sullo sfondo, rivelato dalla profondità di campo, a costituire il punctum, a rapire il nostro sguardo7. Non a caso Cristina Jandelli parla di «vera attrazione del film»8 a proposito delle esibizioni sceniche di Lyda Borelli nel film Ma l’amor mio non muore! (Mario Caserini, 1913), nelle quali le allusioni alla danza si danno nella duplice veste di alcuni semplici passi di uno pseudo-flamenco (Fig. 1) eseguiti dalla protagonista Elsa Holbein (Lyda Borelli) sul palcoscenico e del costume da Salomè che l’attrice indossa in un’altra scena del film, a questa precedente9 (Fig. 2).

Su un piano più strettamente semantico, Ratiba Hadj-Moussa sottolinea invece la dimensione fisica, corporea della danza, riconoscendo nel corpo danzante sullo schermo cinematografico l’espressione del sociale: «le corps est une sorte de topoi à partir duquel les systèmes représentatifs signifient leur inclusion dans le social et leur participation à son

5 In assenza dei padroni (Cines, 1912), lunghezza originale: 144 m; lunghezza copia consultata (Eye library):

140 m; B/N; Desmet collection.

6

Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 2003, pp. 44-48 [1ª ed.: La

Chambre claire. Note sur la ohotographie, Cahiers du Cinéma – Éditions Gallimard – Seuil, 1980].

7 Cfr. Sandro Bernardi, L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un linguaggio, Venezia,

Marsilio, 2007, pp. 27, 29.

8 Cristina Jandelli, Le dive italiane del cinema muto, Palermo, L’Epos, 2006, p. 103. 9

In entrambi i casi si tratta di due scene di mise en abîme, con la Borelli alias Elsa Holbein intenta ad interpretare due diverse pièce sulla scena teatrale.

(9)

7 élaboration»10. Egli sottolinea come la presenza coreutica al cinema trovi spesso una giustificazione nella necessità che ha la società di rappresentarsi, attraverso dei mezzi simbolici come la danza – e segnatamente il corpo danzante – e l’immagine, che fanno riferimento alla dimensione sprituale e alla libertà. «Le corps est bien un lieu d'organisation des savoirs, et […] le corps dansant au cinéma réfère à autre chose qu'à la forme «tangible» qu'il représente. Ce procès de renvoi est au carrefour des présupposés de la danse et du cinéma en tant que dispositifs imaginaires. Le cinéma rencontre la danse en redoublant et en ritualisant son idéal du beau, c'est-à-dire l'ordonnancement esthétique et politique des corps, et par là, il est au centre de la production du sens»11.

La danza, in special modo quando eseguita da interpreti femminili, richiama facilmente alla memoria dello spettatore il mito della baccante in delirio; non a caso molte delle coreografie che affronteremo nel presente lavoro terminano con vorticosi giri della danzatrice su se stessa, che infine cade a terra esausta, descrivendo così una sorta di paradigma dell’isteria, uno stato di alterazione della psiche che si lega a doppio filo con la danza da un lato e con l’immagine cinematografica – immagine in movimento – dall’altro. Pasi Väliaho, mettendo a confronto lo “sfarfallio” delle immagini del primo cinema con i movimenti convulsi, a scatti, dei pazienti dell’ospedale parigino de la Salpêtrière, osservati da Jean-Artin Charcot tra il 1862 e il 1893, a tal proposito afferma:

from March 5, 1889, […] chronophotographic experiments had already been carried out at Charcot’s clinic and the jerky movements of the patients’ nervous bodies had already been dissected and reproduced in the camera’s mechanics in order to assist the naked eye in mapping out the symptoms on the surface of the body. It is thus fairly evident that the mode of Charcot’s vision here coincides with the cinematic perception of movement based on discontinuous cuts of separate poses12.

Trova così una valida giustificazione la presenza coreutica al cinema: in quanto sintomo di uno stato di alterazione, prerogativa femminile ora latente, ora manifesta, di cui le inquadrature sono veicolo, ma ne ricalcano anche il ritmo, sconnesso e a scatti, delle prime riprese.

10 Ratiba Hadj-Moussa, Le Corps dansant au cinéma, in «Cinémas: revue d'études cinématographiques /

Cinémas: Journal of Film Studies», vol. 3, n° 2-3, 1993, p. 207 (consultato online all’indirizzo http://id.erudit.org/iderudit/1001199ar).

11 Ivi, p. 217. 12

Pasi Väliaho, Mapping the Moving Image. Gesture, Thought and Cinema circa 1900, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2010, p. 28.

(10)

8

Méliès’s films are also about this questioning of how the body discovers a new, automatic and initially jerky rhythm with the cinematographic machine. They configure the zone of indetermination as a process of bodily decomposition that rather directly takes up the same problematic of convulsive and “formless” movements as the hysterical body. […] Charcot’s and Méliès’s bodies become by nature convulsive, nervous, and “abnormal” as they approach the limits of technological automatism. These bodies appear to be in a deep crisis13.

Tra le prime immagini catturate dal kinetoscopio Edison e dal cinematografo Lumière troviamo infatti le riprese della celebre danza Serpentina interpretata, davanti all’obiettivo e all’operatore, di volta in volta da una delle innumerevoli imitatrici14

di Loïe Fuller, la celebre danzatrice americana che alla fine dell’Ottocento (è del 1892 il primo brevetto) aveva ideato o per meglio dire perfezionato uno spettacolo di danza incentrato sul movimento impresso all’ampio costume da lei stessa concepito, attraverso la gestualità delle braccia e le torsioni del busto. La Serpentina era infatti una sorta di filiazione della

skirt dance, nata in Inghilterra nel vaudeville di fine Ottocento, quando la realtà coreutica

internazionale s’identificava pressoché ovunque con il virtuosismo del balletto romantico, che al contrario enfatizzava il dinamismo delle gambe e i complicati passi compiuti sulle punte.

L’attenzione agli effetti di luce, che la Fuller creava sul costume mediante appositi dispositivi illuminotecnici e vetrini colorati, costituiva un secondo e fondamentale elemento di affinità tra danza e cinema, due forme di spettacolo basate entrambe sulla luce e il movimento. Ciò è a maggior ragione vero nel caso del cinema muto, un’arte che, dovendo rinunciare alla parola, riponeva ogni suo anelito alla comunicazione nel movimento corporeo.

Sono innumerevoli i film che dalle origini del cinema alle soglie degli anni Trenta contengono al loro interno una scena di danza, a vario titolo. Evidentemente se non altro per affinità di mezzi, è a un’arte che si sostanzia del movimento corporeo che il cinematografo sente il bisogno di attingere in prima istanza. Si pensi ad esempio al

Phono-Cinéma-Théâtre15, presentato all’Esposizione Universale di Parigi del 1900, uno spettacolo la cui programmazione attinse a piene mani al repertorio del balletto classico.

13

Ivi, pp. 28-29.

14 Non ci restano infatti filmati la cui interpretazione sia attribuita con certezza alla Fuller, cfr. Patrizia

Veroli, Loïe Fuller, Palermo, L’Epos, 2009, pp. 331-334. Cfr. anche Giovanni Lista, Loïe Fuller danseuse de

la Belle Époque, Hermann Danse, 2006 (1ª ed.: Loïe Fuller, danseuse de la Belle Époque, Somogy éditions

d’art - Éditions Stock, Paris, 1994), p. 613.

15

Cfr. Catherine A. Surowiec, a cura di, Le Giornate del Cinema Muto, Catalogo del 31° Pordenone Silent Film Festival, Pordenone, 6-13 ottobre 2012, Gemona, La Cineteca del Friuli, 2012, pp. 24-28.

(11)

9 Per poter vagliare la consistenza della danza nel cinema muto, si è reso necessario delimitare a priori un’area sulla quale concentrare le ricerche. Ho pertanto ritenuto opportuno isolare un corpus di film circoscritto alla produzione italiana. Non si tratta soltanto di una scelta quantitativa: l’opzione geografica mi ha permesso di contestualizzare la filmografia presa in esame anche dall’imprescindibile punto di vista storico-sociale.

Al fine di individuare un campionario di film sui quali condurre la mia indagine coreutica, ho iniziato il percorso di ricerca e schedatura a partire dal lavoro di catalogazione condotto sul cinema muto italiano da Aldo Bernardini e Vittorio Martinelli16 e altri repertori affini, digitali17 e non18: ciò mi ha permesso di tracciare una mappatura, senz’altro incompleta ma sostanzialmente attendibile, della presenza coreutica nella cinematografia muta italiana. Dai titoli e dalle trame dei film così individuati mi è stato possibile procedere a una prima se pur parziale indicizzazione dei film di produzione italiana del periodo muto interessati da questa prospettiva. Considerata la grande quantità di pellicole presumibilmente contenenti al loro interno una scena di danza, ho ritenuto doveroso circoscrivere ulteriormente l’ambito di ricerca. Ho quindi scelto come terminus

ad quem per concludere la mia indagine il 1921, anno cruciale per la cinematografia

italiana, non solto perché a quell’altezza cronologica ha inizio la grande crisi irreversibile del cinema muto italiano,19 ma anche perché in quell’anno Gabriellino D’Annunzio e Mario Roncoroni realizzano il film La Nave, protagonista la celebre danzatrice Ida Rubinštejn, impegnata in una lunga sequenza di danza20, che lascia supporre che la regia del film fosse stata orchestrata proprio in ragione della sua partecipazione attoriale.

All’individuazione di un primo corpus di film sulla base dei titoli e delle trame, è seguita una verifica della loro reperibilità, particolarmente difficoltosa nel caso di una produzione, quale è quella del cinema muto, resa molto lacunosa dalla deperibilità dei supporti (principalmente in nitrato).

16 Aldo Bernardini, Vittorio Martinelli, Il cinema muto italiano. 1905-1931, 21 volumi editi per la collana

"Biblioteca di Bianco e Nero" da Nuova ERI/Edizioni RAI-Centro Sperimentale di Cinematografia, tra il 1981 e il 1996.

17 Alludo ai database online, sia pubblici che intranet di alcune delle maggiori cineteche italiane e della Eye

Library di Amsterdam.

18

Come Aldo Bernardini, Cinema Muto Italiano: i film dal vero, 1895-1914 (La Cineteca del Friuli, 2002) e Id., Cinema delle origini in Italia: i film "dal vero" di produzione estera, 1895-1907 (La Cineteca del Friuli, 2008).

19 L’Italia usciva sconfitta dalla prima guerra mondiale e nel 1921 il fallimento della Banca Italiana di Sconto

comporta il ritiro del capitale finanziario dall’industria cinematografica, determinandone così il crollo definitivo. Cfr. Gian Piero Brunetta, Il cinema muto italiano, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 273-291.

(12)

10

La compilazione di un database di film che desse conto di questa indagine ha agevolato il successivo lavoro di studio, approdato infine all’analisi – filmica e coreografica insieme21 – di singole sequenze di danza: essa mi ha consentito di riconoscere linee guida e caratteristiche frequenti nella produzione coreutico-cinematografica italiana del periodo preso in esame. È infatti emerso il ricorrere di alcune categorie di danza in seno al cinema muto italiano: ballo folclorico, danze di società, danza classica e modernismo coreutico sono le tipologie individuate, sulla base delle quali si articola il presente lavoro; all’interno di ciascuna di esse vi sono poi delle sotto-categorie. Per ognuna ho analizzato uno o più titoli esemplificativi, in modo da metterne in evidenza la dialettica tra tecnica coreica e cinematografica ed enucleare il ricorrere di certi cliché e l’emergere di istanze artistiche. Per l’analisi coreutica nello specifico, è stata di indispensabile supporto la consultazione dei manuali dei principali metodi di danza classica tuttora in uso (Cecchetti, Vaganova e Kirstein, per un’ottima sintesi dei primi due), unitamente a letture specifiche per il ballo da sala, il tango in particolare, e la tarantella, che hanno reso possibile il riconoscimento delle linee coreutiche a fronte di una visione analitica dei film: «by turning it less quickly, we cause it to represent the movements much more slowly, so that the eye can ascertain with the greatest facility these actions, the succession of which cannot be apprehended in ordinary walking»22.

A un primo colpo d’occhio, ciò che risulta evidente, nel catalogo di film individuati, è la suddivisione fra due specie cinematografiche23: quella dei “dal vero” e quella dei film di finzione, per cui apparentemente ciò che nei primi costituisce in sé un’attrazione cinematografica nel senso che abbiamo charito24

, nei secondi, pur mantenendo una forte componente “attrazionale”, viene integrato nella narrazione, dissimulando così la linea di confine tra spettacolo teatrale (la danza) e cinematografico. Nel corso del presente lavoro si è dunque determinato sua sponte un percorso pressoché continuo dal minore al maggior quoziente di fiction.

Nella categoria dei “dal vero” ritengo che debba essere annoverata anche la

Serpentina, in quanto “veduta” dello “spettacolo del movimento” che la skirt dance ideata

21 Come si vedrà, non ho proceduto in modo uniforme all’analisi delle sequenze e scene di danza incontrate,

poiché ciascuna di esse costituisce un caso a sé, sia per il modo in cui si rapporta alla danza, sia per la maniera di interagire con il tessuto filmico in cui è inserita.

22 Etienne-Jules Marey, Animal Mechanism: a treatise on terrestrial and aerial locomotion, Londres, Henry

S. King and Co, 1874, p. 137.

23 Cfr. Rick Altman, Film/genere, Milano, Vita e Pensiero, 2004, passim [1ª ed.: The British Film Institute,

1999].

(13)

11 dalla Fuller metteva in scena. Essa costituisce però un caso border line: se per quanto concerne la produzione estera (ve ne sono almeno due esempi realizzati in Italia25) rientra a pieno titolo nei “dal vero” – in quanto teatro filmato e messo in scena in virtù della presenza della macchina da presa – la sua esistenza nell’ambito della produzione italiana si afferma invece in forma diegetizzata e d’altro canto fu pure protagonista delle riflessioni dell’avanguardia italiana artistica e letteraria degli anni Dieci: da Mallarmé ai futuristi, è ampio il ventaglio di forme – per lo più narrativizzate – che di volta in volta assume la danza d’avanguardia, nelle quali si rintraccia l’eredità fulleriana, pur metabolizzata, trasformata, “rieditata”.

Nell’alveo della produzione nazionale di finzione, particolarmente massiccia risulta la presenza di scene – più che intere sequenze – in cui la danza, nelle forme del “ballo di società” o “ballo da sala”, finanche in costume (si pensi a un film come Romeo e Giulietta di Ugo Falena, 1912, o Carnevalesca di Amleto Palermi, 1918), fa la sua parte in termini di “color locale”, responsabile della restituzione di un’atmosfera, di un’epoca o di uno spirito di classe (quello della buona borghesia italiana del primo Novecento), anziché essere obiettivo privilegiato dell’attenzione della macchina da presa e del pubblico. Caso a parte in questa macro categoria coreutica rappresenta il tango, che vedremo costituire una sottocategoria di ballo da sala di particolare rilievo, vera e propria “attrazione” all’interno dei vari titoli in cui interviene e che coinvolge la società italiana del tempo, ben al di là delle pareti della sala cinematografica. Particolarmente interessanti a questo proposito sono gli articoli di censura religiosa nei confronti del ballo argentino, pubblicati sulle pagine de «L’Unità Cattolica», quotidiano religioso che attraverso le sue firme restituisce oggi i contorni di un fenomeno – quello della “crociata” contro il tango – che fu breve (tra la fine del 1913 e il primo trimestre del 1914), ma intenso tanto da coinvolgere in un acceso dibattito la stampa coeva e da travolgere anche il cinema, che del tango era colpevole di proiettare un’immagine ingigantita e perciò stesso celebrativa.

Accanto al volteggiare nelle sale da ballo, troviamo le pirouette accademiche della danza teatrale, che trova la sua massima espressione nel Ballo Excelsior di Luigi Manzotti (coreografie) e Romualdo Marenco (musiche), ripreso da Luca Comerio (1913), che seppe tinteggiare anche il Gran Ballo di fine Ottocento col proprio tocco documentaristico.

Proprio quando nasce il cinematografo, prendono vita le istanze di rinnovamento del modernismo coreutico, ad opera di danzatrici come la stessa Fuller, Ruth Saint Denis

25

Danse serpentine (Frères Lumière, 1897) e Danse serpentine (Frères Lumière, 1899). Vd. infra, p. 116. Vd. anche le schede relative ai film, nell’indice dei film a contenuto coreutico in appendice.

(14)

12

ed Isadora Duncan. La loro “danza nuova” avrà come vedremo importanti ripercussioni anche sul cinema italiano, in contiguità con le ricerche delle avanguardie artistiche italiane o virando a est, verso quell’imprecisato Oriente, tanto in voga nell’Occidente primo-novecentesco.

Conclude il presente lavoro un’appendice composta dal catalogo dei titoli censiti e un corpus di trascrizioni di alcuni dei documenti incontrati durante il percorso di ricerca, che ritengo costituiscano motivo d’interesse tale da meritare una lettura integrale a margine, per poterne saggiare la rilevanza. Alla luce di quanto detto, si sottolinea che, nel corso della presente dissertazione, volutamente non verrà fatta menzione delle trame dei film, per le quali si rimanda fin d’ora alla consultazione dell’indice dei film in appendice al presente testo.

(15)

13

I

La danza folclorica italiana nei “dal vero”

La danza folclorica costituisce una delle prime forme di espressione coreutica per l’essere umano: spesso legata a credenze religiose arcaiche, altrove espressione “semi-drammatizzata” del corteggiamento amoroso o altri semplici nuclei narrativi, è una sorta di “grado zero” della danza, la prima forma di “ballo di società” se consideriamo il contesto popolare in cui ha luogo e si sviluppa, generalmente eseguita durante feste o riti popolari. Per quanto riguarda l’ambito italiano, ne troviamo traccia soprattutto nei “dal vero”, le vedute unipuntuali26 del primo cinema, per lo più in quelli di produzione estera: ho ritenuto opportuno prendere in considerazione ed analizzare per il presente lavoro anche questi ultimi, poiché si tratta di un tipo di danza intrinsecamente connessa al contesto culturale-geografico in cui si svolge, quello italiano nella fattispecie.

Caso sui generis tra i “dal vero” girati in Italia costituisce Bal d’enfants (Frères Lumière, 1896?)27, danza ripresa presso l’istituto Monty-Alby di Torino28, protagoniste otto bambine che «danzano a coppie, muovendosi in cerchio davanti alla mdp come in una polca, fermandosi periodicamente per battere le mani ed eseguire piroette e riverenze»29. Qui è forse la polca – in ogni caso un ballo folcloristico ma non di origine italiana – la danza eseguita dalle piccole ballerine. Evidentemente, lungi dall’interesse etnografico riscontrato come vedremo per le varie versioni regionali della tarantella, qui è l’isituto per l’infanzia – nonché set del film – il vero oggetto dell’interesse documentario della ripresa.

Posta questa eccezione, le vedute di danze giunte fino a noi riguardano in particolare la tarantella, la celebre danza popolare campana. Il cinematografo infatti, alla fine dell’Ottocento, si aggiunge alla congerie di immagini che andavano diffondendo nel mondo lo stereotipo senza tempo della Napoli «dei vicoli brulicanti, delle pizze, degli eterni panni stesi»30. Proprio la tarantella è una costante dell’iconografia “promozionale” della città e dei territori limitrofi, cliché ricorrente sia negli album fotografici destinati ai turisti, che nella pittura, nelle incisioni coeve, ecc. La riconoscibilità del tema ne fece

26 Realizzate in un'unica inquadratura, che consta di un solo piano e di un solo quadro. 27

A. Bernardini, Cinema delle origini in Italia, i film “dal vero” di produzione estera 1895-1907, cit, pp. 22-23.

28 Secondo diversa ipotesi – giustamente messa in dubbio da Bernardini – potrebbe invece trattarsi di un

istituto di Royan. Cfr. Ivi, p. 23.

29 Ibidem. 30

Pasquale Iaccio, Il documentario tra mito stereotipi e realtà, in Id., a cura di, L’alba del cinema in

(16)

14

dunque un soggetto adatto ai “dal vero” ripresi dai primi operatori cinematografici. Tanti sono gli esempi, che è possibile dedurne alcune costanti, come la frequente ambientazione sorrentina31, i costumi tradizionali indossati dalle coppie che danzano, lo spazio – un cortile – in cui si svolge la danza, il tamburello, la disposizione circolare delle coppie che danzano.

Alla tarantella sono dedicati due “dal vero” di produzione italiana: Tarantella32

e

Tarantella sorrentina33, più altri cinque intitolati alla furlana, variante friulana della tarantella34.

La stessa natura documentaristica caratterizza inoltre alcuni film di produzione estera realizzati in Italia, il cui soggetto sono ancora le danze folcloriche, nella maggior parte dei casi di nuovo la tarantella, che in Neapolitan Dance at the Ancient Forum of

Pompeii (1898) e The Tarantella, an Italian Dance (1898) presenta lo stesso schema, con

variazioni minime35: un ristretto gruppo di uomini e donne in costume tradizionale esegue la tarantella a coppie a beneficio dell’obiettivo: l’inquadratura è fissa e frontale, le riprese avvengono in esterni, nel «cortile di un edificio più o meno antico»36.

Tra i “dal vero” di produzione estera realizzati in Italia, accanto al filone coreutico napoletano si pone quello laziale, testimoniato dai titoli Danse des Ciocciari37 e Danse

Saltarello Romano38, dove alcune coppie danzano in costumi tradizionali molto simili a quelli tipici della tarantella. Inoltre, oggetto ricorrente che caratterizza il ballo folclorico sia nel caso della tarantella che in quello del saltarello, è la presenza del tamburello quale strumento musicale in campo, responsabile di una musica che non sentiremo mai, ma suggerita dal ritmo che scandisce i passi sullo schermo:

Elemento timbrico fondamentale è la presenza del “tamburello con sonagli” (propriamente “cimbalini” sulla circonferenza di legno: due piattini metallici

31 Cfr. La tarentelle à Sorrento n. 1 et 2, Gaumont 1897; Danse tarentelle à Sorrento, Frère Lumière 1898;

Tarantella sorrentina, Fratelli Troncone 1907.

32

Tarantella, Ambrosio e C., Torino, 1906, lunghezza originale: 43 m, film n° 28 della lista Vitrotti. Cfr. A. Bernardini, Cinema muto italiano. I film "dal vero" 1895-1914, cit., p. 80.

33 Tarantella sorrentina, produzione: Fratelli Troncone, Napoli, 1907, per la regia di Roberto Troncone.

Lunghezza orgininale: 90 m. Cfr. Ivi, p. 91.

34 Vd. infra, le seguenti voci dell’indice dei film a carattere coreutico, in appendice: nn. 195 e 206-209. 35 Vd. infra, pp. 19-23.

36 P. Iaccio, Il documentario tra mito stereotipi e realtà, cit., p. 59. Anche le rovine pompeiane in cui si

colloca Neapolitan Dance at the Ancient Forum of Pompeii – interpretate da Iaccio come «un strada romana attraversata da un arco di mattoni» (Ivi, p. 60), presentano una fisionomia analoga e dunque identificabile anche come quella di un cortile esterno o comunque non in contrapposizione con le caratteristiche delle

location riscontrate negli altri film del filone.

37 Danse des Ciocciari, Frères Lumière, 1897, Cfr. A. Bernardini, Cinema delle origini in Italia, i film “dal

vero” di produzione estera 1895-1907, cit., p. 40. Il film fu girato a Roma in piazza di Spagna.

(17)

15 che suonano battendo l’uno contro l’altro), la cui arcaica pratica fa ascrivere la

tarantella nella tipologia delle danze “estatiche”, confinante con quella delle

“danze di possessione”. […] questo strumento […] già nella forma arcaica di “tarantella terapeutica” era accompagnato dalle caratteristiche “castagnette” o “castagnóle” pugliesi (differenti nella forma e nel modo di suonarle, dalle “nacchere” spagnole: sono più affusolate e si suonano facendole battere sopra la mano o dentro la mano […] infatti non sono legate al pollice e martellate dalle dita all’interno della mano come appunto le “nácaras, o meglio “palillos”). L’elemento ritmico “periodico-oscillatorio” corrispondeva al ritmo coreutico binario, sempre uguale a se stesso, generante “estasi” o “possessione”; i passi descrivevano un percorso ellittico o circolare con un centro, o punto di riferimento fisso, immutabile39.

Altro elemento di prossimità tra le due tipologie di danza tradizionale è la diposizione coreografica delle coppie protagoniste della danza, per lo più circolare, seppur con alcune varianti.

La condivisione di così tanti elementi tra le due tipologie coreutiche trova facile spiegazione nell’equivalenza delle due danze: tarantella infatti significa letteralmente

“piccola taranta” […], ovvero, scientificamente, “piccola Lycosa Tarentula”:

specie di ragno diffuso sulla costa ionica, ma anche in Dalmazia, in Marocco, in Spagna, del genere “Lycosa”, appartenente alla famiglia “Lycosidae”. Dal significato letterale si passi al significato referenziale di “danza della piccola

taranta”, ovvero il fenomeno coreutico introdotto dal morso di questo ragno,

secondo credenza e tradizione etnica delle terre di Puglia e limitrofe, fenomeno conosciuto etnologicamente, ed artisticamente, come tarantismo. La radice più arcaica riconducibile alla parola tarantella è la stessa della città di Taranto, città fondata nell’VIII secolo a.C. dal greco Tάρɑσ [sic ma Tάρɑς], e poi dal latino Tarentum.

Nella sua forma più arcaica, cioè quella choreo-terapeutica, non può lessicalmente essere confusa; nelle sue posteriori espressioni coreutico-musicali, sia folcloriche, sia «intermedie», ma non in quelle «culte» (tranne qualche rarissima eccezione), ha semioticamente un «settore comune» con l’area di significato appartenente al saltarello, secondo l’uso che se ne fa specialmente nell’area geografica che va dall’Abruzzo e Molise in giù, fino alle terre del Sud e della Sicilia: tanto è vero che a partire dal secolo XVIII compare la definizione “saltartell-a”40.

39 Marcello Cofini, Tarantella in musica o sia ex tarantula vulgarium musica et choreae. Per una storia della

tarantella dalle fonti musicali e non solo… anche un contributo di Daniel Brandenburg su un’inedita descrizione di tarantella, Salerno, edizioni Setticlavio, 2001, p. 15

40

Ivi, p. 11. Cfr. anche Curt Sachs, Storia della danza, Milano, Il Saggiatore, 1966 [1a ed.: Dietrich Reimer (Ernst Vohsen) A.G., Berlin, 1933], pp. 287-289.

(18)

16

Il saltarello in altre parole sarebbe la tarantella41:

danza strumentale o vocale-strumentale propria delle tradizioni popolari dell’Italia Centro-meridionale ed Insulare; la sua pratica terapeutica, così come ancor oggi si tramanda nel Salento (una delle terre di Puglia) ed anche altrove, la fa ascrivere fra le “danze di possessione”, o, a volte, per alcune componenti rituali religiose, fra le danze “estatiche”. L’andamento è vario e spazia dall’“andante” al “prestissimo”, dal “cantabile pastorale” al “precipitato” virtuosistico. L’esecuzione coreutica può prevedere un solo danzatore/trice, od una coppia (uomo/donna) (uomo-uomo) (donna-donna), od un gruppo diviso in coppie miste o addirittura in coppie di soli uomini, più raramente coppie di sole donne. Una fondamentale caratteristica, che la inserisce nelle danze mediterranee, ovvero nella loro tipologia coreutico-musicale, è la convivente indipendenza fra struttura musicale e struttura coreografi[c]a: esse infatti procedono nella tarantella indipendenti l’una dall’altra, pur conservando, gli stessi accenti ritmici “forti”42

.

Quanto all’aspetto musicale, fu il gesuita Athanasius Kircher nell’opera Magnes

sive de arte magnetica libri tres (Roma, 1641) e nella successiva Phonurgia Nova sive Conjugium Mechanico-physicum Artis & Naturae Paranympha Phonosophia (1673) a

fornire alcuni fondamentali dati sulla tarantola-danza: «il ritmo musicale è binario doppio, ovvero “C” [4/4], e la suddivisione melodica per ogni unità di misura è binaria nei primi tre Modi [cioè scale musicali della] Tarantella, cosicché una moderna trascrizione ritmica potrebbe prevedere il 4/4 (ovvero 2/4 + 2/4)»43.

Prima di addentrarci nell’analisi più strettamente cinetica e coreutica della danza, saranno necessarie alcune precisazioni:

una cosa fu la danza terapeutica divenuta famosa in quella regione d’Italia (la Puglia), danza a solo, di carattere magico; tutt’altra cosa fu la danza a coppia che si balla nell’Italia meridionale e insulare, con differenti fini e modi, con particolarità proprie da regione a regione… donde una tarantella pugliese, una napoletana, una sorrentina ecc. […] le voci italiane tarantella e tarantola, entrambe dialettali, entrambe diminutivi, derivano da taranta, nome di una

41 Il nome cambia a seconda della collocazione geografica (“saltarello” sarebbe dunque circoscritto

all’ambito romano-laziale), ma la danza nella sostanza coreutica è la stessa. Il saltarello è attestato anche in due film di finzione del muto italiano: Sogno di un fumatore (Cines, 1909), dove un domestico vede in sogno «un campo dove delle belle contadine stanno ballando il saltarello» e Capriccio fatale! (Latium Film, 1912), in cui «una "mondaine" in villeggiatura in un paesetto della ciociaria, si imbatte in un gruppo di giovani che ballano il saltarello», Cfr. A. Bernardini (con la collaborazione di Vittorio Martinelli), Il Cinema Muto

Italiano - I film dei primi anni. 1905-1909, Roma, Centro Sperimentale di Cinematografia, 1996, p. 403 e

Aldo Bernardini, Vittorio Martinelli, Il cinema muto italiano - I film degli anni d'oro 1912 prima parte, numero monografico di «Bianco e Nero», a. LV, n. 1-2, 1994, Roma, Nuova ERI/Edizioni RAI-Centro Sperimentale di Cinematografia, 1995, pp. 86-88.

42

Cit. in. M. Cofini, Tarantella in musica, cit., p. 12.

(19)

17 varietà di ragno dal morso ritenuto velenoso […] [sebbene] questo nome, a sua volta, derivi da Taranto44.

Secondo una credenza popolare diffusa nel Centro-Sud dell’Italia, la tarantella o saltarello che dir si voglia, sarebbe dunque una conseguenza del morso del ragno velenoso, danza «“estatica o di possessione, solistica, di coppia, corale, cantata e suonata o solamente suonata, con effetti di “trance” (terapeutico, od orgiastico) [oppur]e con espressioni di corteggiamento (uomo-donna), o con espressioni di sfida (uomo-uomo), che non escludono movenze o atti a significare dominanza o sottomissione omosessuale”»45

.

«La prima dizione musicale Tarantella compare […] in Nova scelta di sonate per

chitarra spagnola composte da Foriano Pico, stampata a Napoli nel 1608»46 anche se «dalle tradizioni orali ci provengono le due antiche melodie, ancor oggi cantate con accompagnamento strumentale, Canto delle lavandaje del Vomero e Cicerenella, le cui origini si fanno risalire, sempre per tradizione orale, rispettivamente al XIII e XVI secolo. Esse costituiscono ancor oggi due fra i modelli esemplari ed agenti di “tarantella”»47, attestando dunque un’origine quanto meno musicalmente precedente.

Marcello Cofini, esperto etnomusicologo, nelle sue ricerche sul celebre ballo napoletano enuclea i caratteri salienti della tarantella-danza:

il ritmo fondamentale della tarantella è binario semplice: ossia in 2 tempi. I due tempi che formano la misura musicale corrispondono ai due tempi coreutici del passo fondamentale della tarantella, un piede a terra nel primo tempo (forte), l’altro piede sollevato puntando leggermente in avanti, od in avanti leggermente verso la dirittura del piede a terra nel secondo tempo (debole): si potrebbe definire come “pas (sou)levé”. Contemporaneamente si sollevano, quasi tesi, prima un braccio e poi l’altro, o semplicemente si articolano a varie altezze, in modo opposito [sic] al piede che si solleva: cioè, se si alza da terra il piede destro va sollevato il braccio sinistro, e viceversa. Il movimento del braccio, che può essere accompagnato dallo schiocco delle “castagnóle” avviene in una misura musicale, oppure in un solo tempo. [Questo elemento coreutico si riscontra già nel mosaico pompeiano chiamato Musicisti

ambulanti (opera di Dioscuride di Samo - I sec. a. C.).] misura musicale e

figure coreutiche convivono indipendenti, così come semi-frase e frase

44 Cfr. Paolo Toschi, A question about the Tarantella, in «Journal of the International Folk Music Council»,

vol. II, London, 1950 pp. 19 e sgg.; Carmelina Naselli, L’Etimologia di «Tarantella», Estratto dell’Archivio storico pugliese, a. IV, Bari, 1951, fasc. III-IV, pp. 218-227; C. Naselli, Studi di folklore: drammatica

popolare, culto degli alberi, “Tarantella”, “Empanadilla”, Catania, G. Crisafulli, 1953, citt. in Renato

Penna, La tarantella napoletana, Napoli, Rivista di etnografia, 1963, pp. 5-7.

45 M. Cofini, Tarantella in musica, cit., p. 16. 46

Ivi, p. 26.

(20)

18

musicale e serie di figure coreutiche. Eccezion fanno ovviamente le coreografie “folcloristiche” o “de caractère” di Ballo e Balletto teatrali48

.

L’analisi coreografica condotta sui già citati Neapolitan Dance at the Ancient

Forum of Pompeii e The Tarantella, an Italian Dance, due film di produzione inglese

(Mutoscope and Biograph Syndicate, Londra) realizzati nel 1898, con la regia e la fotografia di William Kennedy-Laurie Dickson ed Emile Lauste, ha confermato come vedremo la dinamica dei passi e del ritmo descritta da Cofini. Si accennava poco sopra al fatto che la danza popolare nel cinema delle origini trova luogo d’elezione nei “dal vero” – ovvero l’uso documentaristico del nuovo mezzo – il primo tipo di cinema ad essere realizzato, che giunge in Italia nel 1896 con gli operatori del Cinématographe Lumière, macchina atta sia alle riprese che alla stampa delle copie e alla proiezione dei film. Sono pertanto questi uomini venuti d’oltralpe a portare la novità delle immagini in movimento e i primi a girare dei film nelle località italiane, presto in concorrenza con altri operatori stranieri, come quelli dell’americano Edison49

.

Tra gli operatori-realizzatori di cui è stata accertata l’attività in Italia prima del ‘900 […] effettuano riprese particolarmente interessanti gli inviati di una importante nuova compagnia anglo-americana, nata per sfruttare apparecchi di ripresa e di proiezione, il Mustoscope e il Biograph, che utilizzano pellicola di grande formato (larga circa 60 mm) e che effettuano proiezioni di particolare qualità. È per conto della sezione inglese dell’American Biograph, il Mutoscope and Biograph Syndicate, che lo stesso fondatore e direttore della casa, Dickson – ex assistente di Edison – giunge in Italia nel 1898 per effettuare riprese di famosi luoghi turistici50 […].

L’apparecchio utilizzato si rivela di particolare efficienza, caratterizzato da «la nitidezza degli obbiettivi usati (spesso con effetti di grandangolo)»51.

Solo intorno al 1905, l’Italia, in ritardo di un decennio rispetto a Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, si doterà di una rete di sale stabili e si aprirà di conseguenza alla produzione di film in proprio, ponendo le basi per un’industria cinematografica nazionale.

Proprio nel repertorio Mutoscope and Biograph Syndicate si collocano le due tarantelle orora menzionate, di cui si propone qui di seguito un’analisi coreica approfondita, evidenziandone le modalità di ripresa.

48 Ivi, p. 14.

49 Cfr. A. Bernardini, Cinema delle origini in Italia, i film “dal vero” di produzione estera 1895-1907, cit.,

pp. 7 e ss.

50

Ivi, p. 13.

(21)

19 Nel film Neapolitan Dance at the Ancient Forum of Pompeii52 sette donne e due uomini ballano una tarantella di fronte all’obiettivo di una macchina da presa che li immortala in campo medio con grande profondità di campo. L’angolazione di ripresa è decentrata a destra: una scelta che traccia una diagonale invisibile dall’angolo in basso sinistra a quello in alto a destra del quadro, segnata dalla linea delle arcate delle rovine arcaiche visibili in profondità l’una dietro all’altra, con un suggestivo effetto di mise en

abîme (Fig. 3). Nonostante questo punto di vista spostato a destra, i danzatori tradiscono la

consapevolezza del mezzo di ripresa, poiché durante tutta la danza cercano palesemente di mantenere una posizione (della danza in misura collettiva, ma anche del proprio corpo danzante) “a favore” dell’obiettivo, il busto sempre leggermente ouvert verso il pubblico in sala e non mancano alcuni sguardi in macchina. Questi ultimi non solo ad opera dei danzatori, ma anche dei soldati in marcia che interrompono le danze per pochi secondi53.

I danzatori indossano costumi folcloristici: gonna lunga, grembiule, camicia, foulard sulle spalle e scarpe col tacco per le donne; pantaloni lunghi, stivali, gilet, camicia, foulard al collo (per uno dei due cavalieri) e una fedora in testa per gli uomini.

Lo spazio entro cui si articola la danza è grossomodo circolare, ma al suo interno i vari elementi del “corpo di ballo” intrecciano figure poliedriche, scambiandosi il posto alternativamente. Oltre al tamburello – suonato da una delle donne – e alle consuete castagnole – che altre quattro donne fanno vibrare – tra gli oggetti di scena compaiono anche dei fazzoletti, agitati in aria da parte di due uomini e due donne. Nonostante l’apparente confusione coreografica, è riconoscibile un andamento per cui i vari personaggi compiono semplici scambi di posto saltellando ritmicamente e agitando l’oggetto loro assegnato. A ben guardare dunque la disposizione in cerchio è piuttosto simile a un quadrato, al cui centro si avvicendano di volta in volta i vari danzatori, mentre quelli ai lati, del quadrilatero e del frame, si scambiano il posto saltellando. Secondo questa ipotesi di lettura dunque le linee di svolgimento della danza altro non farebbero che replicare l’architettura sullo sfondo e circostante la danza, nella quale il muro a sinistra, l’arcata sullo sfondo e le colonne a destra descriverebbero un quadrilatero54, sottolineato dalla presenza della suonatrice di tamburello sul fianco destro del frame e del pubblico in campo

52

Neapolitan Dance at the Ancient Forum of Pompeii (1898, regia e fotografia di William Kennedy-Laurie Dickson ed Emile Lauste; produzione Mutoscope and Biograph Syndacate, Londra. B/N). Cfr. A. Bernardini,

Cinema delle origini in Italia, i film “dal vero” di produzione estera 1895-1907, cit., pp. 67-68. Titolo n° 10

del DVD allegato al volume.

53 Ce n’è persino uno che saluta in direzione dell’obiettivo, brandendo un foglio. 54

Dove il quarto lato invisibile è ovviamente la “quarta parete” che in questo caso corrisponde all’obiettivo della mdp.

(22)

20

sugli altri due lati visibili. Quest’ultimo, doppio speculare di quello in sala, sottolinea la natura di finzione e “attrazione” della scena sullo schermo.

La danza del film conferma la dinamica dei passi enucleata da Cofini, caratterizzata da “pas (sou)levé” e movimento delle braccia in opposizione rispetto a quello delle gambe, agitando le castagnole o il fazzoletto; mentre la strumentista che suona il tamburello55 rimane a destra del quadro, come fosse anch’essa parte del colonnato marmoreo. Questo andamento si riproduce nella danza di tutti gli otto interpreti in scena, ma in quella maschile uno dei danzatori compie un passo che si fa notare in quanto nettamente diverso dagli altri: per due volte56, dapprima solo accennando il movimento in posizione arretrata rispetto agli altri interpreti, poi in modo più marcato al centro dello spazio coreutico, vediamo l’uomo accovacciarsi piegando le proprie ginocchia il più possibile. L’altro uomo tiene anch’egli in mano un fazzoletto, ma a differenza del collega non lo agita alternando il movimento delle braccia, bensì lo tiene ben teso tra le mani, mentre le braccia sono allungate in alto e anche i passi delle gambe appaiono più ampi e fluidi rispetto al saltellare isterico degli altri interpreti, rievocando a tratti – se pur molto da lontano – la dinamica di un elegante valzer da sala o di un più rapido quick step.

The Tarantella, an Italian Dance57 consta di un’unica inquadratura frontale e

ugualmente fissa, ma ripresa da una distanza più ravvicinata (figura intera) rispetto al film sopra preso in esame. I costumi tradizionali indossati dai danzatori sono analoghi a quelli visti nell’esempio precedente, ma i copricapo maschili differiscono (là a tesa larga, qui semplici cuffie che ricadono dietro la testa). Le interpreti femminili indossano gonne lunghe coperte da un grembiule chiaro, camicia scura con ampio bavero chiaro, una fusciacca in vita, i capelli raccolti in una morbida acconciatura e scarpe col tacco. Gli uomini vestono pantaloni aderenti lunghi fin sotto al ginocchio, che lasciano scoperte le calze chiare visibili tra questi e le pianelle ai piedi. Una fusciacca in vita, camicia chiara con gilet e foulard annodato al collo e una cuffia in testa, completano il “look” maschile tradizional-popolare (Fig. 4).

55

In questo caso il tamburello è singolarmente grande.

56 Tra i due piegamenti c’è un’ulteriore esitazione, che non è chiaro se sia un altro tentativo di riprodurre quel

medesimo movimento, qui tralasciata proprio perché di dubbia interpretazione.

57 The Tarantella, an Italian Dance (1898, regia e fotografia di William Kennedy-Laurie Dickson ed Emile

Lauste; produzione Mutoscope and Biograph Syndacate, Londra). Cfr. A. Bernardini, Cinema delle origini in

Italia, i film “dal vero” di produzione estera 1895-1907, cit., pp. 76-77. Titolo n° 19 del DVD allegato al

(23)

21 Tali costumi sono quelli che caratterizzano la tradizione sorrentina fin dal XVIII secolo:

i costumi dei danzatori della tarantella sorrentina sono quelli della fine del Settecento e dell’Ottocento, e assomigliano molto a quelli spagnuoli dello stesso periodo. Per l’uomo […] berretto di lana rossa cascante a destra, panciotto rosso sopra la camicia bianca, pantaloni rossi, o gialli o verdi, calze bianche lunghe e scarpe nere orlate in rosso e fiocco rosso, e alla vita una fascia di seta come cintura. Per la donna: il corsetto ornato di trine, scollacciato e senza maniche, di colore cremisi, senalino bianco di seta, gonna larga a pieghe con orli, frange e trine, piccolo grembiule bianco ricamato, calze traforate, orecchini a pendagli e file di perle al collo, scarpe nere con fiocchetto rosso58.

Quanto all’aspetto formale, qui la danza appare molto più ordinata, chiara emanazione di una vera e propria coreografia prestabilita: in questo senso il film si presenta più come una prova di teatro filmato ante litteram che come un documento folclorico, in maniera del tutto simile ai film sulla Serpentina dei quali ci occuperemo più avanti59.

Quattro elementi, di cui tre donne (che suonano rispettivamente un tamburello e due triccheballacche60) e un uomo (alla chitarra), compongono l’organico strumentale, regolarmente disposti sulla parete di fondo, con un busto marmoreo al centro a dividerli in due tronconi. Quattro coppie uomo-donna danzano al centro dell’inquadratura, disposte secondo una figura romboidale, di modo che ciascuna di esse sia visibile. Gli uomini suonano le castagnole, mentre le donne il tamburello. La coreografia è composta da alcuni semplici scambi di posizione uomo/donna all’interno di ciascuna coppia, ma ognuna di esse complessivamente mantiene la propria posizione nel quadro. L’incipit61 è un fugace momento in cui si vedono gli interpreti di ogni coppia l’uno di fronte all’altra, compiere alcuni piccoli salti sul posto scambiando i piedi e tenendo le braccia in alto. Segue poi l’esecuzione di una “posa”: il busto atteggiato in un marcato epaulement62

, cavalieri e

58 Bianca Maria Galanti, Dances of Italy, London, Max Parrish, 1950, p. 20 e sgg; p. 30 e sgg., cit. in R.

Penna, La tarantella napoletana, cit., p. 78.

59 Vd. infra, pp. 116 e sgg.

60 Triccheballacche: «Strumento musicale idiofono caratteristico della tradizione popolare napoletana […],

consistente in un telaio di legno nel quale scorrono due martelli anch’essi di legno, che il suonatore fa battere contro un terzo martello centrale e fissato al telaio: sulle facce esterne dei martelli sono inoltre fissati alcuni dischetti di latta che tintinnano a ogni colpo». Cfr. la versione online dell’Enciclopedia Treccani, alla voce “triccheballacche” (http://www.treccani.it/enciclopedia/triccheballacche/).

61 Il filmato inizia e finisce in medias res, cogliendo la danza nel bel mezzo del suo farsi; per incipit s’intende

qui la prima figurazione coreografica riconoscibile.

62

«Termine introdotto nel vocabolario tecnico alla fine del XVIII sec. […] Tecnicamente si esegue arretrando una spalla in modo da assumere con il busto una posizione obliqua.», Horst Koegler, Dizionario

(24)

22

dame si danno le spalle e si guardano volgendo indietro il collo e congelandosi per una frazione di secondo in quell’atteggiamento, suonando il tamburello le donne, le castagnole gli uomini. La posa si ripete per quattro volte, alternando l’epaulement a destra e a sinistra. A questo punto le coppie cominciano a saltellare in circolo su un solo piede, girando sul posto – il cavaliere di fianco alla dama – muovendosi ciascuno in direzione opposta al proprio partner di ballo, con una gamba sollevata in una sorta di attitude devant, en dedans. A differenza di quanto indicato da Cofini, qui il braccio alzato non sempre è in opposizione rispetto alla gamba sollevata: mai nel caso dei cavalieri, lo è due volte su tre nel caso delle donne, semplicemente perché tengono in alto solo il braccio destro, quello che sorregge il tamburello. Al contrario gli uomini alternano il sollevamento di gambe e braccia parallele (braccio destro – gamba destra; sinistro con sinistra). Questa forma di giro di coppia “saltellante” viene ripetuta per tre volte, quindi il filmato si conclude all’improvviso.

La danza del film sembra descritta alla lettera dalle didascalie a corredo delle celebri illustrazioni di Gatti e Dura, la cui prima edizione della raccolta di stampe dedicate a la Tarantella risale al 1834. Qui infatti la tavola n.2 (Fig. 5) è accompagnata da un breve commento: «le braccia stiino fisse in questo atteggiamento mentre i piedi saltando l’uno rimpiazzi l’altro. Si cangi l’atteggiamento delle braccia della testa e dei piedi dall’altro lato, e si facciano gli stessi movimenti di piedi. Si rinnovi la prima positura con i suoi movimenti di piedi». La descrizione risponde perfettamente all’incipit della danza. Ancora la tavola n.3 (Fig. 6) è accompagnata dalla didascalia: «in questa posizione si faccino, andando a destra, sette salti col piede sinistro tenendo sospeso il dritto. Si raddrizzi il corpo si cangi il movimento delle braccia si posi a terra il dritto alzando il sinistro, e si faccino altri sette salti ritornando al posto. Infine si raddrizzi di nuovo il corpo. Nella prima posizione si faccino altri sette salti, avvicinandosi»63. È evidente la similitudine64 con quanto riscontrato in The Tarantella, an Italian Dance, subito dopo l’alternanza di pose con marcato epaulement.

Compare in questo film uno strumento nuovo rispetto alla tarantella “di Pompei”, il triccheballacche. Si tratta di un retaggio della tradizione ottocentesca di questo ballo, che

Gremese della danza e del balletto [The Concise Oxford Dictionary of Ballet], edizione italiana a cura di

Alberto Testa, Roma, Gremese 2011, p. 182.

63 Album di Gatti e Dura, La tarantella, [Ia edizione: Napoli, 1834], Napoli, Società editrice napoletana,

1984?, tavv. 2-3.

64 In realtà i salti compiuti nel film sono in n° di sei, più un passo a terra per cambiare direzione e scambiare i

piedi (la serie è ripetuta per tre volte), ma ciò non inficia la sostanziale identicità delle due danze, quella descritta da Gatti e Dura e quella visibile nel film.

(25)

23 già «alla fine dell’Ottocento […] a Capri, come a Sorrento, si ballava […] soltanto per i forestieri e a scopo di lucro»65:

gli strumenti che di solito accompagnavano la tarantella nell’Ottocento erano ordinariamente la chitarra o un violino, il tamburello e le nacchere (castagnette). La chitarra o il violino, ad ogni modo, mancavano spesso, non così il tamburello e le nacchere. In luogo di questi strumenti, le orchestrine popolari adoperavano, invece, il «siscariello»66, lo «scetavajasse»67 ed il «puti-puti»68 e, spesso, accompagnavano l’aria di una cantilena popolare. A questi strumenti, inoltre, va aggiunto il «triccaballacco»69.

È evidente, tra le due tarantelle viste nei film qui presi in esame, una differenza strutturale per quanto concerne “coreografia” e passi. Sarà utile a questo proposito applicare alcune distinzioni, precisando quanto già in parte affermato a proposito delle varianti regionali della tarantella:

la tarantella napoletana è danzata a un ritmo e a una cadenza che si ripete. Il ritmo è impetuoso e gaio, in movimento di 3/8 o di 6/8 ed è accompagnato dal canto. Il ritmo è marcato dai colpi di tamburello, inizia lentamente e va, poi, progressivamente acquistando una velocità sempre maggiore; esso è caratterizzato dal secondo ottavo puntato e da improvvisi passaggi dal modo maggiore al modo minore, caratteristica questa che appartiene a molti canti popolari napoletani.

Tre soni i canti popolari più famosi che si cantavano nell’Ottocento sul motivo della tarantella: «Cicerenella», «Zi Catone» […] e «Lo Guarracino»70

.

La definizione di tarantella napoletana si confà fin qui a entrambe le versioni esaminate, ma ulteriori elementi svelano un discrimine imprescindibile: Renato Penna distingue infatti la tarantella di origine pugliese – finalizzata a curare le conseguenze del morso della tarantola, presunto velenoso, «che è danza a solo, per lo più ballata soltanto dalle donne, avente un carattere magico-religioso ed uno scopo terapeutico» – da quella napoletana, «ballata da una o più coppie, avente un carattere gioioso e brioso, un contenuto e significato di corteggiamento amoroso ed, in fine, un ritmo molto più vivace del

65 R. Penna, La tarantella napoletana, cit., p. 75.

66 «Il “Siscariello” è una specie di flauto semplicissimo, formato da una canna bucata, chiamato con voce

poco propria “siscariello” (fischietto)», Ivi, p. 59.

67

«Lo “Scetavajasse” è formato da una camera spaccata che fa da cassa di violino e da un’altra fatta a sega, che fa da archetto. Esso, tuttavia, alcune volte, porta dei sonagli» Ibidem.

68 «Il “puti-puti” è una pentola di terracotta, coperta da una pelle di tamburo con un buco in mezzo, una

bacchetta nel buco da starci stretta stretta. Si mette sotto l’ascella sinistra e, col braccio destro, si fa andare, su e giù, la bacchetta, con grazia e velocità», Ivi., pp. 59-60.

69

Ivi., p. 58. Vd. anche supra, nota n. 60.

(26)

24

precedente». Secondo Penna si tratta dunque di due tipi di danza distinti. Quanto all’origine della tarantella napoletana, «con l’introduzione a Napoli, nel Quattrocento, di balli spagnuoli e saraceni, la cultura […] napoletana assunse alcuni elementi estranei, […] così che nel secolo successivo divenne popolare un ballo di origine moresca, la “tubba catubba”, a cui a Napoli fu dato il nome di “ballo di sfessania”71 […] ballo, che aveva già in sé la maggior parte degli elementi coreografici e strumentali, che ritroveremo nella posteriore tarantella»72 (Fig. 7).

Per quanto riguarda la versione pugliese della tarantella, sappiamo inoltre che questa era legata fin dalla prima metà del Settecento al culto cattolico di San Paolo: un fenomeno contraddittorio,

nel quale coesistevano un S. Paolo protettore dei tarantati, al quale si implorava la grazia, un S. Paolo che inviava le tarante per punire qualche colpa, e un S. Paolo-taranta o una taranta-S. Paolo esorcizzabile con la musica, la danza e i colori; infine nel corso dei dialoghi, con una voce allucinatoria, appariva ora la taranta e ora S. Paolo, e ora alcunché che poteva essere l’una e l’altro. Insomma le cose si svolgevano come se due diversi simbolismi, quello di S. Paolo protagonista dell’episodio di Malta e quello della taranta che morde e rimorde, cercassero di fondersi in un nuovo equilibrio culturale senza riuscirvi73.

Sembrerebbe che la Chiesa cattolica avesse inteso far proprio un diffuso e difficilmente estirpabile fenomeno di religiosità popolare pagana, per potervi esercitare il proprio controllo. «La Chiesa Cristiana Cattolica ufficiale ha da sempre applicato la chiave di lettura demoniaco-esorcistica, o comunque di liturgia popolare non riconosciuta; ed infatti proprio nel Salento sono gli stessi tarantolati e familiari ad invocare la grazia di San Paolo»74.

71

Un altro archetipo della tarantella sarebbe costituito dal Ballo di Sfessania, descritto da Giambattista Del Tufo in Ritratto o Modello delle Grandezze, Delizie e Meraviglie della Nobilissima città di Napoli (manoscritto, 1588), cfr. M. Cofini, Tarantella in musica, cit., p. 22. I Balli di Sfessania, altrimenti detti

Ballo maltese, sono noti per le celebri incisioni di Jacques Callot (1622), che ritraggono alcune maschere

della Commedia dell’Arte impegnate in varie scene. Qui è in particolare quella di Fracischina, in mano il proverbiale tamburello, ad incarnare la tarantella, cfr. Ivi, p. 26. Ancora, è la maschera secentesca napoletana di Pulcinella, nella teatralità popolare “di strada”, a cantare e ballare la tarantella, cfr. Ivi, p. 27.

72 R. Penna, La tarantella napoletana, cit., p. 81.

73 Ernesto De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano,

2009, p. 128. La ricerca di De Martino risale al 1959 e si concentra sul tarantismo nel Salento.

(27)

25 Già Kircher75 nel Seicento aveva riconosciuto che «la differenza di ritmo tra l’esempio musicale napoletano e gli esempi musicali pugliesi e siciliani era notevole. Infatti, mentre questi ultimi portavano il tempo di 4/4, l’esempio napoletano portava il tempo di 3/2, che è quello che, più o meno, ritroveremo nella posteriore tarantella (3/8, 6/8, 12/8)»76.

Secondo Penna la fusione tra le due varianti di danza popolare sarebbe avvenuta nel XVII secolo: «intorno al 1640 […] avvenne la comunanza del nome di tarantella per i due tipi distinti di danza, quello pugliese di carattere terapeutico e quello napoletano di carattere di corteggiamento amoroso, ballato, in occasione del “Carnevale delle donne”, anche a scopo terapeutico. E l’espressione napoletana di “La vera tarantella” altro non significa che per le donne napoletane la musica»77.

Dunque la differenza tra i due tipi di tarantella starebbe nello scopo (terapeutico in un caso, di corteggiamento nell’altro) e nel ritmo della musica (4/4 o un tempo ternario).

A proposito della tarantella nel secondo Ottocento, ballata a Napoli soprattutto la domenica e in occasione della festa di Piedigrotta e al ritorno della festa della Madonna dell’Arco78, G. Desrat (1895), ci informa che essa era conosciuta all’estero anche

semplicemente come “Napolitaine”:

danse du genre des tarantelles italiennes et propre aux Napolitains; on est en droit de s’étonner de trouver chez un peuple dont l’indolence est devenue proverbiale, une danse aussi vive et alerte. Les petits pas serrés appelés pas de bourré […] y abondent sur une mesure en 6/8 très precipitée. Hommes et femmes la dansent par couples avec force passages de droite à gauche, de gauche à droite; des lignes diagonales décrites dans un sens par le cavalier et dans l’autre par sa dame en se faisant face79

.

E ancora Liverani si addentra nello specifico della mimica e della dinamica dei passi, affermando:

75 Athanasius Kircher, Magnes sive de Arte magnetica libri tres, Roma, Typis Vitalis Mascardi, 1654 [1a ed.:

Colonia, 1643], pp. 870-880 e Id., Phonurgia Nova, Campidonae, 1673, p. 208.

76 R. Penna, La tarantella napoletana, cit., pp. 82-83. 77 Ivi., p. 83.

78 «Era antica tradizione, sia per I monarchi del Regno delle Due Sicilie, che per i nobili, che per gli artigiani

e per il popolo in Napoli, quella di festeggiare la Madonna del santuario a Piedigrotta, a pié di Posillipo: addì 8 settembre. E questo fino ai giorni nostri col nome di Festival di Piedigrotta: intendendo soprattutto un concorso di canzone napoletana appositamente create ogni anno. Ed in realtà in ogni album delle canzoni annuali di Piedigrotta è possibile scorgere almeno una tarantella, assieme alle forme, anch’esse a provenienza folclorica di barcarola e di siciliana», M. Cofini, Tarantella in musica, cit., p. 66.

79

G. Desrat, Dictionnaire de la danse, historique, théorique, pratique et bibliographique; depuis l'origine de

Riferimenti

Documenti correlati

sulla lingua: queste abbracciano sia lo studio «grammaticale», inteso come osservazione delle strutture della lingua nella concretezza e varietà degli usi e delle funzioni

In relazione alla comunicazione e alla diffusione dei dati, rispettivamente definite, come si ricorderà, dalla legge, il dare conoscenza dei dati personali a uno o più

Servizio di manutenzione degli edifici ad uso uffici, sedi museali, assistenziali e bagni pubblici.

Facendo riferimento agli antichi concetti dell’ātman (anima individuale) e del paramātman (anima universale) e ai rapporti rizomatici in un “futuro post-umanistico, in cui

In una ideale prosecuzione dei percorsi IeFP si collocano le filiere formative dell’Istruzione e formazione tecni- ca superiore (IFTS) e dell’Istruzione tecnica superiore (ITS),

La sezione di comprensione della lettura è costituita da 5 ‐ 7 testi di varia tipologia, di cui almeno uno narrativo (vedi par. 2.1). La lunghezza di ogni testo

In questo progetto, Clio ‘92, associazione di inse- gnanti e ricercatori sulla didattica della Storia, ha curato soprattutto gli aspetti di progettualità e metodologia della

LEGGI CON ATTENZIONE LA FILASTROCCA, SOTTOLINEA I NUMERI E RIORDINA GLI ANIMALI IN FILA INDIANA!. FILASTROCCA UN