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L'Universo femminile nella commedia del Cinquecento

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1

SOMMARIO

I.

M

ISOGINIA E FILOGINIA NELLE COMMEDIE DEL

XVI

SECOLO

I.1 L’immagine muliebre riflessa nello specchio della commedia---3

I.2 La commedia è donna---5

I.2.1 La Cassaria in versi: una commedia «imbellettata» ---9

I.3 La donna a teatro: vituperata e lodata

I.3.1 Un errore della natura---14

I.3.2 Una «femmina» bestiale, lussuriosa e mutabile---16

I.3.3 Le virtù muliebri in funzione dell’uomo---22

I.4 La voce delle donne

I.4.1 Una condizione subordinata---28

I.4.2 Figlie contro padri---30

I.4.3 Tentativi di ribellione---33

II.

I

L MATRIMONIO CORRETTIVO

II.1 Il lieto fine delle commedie e il rapporto con il modello classico---37

II.1.1 Una soluzione contro il caos della donna-commedia---39

II.2 La dote: un ostacolo al matrimonio---42

II. 3 Il dibattito sul matrimonio---52

II.3.1 L’inferno della vita coniugale---55

II.3.2 Le gioie del «prender moglie» ---62

II.3.3 Come scegliere una moglie ‘perfetta’---65

II.4 Due epiloghi innovativi

II.4.1 L’adulterio di Lucrezia---71

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III. Le nuove sfumature dei personaggi femminili---84

III.1 L’evoluzione della fanciulla---85

III.1.1 Una fanciulla invisibile---87

III.1.2 Una fanciulla intraprendente---97

III.2 La Malmaritata---110

III.2.1 Mogli sedotte---112

III.2.2 Spose disinibite---118

III. 3 La madre di famiglia---122

III.3.1 Due madri spregiudicate---123

III. 3.2 Due madri autorevoli---128

III.4. La cortigiana---133

III. 4.1 La meretrice da candela---134

III.4.2 La cortigiane onesta---140

III. 5 La mezzana---143

III. 6 La serva---149

IV. I motivi comici che rimodellano la figura muliebre---155

IV. I Il Travestimento---156

IV. 1.1 Travestimenti attivi e passivi delle fanciulle---157

IV.1.2 Beffe ai mariti fedifraghi---162

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3

I. MISOGINIA E FILOGINIA NELLE COMMEDIE DEL XVI SECOLO

I.1L’IMMAGINE MULIEBRE RIFLESSA NELLO SPECCHIO DELLA COMMEDIA

La commedia rinascimentale è il risultato di una complessa dialettica fra tradizione e innovazione poiché se da un lato trae ispirazione dai testi classici del teatro latino, dall’altro i commediografi del cinquecento rinnovano il modello plautino-terenziano, operando delle scelte in linea con il nuovo contesto storico sociale e con le mutate condizioni culturali delle corti aristocratiche.

La necessità di reinventare le formule tradizionali trova il suo fondamento in quella che Mario Baratto1 definisce «l’essenza più elementare della commedia» ovvero «la rappresentazione di un quotidiano, cioè di un aspetto frequente e comune della vita, colto attraverso vicende indicative di istinti e passioni tipici della natura umana». Perciò siamo davanti ad un genere letterario che intende portare sul palcoscenico la vita sociale e domestica del tempo, osservata con ironia e con impegno morale, come ha detto il grammatico Donato2 «comoedia est imitatio vitae, speculum consuetudinis, imago veritatis». Tale concetto viene ripreso e ampliato da uno dei più celebri commediografi moderni, Niccolò Machiavelli che, nel “Discorso o Dialogo intorno alla nostra lingua”3, mette in

luce anche l’utilità etica della commedia poiché riflette veridicamente la realtà mediante un linguaggio autentico:

«il fine di una commedia è proporre lo specchio d’una vita privata e nondimeno il suo modo del farlo è con certa urbanità e termini che muovino riso, acciò che gli uomini correndo a quella dilettazione gustino poi l’esemplo utile che vi è sotto».

Ma la metafora del teatro come specchio di vita si trova parafrasata soprattutto nei prologhi delle commedie stesse, in quanto articolata espressione della poetica dell’autore; infatti se nel prologo de “La Sporta” 4, Giovanbattista Gelli afferma che la commedia, essendo

«specchio di costumi della vita privata e civile […], non tratta d’altro che di cose che tutto

1 M. BARATTO, “La commedia del cinquecento: aspetti e problemi”, Vicenza, N. Pozzi, 1977, pp. 72-73. 2 Formula che il grammatico Donato nel suo commento a Terenzio aveva attribuito a Cicerone.

3 N. MACHIAVELLI, “Discorso o Dialogo intorno alla nostra lingua” ne “Il teatro e tutti gli scritti letterari”, Milano, Feltrinelli,1965, p.196.

4 G.B. GELLI, Delle opere di Giovan Battista Gelli, La Sporta commedia. Lo Errore, Milano, Della società tipografica de’classici italiani, 1807, pp. 6-9.

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4

il giorno accaggiono al viver nostro», ne “Il Marito”5 Lodovico Dolce, d’accordo con la

funzione morale espressa da Machiavelli, sostiene che «la scena si può dire un lucido

specchio: nel quale ciascuno puote discernere quello che in questa vita incerta e misera per

l’huom seguir si debba e, quel che fuggere». Più tardi la stessa definizione viene espressa nel prologo de “L’Interesse”6 dove Niccolò Secchi dichiara:

«la qual comedia, riguardandosi l’huomo quasi come in uno specchio, può, se è di brutto animo farsi bello: & e se è di bell’animo, farsi molto più bello, come soleva dir Socrate».

Per tanto gli autori, preoccupandosi d’innestare su schemi classici un nuovo scenario culturale, ambientano le trame nel contemporaneo mondo urbano e borghese, animato da personaggi modellati sui tradizionali tipi umani (giovani innamorati, vecchi avari, servi astuti, mariti sciocchi, matrone, parassiti e ruffiane,) che, facendosi portavoce di valori oppositivi verificabili anche nella realtà (prodigalità-avarizia, prudenza-temerarietà, audacia-pavidità), rappresentano modelli da imitare o evitare.

In seguito a tali considerazioni, possiamo individuare nella commedia cinquecentesca un punto di vista privilegiato per esaminare l’evoluzione o involuzione dell’immagine muliebre. Attraverso l’osservazione puntuale del modo in cui i personaggi femminili si muovono sulla scena e interagiscono con la società, possiamo valutare se in essi siano presenti tracce del nuovo canone rinascimentale oppure se rimangono fedeli agli stereotipi classici.

Ciò assume una notevole importanza se si tiene conto del fatto che, a partire dal XVI secolo, si registra una vera e propria «querelle des femmes» dove non soltanto i ruoli ma anche la stessa natura femminile vengono rimessi in discussione; tant’è vero che, affianco alla produzione misogina ben presente nella tradizione umanistica, si sviluppano numerosi trattati d’institutio volti alla formazione e all’educazione della donna, alcuni dei quali, elaborati dai medesimi commediografi. Inoltre non bisogna dimenticare come questo sia il secolo in cui la donna, per la prima volta, diventa soggetto attivo, partecipando alla vita culturale e cimentandosi principalmente come scrittrice.

A questo punto è utile indagare i diversi ruoli femminili, caratteristici sia della produzione teatrale che della società di questo periodo, classificabili in ‘normativi’, ossia fanciulla casta,

5 L. DOLCE, Comedie di M. Lodovico Dolce: cioè Il Ragazzo, Il Marito, Il Capitano, La Fabritia, Il Ruffiano, G. Giolito de’ Ferrari, 1560, pp. 3-4.

6 N. SECCHI, L’Interesse comedia del sig. Nicolò Secchi nuovamente posta in luce, Venezia, Fabio e Agostini fratelli, 1587, pp. 5-6.

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5

moglie casta, vedova nubile, e ‘trasgressivi’ ossia adultera, cortigiana e ruffiana; già da questa classificazione è evidente che le donne cinquecentesche sono categorizzate quasi esclusivamente in rapporto alla loro relazione con gli uomini. Perciò, in un primo momento, vorrei qui porre in rilievo i frammenti di testo in cui i commediografi, attraverso le voci dei vari personaggi, esplicitano i propri giudizi circa l’universo femminile.

I.2LA COMMEDIA È DONNA

L’impostazione classica delle commedie prevede la suddivisione in cinque atti preceduti da un prologo, inteso, secondo il modello terenziano, come luogo deputato a offrire indicazioni di poetica; infatti, secondo quanto già accennato, è questo lo spazio in cui gli autori forniscono informazioni circa le principali finalità del genere teatrale in questione: Machiavelli nel prologo della “Clizia”7 dichiara che le commedie «sono trovate per giovare

e per dilettare alli spettatori» mentre Benedetto Varchi, nel prologo de “La Suocera”8,

afferma che l’intento moralistico deve prevalere su tutto perché, in tal caso «non mancherebbe del suo diritto e principale fine, come farebbe se non insegnasse in quel modo che debbe i costumi buoni». Dunque diletto e giovamento sono gli obiettivi che i commediografi si propongono di raggiungere tramite la rappresentazione dei testi teatrali e costituiscono due aspetti che la commedia condivide con altri generi letterari, in particolare la novella e il manuale di comportamento.

Ma esiste un elemento distintivo che più di tutti contraddistingue la commedia e che nello stesso tempo la accomuna alla donna: il piano della finzione, non si crede alla donna così come non si crede al mondo della commedia. Tale comparazione può essere maggiormente compresa rileggendo la definizione donatiana della natura della commedia, alla luce dell’idea medievale che ritrae la donna come copia dell’uomo e quindi non vita vera ma sua

imitatio, non consuetudine ma speculum, mai verità ma solo imago della verità.

Tant’è vero che numerosi sono i prologhi in cui gli autori instaurano paragoni fra la donna e la commedia, primo fra tutti Anton Francesco Grazzini (detto il Lasca) che adopera le

7 N. MACHIAVELLI, Mandragola Clizia, Universale Economica Feltrinelli Classici, Milano, 2013, p. 185. 8 B. VARCHI, La Suocera commedia di Benedetto Varchi con annotazioni, Trieste, sezione letterario-artistica del Lloyd austriaco, 1858, p. 3.

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identiche parole sia nel prologo de “Il Frate”9 sia in quella che è, probabilmente, l’ultima

delle sue commedie, “L’Arzigogolo”10:

«Le commedie […] sono come gli statuti e i testimoni delle donne, senza autorità e senza fede».

Talvolta i commediografi attuano una completa identificazione fra le proprie opere teatrali e il gentil sesso, si veda per esempio, il prologo de “La Cecca”11 in cui la stessa commedia

viene definita da Girolamo Razzi come «una Fante che essendo brutta, mala roba, vestita di romagnuolo […] e nata di bassa gente» non può competere con quelle «nobilissime donne nate da chiarissimi padri» come M. Cassaria, M. Lena, Donna Cassandra e M. Sporta; bensì le basterebbe essere accettata come loro serva. Parallelamente ne “La Trappolaria”12 Giambattista della Porta esplicita apertamente l’analogia fra i due soggetti in questione:

«Essa (la commedia) è femina […] e avendo ella qui a dimostrarsi e far paragon delle sue bellezze, ha voluto prima pelarsi, forbirsi, imbellettarsi e consigliarsi co’l suo specchio mille volte».

Oltre alla totale fusione fra genere teatrale e sesso femminile, in entrambi i passi citati ho rilevato un motivo fondamentale che più di tutti appartiene alla dimensione della finzione: il belletto ovvero quell’insieme di ornamenti che le donne, tanto quanto le commedie, utilizzano per celare i propri difetti e apparire più belle; non a caso, sia nel prologo de” La

Cecca” che in quello de “La Trappolaria”, gli autori smascherano il lungo processo di

imbellettamento a cui le commedie, nelle vesti di donne, si sottopongono prima di apparire in scena. Quali siano questi artifici e perché vengono giudicati negativamente dalla maggior parte degli autori viene spiegato dal Lasca nel dialogo fra il Prologo e L’argomento de “La

Strega”13:

«Argomento: anzi dico che alle commedie poco belle e poco buone interviene, come a certe donne attempate e brutte, che quanto più si sforzano, vestendosi di seta e d’oro, e con ghirlande, e vezzi di perle, e ornandosi, lisciandosi, e stribbiandosi il

9 A. F. GRAZZINI, Opere, a cura di G. Davico Bonino, Torino, UTET, 1974, p. 10.

10 A. F. GRAZZINI, Commedie di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, a cura di P. Fanfani, Firenze, Le Monnier, 1859, p. 436.

11 G. RAZZI, La Cecca comedia di M. Girolamo Razzi, Venezia, Andrea Ravenoldo, 1565, pp. 3-4.

12 G. B. DELLA PORTA, Delle commedie di Giovanbattista della porta napoletano, tomo IV, Napoli, Stamperia e a spese di G. Muzio erede di Michele-Luigi, 1726, p.2.

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7 volto, di parer giovani e belle, tanto più si dimostrano agli occhi de’ risguardanti

vecchie e sozze.

Prologo: Non è dubbio che la ricchezza e la bellezza degl’intermedi […] offuscano e fanno parer povera e brutta la commedia».

Donne e commedie tentano una dissimulazione delle proprie imperfezioni servendosi di vestiti lussuosi, belletti, acconciature, scenografie e intermezzi ma entrambe, secondo i commediografi, non raggiungono i risultati attesi perché diventano rispettivamente povere e brutte, vecchie e sporche.

Per quanto riguarda il gentil sesso, Bibbiena nel prologo della “Calandria”14 descrive con toni più coloriti come coloro che si truccano «invechiano inanzi al tempo e diventano grinze e isdentate o vero co’ denti s’ sudici e lordi che sarebbe manco schifo a baciar loro». Anche Pietro Aretino ne “Il Marescalco”15 attribuisce al personaggio Ambrogio delle pesanti offese nei confronti delle donne e dei belletti:

«Ma che diciamo di quello inverniciarsi il volto con tanto belletto? Almeno fossero sì avvedute che lo distendessero ugualmente su le guance ché, ponendolo tutto in un luogo, simigliano maschere modanesi».

(Il Marescalco, Atto secondo, scena V)

Significativa è anche la battuta precedente in cui Ambrogio descrive l’aspetto delle donne al momento in cui si svegliano: «Pensando a i visi che elle hanno la mattina quando si levano non ti vo’ dire altro, i polli che mangiano ogni sporcheria, si farebbero schifi d’esse». Ciò sembra ricalcare l’invettiva misogina sviluppata nel “Corbaccio”16 dove Boccaccio

dimostra che la bellezza femminile è artificiata, frutto del trucco e opposta a quella naturale descrivendo, la bruttezza della vedova appena sveglia, prima che un pesante maquillage copra «il viso verde, giallo, maltinto d’un colore di fummo di pantano, grinza, crostuta e tutta cascante».

La polemica contro il belletto trova ampio spazio anche nei trattati cinquecenteschi ma qui tutta la controversia si basa, invece, sul rapporto fra interiorità ed esteriorità:

14 B. D. BIBBIENA, La Calandria, a cura di Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1978, p. 20.

15 P. ARETINO, “Teatro Comico, Cortigiana (1525 e 1534), Il Marescalco”, a cura di Luca D’Onghia, introduzione di Maria Cristina Cabani, Parma, Fondazione Pietro Bembo: Guanda, 2014.

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8 «Non si cerchi vaghezza ne l’habito de l’huomo esteriore, acciocchè non si maculi

l’interiore»17.

(De l’ufficio del marito)

La citazione è tratta da uno dei primi trattati dedicati alla famiglia nel quale, Juan Luis Vives, in relazione agli ammaestramenti delle donne, presenta i belletti come indizi di un animo disonesto che, uniti a parole e movenze, suscitano desideri e atti lussuriosi.

Al contrario, secondo l’autore, la donna deve curare gli ornamenti interiori: sincerità, umiltà, carità, verità, costanza, temperanza, castità, assommati nel segno visibile della modestia. Per tanto la bellezza esteriore non ha alcuna importanza dal momento che non rappresenta e persino corrompe quella che conta più di tutte, la bellezza interiore.

Lodovico Dolce nel “Dialogo delle institution delle donne”18 sostiene che «l’ornamento

donne non sono i panni fregiati, ma i costumi buoni» perciò anch’esso si scaglia contro l’utilizzo del trucco e raccomanda alla fanciulla onesta:

«Non contenta di buttarsi la faccia col belletto ma la mondi con l’acqua pura: non s’intinga i capelli ma gli tenga netti e purgati dalle immondicie: non si diletti di odori delicati ma sia intenta che non esca da lei cattivo odore […] Et se ella è bella; curi di non fare che habbia l’animo brutto: se ella è brutta, s’affatichi di ricompensar la bruttezza del corpo con la bellezza dell’animo».

Inoltre Dolce istituisce una connessione fra gli «impiastri» con cui le donne sono solite nascondere i difetti del viso e l’elemento teatrale della «mascara», tradizionalmente legato all’attore (suo doppio strumentale e simbolico) e alla sua ipocrisia, perché esso è il simulatore per eccellenza.

Successivamente Torquato Tasso ne “Il Padre di famiglia”19 rende esplicito il riferimento al

teatro nell’elogiare la naturalezza del rossore provocato dalla vergogna, contro l’artificio dei belletti, (descritti come «maschere o scene»), poiché «la soverchia pompa par cosa più conveniente ai teatri e alla scena ch’alla persona d’onesta matrona».

17 J. L. VIVES, De l’ufficio del marito, come si debba portare verso la moglie. De l’istitutione de la femina

christiana, vergine, maritata, o vedova. De lo ammaestrare i fanciulli ne le arti liberali, Venezia, appresso

Vincenzo Vaugris al segno d’Erasmo, 1546, pp. 103-107.

18 L. DOLCE, Dialogo della institution delle donne secondo li tre stati che cadono nella vita humana, Venezia, Giolito de Ferrari, 1545, pp. 30-31

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Tuttavia la commedia è donna anche nei suoi tratti positivi: quando il gentil sesso non è più considerato solo come depositario di tutti i difetti ma viene accostato all’immagine della Madonna, madre della sacra famiglia, viene onorato nelle sue qualità di vergine, moglie e madre; tant’è vero che alcuni autori, principalmente nelle dedicatorie che precedono il testo teatrale, esprimono il grado di consanguineità (figlia, madre, sorella) che hanno nei confronti della propria commedia, sotto il quale è implicito il concetto di parto artistico.

Pietro Aretino affida alla magnanima Argentina Rangona la sua «baldanzosetta figliuola» proponendole «d’insegnarle a non passare i termini d’onestà nel far commedia de la storia del Marescalco»20; invece Giovanni Maria Cecchi avverte il pubblico di non meravigliarsi se l’Ammalata21 non dovesse somigliare «alle sorelle (perciò che tutti voi sapete ch’il padre

di lei è il medesimo che già fece la Dote e la Moglie)» poiché, essendo ammalata, non ha potuto impreziosirla. Ancora il Lasca, ne “La Strega”,22 mette al corrente i lettori di aver

«partorito sei figliole, cioè composto sei commedie».

Già da una prima analisi delle qualità che accomunano o differenziano la commedia rispetto alla donna emerge, intorno alla figura femminile, una commistione di idee antitetiche, riflesso dello scontro fra misoginia e filoginia che spesso, nel corso dei secoli, si sono fronteggiate sia in letteratura che sul palcoscenico.

I.2.1LA CASSARIA IN VERSI: UNA COMMEDIA «IMBELLETTATA»

Nel 1508, in occasione del Carnevale, Ludovico Ariosto rappresenta presso il Palazzo Ducale di Ferrara, “La Cassaria”, la prima commedia in volgare del mondo moderno, nata con l’intento di dare all’Italia una commedia originale ma allo stesso tempo fedele alle strutture e ai temi dei testi classici. L’autore, infatti, si serve della contaminatio ovvero quella tecnica che intreccia personaggi e situazioni delle commedie latine ad una nuova trama, in funzione di una loro attualizzazione.

Ma ciò che suscita maggior interesse è il processo di rielaborazione a cui “La Cassaria” viene sottoposta poiché, mentre la prima redazione si presenta in prosa, a partire dal 1528, Ariosto riscrive la medesima commedia adottando il verso endecasillabo sdrucciolo; come

20 P. ARETINO, Tutte le commedie, a cura di G. B. De Sanctis, Milano, Mursia, 1968, p. 31.

21 G. M. CECCHI, Commedie inedite di Giovanni Maria Cecchi, a cura di Giovanni Tortoli, Barbera Bianchi e comp., Firenze, 1855, pp. 150-220.

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si legge nel Prologo della seconda redazione23, con tale rimaneggiamento Ariosto ha voluto

truccare, ‘imbellettare’ o meglio ancora impreziosire “La Cassaria” in prosa per renderla ancora più bella:

«A sè chiamòlla, e fecela

Più bella che mai fosse, e rinnovatala Ha sì, che forse alcuno che già in pratica L’ha avuta, non la saprebbe, incontrandosi In lei, così di botto riconoscere».

(La Cassaria vr. Prologo)

Ariosto, dopo la rievocazione della triste vicenda editoriale che ha interessato la sua prima commedia, «stampata clandestinamente e lacerata da importuni e avidi stampatori», esprime qui il proprio entusiasmo per essere riuscito, grazie alle sue doti, a rinnovarla e a migliorarla; subito dopo però manifesta il grande rammarico di non poter adoperare questa industria sul pubblico femminile, riferendosi, in particolare, alle donne che vanno incontro alla vecchiaia:

«Oh se potesse a voi questo medesimo Far, donne, ch’egli ha fatto alla sua favola; Farvi più che mai belle, e rinnovandovi Tutte nel fior di vostra età rimettervi! […] Di quelle io parlo che nello increscevole Quaranta sono entrate, o pur camminano Tuttavia innanzi. O vita nostra labile! Oh come passa, oh come in precipizio Veggiamo la bellezza ire e la grazia!»

(La Cassaria vr., Prologo)

L’autore è ben consapevole che la bellezza tramonta e sfiorisce con il passare del tempo e non esiste un modo per recuperarla «né per mettersi bianco, né per mettersi rosso si potrà giammai far che si nascondano le maladette crespe, che sì affaldano il viso e il petto».

23 L. ARIOSTO, Opere minori in verso e in prosa, tomo II, ordinate e annotate da Filippo Luigi Polidori, Firenze, F. Le Monnier, 1857, p. 13.

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Perciò, in questo caso, vengono messe a confronto le commedie vecchie con le donne anziane: se le prime possono essere abbellite mediante l’intervento dell’autore, per le seconde è impossibile recuperare la giovinezza e la bellezza.

Inoltre il Prologo denuncia l’utilizzo dei belletti anche da parte degli uomini tra cui non solo i giovani, ma soprattutto i più vecchi desiderano apparire belli e puliti, dimostrando un animo ancora arrogante e libidinoso:

«[…] non men si profumano,

Che si facesson mai, non meno sfoggiano Con frappe e con ricami; e per nascondere L’età, dal mento e dal capo si svellono Li peli bianchi: alcuni se li tingono; Altri i capei canuti, altri il calvizio

Sotto il cuffiotto appiatta; altri con zazzere Posticcie studia di mostrarsi giovane […]»

(La Cassaria vr. Prologo)

Tutti rimedi futili dal momento che «il viso gli accusa e mostra il numero degli anni» e i denti «crollano o che mancano loro in gran parte». Quindi sia per le donne che per gli uomini, il ricorso ai belletti non è altro che un inutile affanno per nascondere i segni dell’età.

Ne “La Cassaria” in versi, il tema dei belletti femminili e maschili viene riproposto tramite rinvii isotematici, anche all’interno della commedia, dove troviamo alcuni monologhi di carattere riflessivo che intendono istituire un dialogo con il pubblico; a tal proposito, significativa è la terza scena del quinto atto dove, a differenza della redazione originaria, Ariosto sostituisce il dialogo tra i servi Fulcio e Marso in un intero monologo dedicato al tema in questione:

«FULCIO: O quanto tempo perdono in vestirsi e lisciarsi queste femmine![…] Quanto tempo, quanti bossoli,

quante ampolle e vasetti, quante tattare che non saprei contar tutte, s’adoprano! Se s’ha da dir il ver, perché riprenderle si dee ch’el proprio loro instinto seguono, il qual è di cercar con ogni studio

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12 di parer belle e supplir con industria

dove manchi natura? Ed è giustissimo desir, perché non hanno altro, levandone la beltà, che le faccia riguardevoli».

Il servo Fulcio dopo aver descritto tutte le pratiche di abbellimento (lisci di vari colori, spilletti per acconciare i capelli, ciglia depilate, coltelli e forbici per le unghie, saponette e limoni per le mani) giustifica le donne che impiegano tanto tempo nell’adornarsi poiché questo è l’unico modo che hanno a disposizione per supplire ai propri difetti e apparire più avvenenti. Nel soliloquio di Fulcio ho rintracciato nuovamente il riferimento agli ornamenti maschili:

«Ma che diremo noi de’ nostri gioveni, [..] Fan come le femmine

tutte le cose: han loro specchi, lor pettini, lor pelatoi, lor stuccetti di varii

ferruzzuoli forniti; hanno loro bossoli, lor ampolle e vasetti […]

Sì che, se in adornarsi s’ha da perdere tempo, gli è più escusabil quel che perdono le donne […]».

Rispetto alla redazione originaria, nella seconda redazione Ariosto inserisce un altro monologo in cui il ruffiano Lucramo, elencando tutti i mali della città, pone in evidenza la vanità che contraddistingue la maggior parte dei gentiluomini:

«Tutto ciò c’hanno, in adornarsi spendono, Polirsi, profumarsi come femmine,

E pascer mule e paggi, che lor trottino Tutto dì dietro, mentre essi avvolgendosi Di qua e di là, le vie e le piazze scorreno, Più che ignuna civetta dimenandosi, E facendo più gesti che una scimia. Par lor, che col vestir di drappo ed abiti Galanti, foggie e pompe, far si debbiano Stimar dagli altri quel ch’essi si stimano,

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13 E generosi e splendidi e grandi uomini:

E veramente sono come scatole Nuove, di fuor dipinte e dentro vacue».

Come si può desumere dalle numerose citazioni appena riportate, quello del belletto è un topos dominante che più di tutti caratterizza “La Cassaria” in versi poiché, oltre ad essere costantemente richiamato all’interno del testo, rappresenta il motivo principale da cui ha origine la commedia stessa: Ariosto ha voluto applicare il trucco sulla redazione originaria dando vita così ad una commedia rinnovata che rispondesse in misura maggiore alle proprie esigenze stilistiche e contenutistiche.

Infatti, la seconda redazione non si differenzia solo per l’adozione del verso ma anche per l’ampliamento e l’aggiunta di lunghi monologhi in cui Ariosto, tramite la voce dei suoi personaggi, invita alla riflessione e coinvolge il pubblico in una denuncia che ha chiare valenze referenziali alla realtà di Corte.

Si veda per esempio, il risentito commento della serva Stamma circa l’avarizia del padrone (atto terzo, scena IV), assente invece nella prima redazione, oppure il monologo del villano Brusco (che nella Cassaria in prosa fa solo due fuggevoli apparizioni) deputato ad esprimersi circa il rapporto d’autorità tra i servi (atto secondo, scena V); per non parlare del già citato monologo di Lucramo dove vengono elencate tutte le nefandezze dei cittadini.

Per tanto ne “La Cassaria” in versi Ariosto ha manifestato l’intenzione di voler accrescere lo spessore polemico del testo cercando di raggiungere una sorta di equilibrio tra le parti ludiche e le scene di carattere etico e morale.

I.3 LA DONNA A TEATRO: VITUPERATA E LODATA

Considerato che la commedia intende riprodurre la realtà contemporanea, l’autore, al momento della composizione del testo teatrale, deve inevitabilmente prendere in esame i temi più discussi nel panorama socioculturale del tempo e, successivamente, trasferirli nella commedia attraverso i dialoghi dei personaggi; ciò è quanto accaduto alla questione cinquecentesca sulla donna, nei confronti del quale i commediografi si sono dimostrati particolarmente sensibili. Infatti, in seguito ad un’attenta analisi delle commedie, ho riscontrato numerose battute rivolte alla donna, alcune delle quali sembrano seguire una linea filogina esaltando le virtù del gentil sesso, mentre altre rimangono fedeli alla tradizione misogina definendo la donna come un animale imperfetto.

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Tale contrasto è facilmente comprensibile mettendo in evidenza le connessioni che esistono fra la commedia e la trattatistica rinascimentale, perché in essa gli autori spiegano in forma teorica la natura della donna, il modo in cui deve comportarsi, gli spazi e le funzioni di pertinenza femminile. Ciò si fa ancora più interessante se si tiene conto che alcuni commediografi, come Lodovico Dolce e Alessandro Piccolomini, sono autori di celebri trattati d’institutio che a loro volta ci aiutano capire se, quanto riportato nelle commedie, coincide o meno con il reale pensiero intellettuale dell’autore.

I.3.1 UN ERRORE DELLA NATURA

Nel 1550 Giovanni Maria Cecchi pubblica “La Stiava”24, una commedia che prende nome

dalla protagonista femminile intorno a cui ruota l’intera trama, anticipata sapientemente da un prologo degno di attenzione:

«E per dirvi, io sarei stato ardito di dire a tutti se io non avessi creduto, che tra voi fussino alcuni di quelli ch’ hanno le donne in odio, che veder in viso non le vogliano e si stomacano quasi a sentirle ricordare, non ch’essi gli permettino che gli servino […] faranno adunque cortesia questi nimici a spada tratta delle femmine, se alcuno ce n’ha tra voi, di partirsi avanti che questa nostra venga fuori e, dar luogo a quelli che delle femmine dilettandosi, volentieri udiranno e vedranno questa nostra Stiava».

(La Stiava, Prologo)

Emblematico, il passo riportato, perché ci informa della presenza, tra le fila di un pubblico cinquecentesco, di uomini che provano una tale avversione nei confronti delle donne da non sopportare nemmeno la loro visione. Per conoscere le ragioni che spingono gli uomini ad un odio così profondo è utile analizzare le battute delle commedie che si pongono a sfavore del gentil sesso.

A partire dalla sua natura, la donna è ritratta come un animale mutilato che, per le sue caratteristiche fisiologiche e intellettive, viene confinata in una categoria inferiore del genere umano; Luca Contile ne “La Trinozzia”25 esprime tale concezione tramite le parole del parassita Apatilo:

24 G. M. CECCHI, Commedie di Giovanni Maria Cecchi, a cura di Luigi Fiacchi, vol. I, Milano, dalla tipografia di G. Silvestri, 1850, pp. 351-352.

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15 «[…] non sai tu che la femina è uno animale che per disordine della natura nasce

e con disordine si governa? Se la natura fa un errore puollo il huomo con arte emendare?».

(La Trinozzia, Atto terzo, scena II)

L’idea che la femmina nasca per errore della natura affonda le proprie radici in lontane matrici filosofiche ma soprattutto nella teoria aristotelica sull’accidentalità del sesso femminile, secondo cui «si deve considerare la natura femminile come un’innata menomazione»26, quasi fosse il risultato di una deviazione riproduttiva nei confronti

dell’uomo; se ci ricolleghiamo ad un’altra fonte antica autorevole come il “De usu

partium”27 del medico Galeno, ci accorgiamo che questa inferiorità biologica dipende da un difetto termico ovvero dalla mancanza di calore, l’unico strumento naturale in grado di conferire perfezione alla costituzione fisiologica dell’essere vivente (in nota citazione Galeno). Infatti alla donna viene attribuita una complessione fredda e umida che è la principale responsabile di un’imperfetta anatomia e di una congenita debolezza (la femmina e fragile, incapace di difendersi, più timorosa e meno predisposta all’azione), al contrario del corpo maschile che, essendo caldo e asciutto, risulta perfetto.

Questi pregiudizi fisiologici vengono ripresi anche dai trattatisti del Rinascimento quali Ercole e Torquato Tasso che, discutendo sulla questione del prender moglie, intravedono nella natura della donna il primo ostacolo alla convivenza in quanto «nasce per difetto della virtù dell’operante, sì come i mostri per difetto o sovrabbondanza della materia, adunque per accidente […]» ed essendo queste di corporatura fredda e umida, contraggono malattie e diventano «sonnachiosa, pigra, tarda, smemorata, agghiacciata, insipida, paurosa, stupida, maliziosa, invidiosa, tediosa, mordace, vana, curiosa, insatiabile, sospettosa, avara, ritrosa, ignorante, superba, sfacciata, et bugiarda»28.

Talvolta però gli autori recuperano i presupposti dell’antropologia misogina per tentare di ribaltarli, proprio come accade nel trattato in lode di Galeazzo Flavio Capra, dove la superiorità delle qualità femminili su quelle maschili si riconosce proprio in virtù della

26 ARISTOTELE, De generatione animalium, in Opere, a cura di M. Vegetti e D. Lanza, Bari, Laterza, IV, 6, 775a, 15-16, p. 222.

27 GALENO, Opere scelte, a cura di I. Garofalo e M. Vegetti, Torino, Utet, 1978, pp. 734: «Come dunque l’uomo è il più perfetto di tutti gli animali, così per questo stesso il maschio è più perfetto della femmina. La causa della perfezione è la maggiore quantità di calore, che è lo strumento principale della natura […] Non c’è dunque da stupirsi se la femmina è tanto più imperfetta del maschio in quanto è più fredda».

28 Ercole e Torquato TASSO, Dello ammogliarsi piacevole contesa, in Bergamo, per Comin Ventura, 1594, pp. 10-11.

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complessione fredda che induce alla prudenza e al controllo di azioni scomposte che invece sfuggono agli uomini, portati all’eccesso nella passione e nell’ira dalla loro natura più calda. Anche la mollezza tipicamente femminile da difetto viene trasformata in virtù, perché «la mollicia e delicatezza de la carne è manifesto segnale de la sottigliezza de l’ingegno […] conseguentemente le femine hanno l’ingegno più agevole ad imparare ciò che vogliono»29.

Nel terzo libro del “Cortegiano”30, Gasparo Pallavicino e il Magnifico discutono

sull’argomento in questione: mentre il primo conferma che il calore, essendo attivo e produttivo, è più nobile del freddo, il secondo s’impegna a respingere questa tesi misogina affermando che la donna, su un piano fisico, sarebbe più perfetta rispetto all’uomo perché si avvicina in misura maggiore alla perfezione della natura temperata, condizione ideale in cui si genera un mediazione degli opposti (caldo e freddo) e quindi un equilibrio tra elementi e umori.

I.3.2 UNA «FEMMINA» BESTIALE, LUSSURIOSA E MUTABILE

Dopo aver constatato che il sesso femminile nasce per errore della natura e che la sua costituzione fisica risulta imperfetta e mutilata, è fondamentale valutare i conseguenti aggettivi con cui i misogini descrivono, o meglio, denigrano le donne e il tipo di trattamento che hanno nei loro riguardi; uno degli attributi più offensivi interessa l’aspetto ferino, la figura femminile è affiancata al mondo animale e viene definita come una bestia:

«Lippo: lasciate pure dire chi dice: lo impacciarsi con le bestie giovani è sempre bene, perché di loro mai si fa male.

Forese: Sì dice’l proverbio delle bestie. Ma non so se egli si serve per le mogli.

Lippo: Oh messer sì, serve, perché tutte sono bestie: ma di duo piedi».

(Il Donzello, Atto terzo, scena VI)

29 G. F. CAPELLA (o CAPRA), Dell’eccellenza e dignità della donna, Roma, Francesco Minizio Calvo, 1525, p. 94.

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Questo citazione è tratta dal “Donzello”31 di Giovanni Maria Cecchi, in cui le giovani donne

prese in sposa sono paragonate a giovani bestie da cui si differenziano solo per i “duo piedi”. Ma in alcuni passi delle commedie si nota che bestiale è anche il modo in cui l’uomo tratta il gentil sesso, specialmente se ha davanti a sé una schiava:

«Misera me che ben poteva soffrir io quest’altro scherno ancor di essere menata legata a guisa di bestia: poiché tante volte sono stata legata, e schernita hor qua hor la, e come una vera bestia condotta in sacrificio, venduta, battuta e finalmente abbandonata da ogn’uno».

(I morti Vivi, Atto secondo, scena V)

In questa battuta de “I morti vivi”32, Sorza degli Oddi presenta lo sfogo della schiava Rossana

per i maltrattamenti ricevuti dai suoi padroni, in particolare, dal mastro di casa Marcone da cui viene ripetutamente picchiata; le sue grida fanno impietosire la gentildonna Oretta che decide di accogliere la malcapitata in casa «perciocchè trattarla anco come se fosse una bestia è una mera bestialità».

Se la donna è più vicina al regno animale di conseguenza l’aspetto razionale che contraddistingue l’essere umano viene sopraffatto da istinti, passioni e appetiti disumani; tant’è vero che nelle commedie il sesso femminile risulta dominato da una lussuria insaziabile e focosa, proprio come appare monna Violante ne La Trinuzia33:

«Purella: E tanto più quanto le donne sanno meglio simulare, e son naturalmente più fastidiose, e più cicale, a dircelo qui tra noi; così rincrescevoli che’ l mezzo, non ch’el terzo, a mala pena di ciò ch’è il mondo, non ci contenterebbe; e non basterebbe Arno; e abbiam tutte una natura insaziabile, che non ha fin ne fondo».

(La Trinuzia, Atto secondo, scena II)

Agnolo Firenzuola, in modo del tutto singolare, attribuisce tali ostilità ad una donna, la serva Purella, indignata per il comportamento della padrona Violante che, pur di prender marito, intende sedurre con l’inganno non uno, ma ben due giovani uomini dimostrandosi così ingorda e prepotente. Ne “Il Capitano” di Lodovico Dolce invece, il famiglio Stramba dopo aver visto la giovane Fulvia, di proprietà del capitano Torquato, sollazzarsi con il giovane

31 G. M. CECCHI, Il Donzello Comedia di Giovanni Maria Cecchi fiorentino, Venezia, B. Giunti, 1585, p. 23. 32 S. DEGLI ODDI, Comedie del S. Sforza degli Oddi, cioè il duello d’amore e d’amicizia. Li morti vivi. La

prigione d’amore, G. Battista e G. Bernardo, Venezia, 1597, p. 34.

33 A. FIRENZUOLA, La Trinuzia, in Opere di messer Agnolo Firenzuola fiorentino, vol. V, Milano, Società tipografica de’ Classici italiani, contrada del Bocchetto, 1802, p. 31.

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Fabio afferma che «ne fune, od organi pon tenere una donna, se la furia della lussuria la percuote e stimola […] mio danno, dice alcun poi, che le femmine si possono contentar d’un huomo solo»34.

Del resto, quello della lussuria è un difetto conferito al sesso femminile già a partire dall’identificazione della donna con Eva (simbolo della lussuria e debolezza) e dagli autori latini: Ovidio nell’ “Ars Amatoria”35 dichiara che le donne hanno piacere degli amori

nascosti e nutrono un ardore sessuale senza limiti mentre Giovenale, nella satira VI, le presenta come lussuriose, vanagloriose e adultere; anche in epoca umanistica Boccaccio nel “De Mulieribus Claris”36 oltre ad illustrare donne valorose, pone riflessioni severe contro le

donne lussuriose e il mancato rispetto dei principi etico-morali.

Nel XVI secolo esempi di lussuria si ritrovano nei poemi cavallereschi, in particolare nell’Orlando Furioso di Ariosto dove la lussuria, oltre ad incarnarsi nella figura della maga Alcina, costituisce il tema principale di una delle novelle “boccacciane” presenti nel poema. Una di queste vede come protagonisti Astolfo e Iocondo che, dopo aver scoperto l’infedeltà delle proprie mogli intraprendono un viaggio per verificare l’eventuale moralità delle donne altrui: la maggior parte di esse si fanno sedurre rivelando l’incontenibilità del desiderio muliebre. L’irrefrenabilità dell’appetito femminile viene infine confermato dal comportamento di Fiammetta, che oltre a condividere il proprio letto con Astolfo e Iocondo, riesce persino ad aggiungere anche un terzo amante37.

Per quanto riguarda la produzione teorica, nel “Cortegiano” è sempre il misogino Gasparo Pallavicino a dichiarare che le donne «per la imbecillità del sesso, sono molto più inclinate agli appetiti che gli omini e se talor si astengono dal satisfare a suoi desideri, lo fanno per vergogna, non perché la voluntà non sia loro prontissima»38. Molto importante è anche uno dei pochi trattati misogini di fine cinquecento intitolato “I donneschi difetti”, dove Giuseppe Passi pone la lussuria e i disordinati appetiti fra i primi mancamenti del gentil sesso, ritenendo che non ci sono dubbi sul fatto che «la lussuria, a cui si oppone la castità, e pudicitia, non sia altro che uno sfrenato appetito di pensieri dishonesti, e carnali; il quale di se genera cecità di mente, incosideratione, precipitatione, amor di se stesso e, poco amor

34 L. DOLCE, Comedie, p. 10.

35 P. O. NASONE, L’arte di amare (Ars Amatoria), a cura di Ettore Barelli, Rizzoli editore, Milano,1959, p. 88 36 G. BOCCACCIO, Libro di m. Giovanni Boccaccio delle donne illustri, Venezia, Comin da Trino di Monferrato: a instanza di m. Andrea Arriuabene al segno del pozzo, 1545, p. 110.

37 L. ARIOSTO, Orlando furioso, introduzione e commento di E. Bigi, Milano, 2013, XXVII, 132, 8. 38 B. CASTIGLIONE, Il libro del Cortegiano, pp. 309-310.

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d’Iddio». Un descrizione più particolareggiata circa i vizi e difetti del genere femminile è presente in una battuta de “La Fabritia”39 di Lodovico Dolce:

«Gli huomini dicono che tutte le donne sono a un modo cioè superbe, arroganti, maligne, crudeli, lussuriose e insazibili […] aggiungono che gli affanni, le discordie, le inimicitie, le liti, le questioni, le ferite e i morti procedono pur da loro; e infine che non è il peggior animale al mondo della femina».

(La Fabritia, Atto secondo)

A pronunciare queste parole è il personaggio del “sensale da maritaggi” ovvero colui che s’impegna a combinare matrimoni, un mestiere in crisi a quei tempi perché quasi tutti i giovani temono la natura malvagia del sesso femminile; nella battuta appena citata vorrei però mettere in evidenza un dettaglio significativo: ad essere accostata all’animale non è la «donna», bensì la «femina», un termine spesso impiegato con accezione negativa. Ciò è quanto dichiara Francesco Belo ne “Il Beco”40 in cui il giovane Lepido rimprovera il servo

Nanni per aver chiamato sua moglie femina «un nome che si conviene alle concubine», così come il messer Nicia de “La Mandragola”41 si rifiuta di attuare il piano propostogli da

Callimaco (far dormire la moglie con un altro uomo per contrastare l’effetto collaterale della mandragola) «perché io non vo’ fare la mia donna femmina e me becco» ossia teme che sua moglie Lucrezia possa essere giudicata una poco di buono e lui uno sciocco.

Perciò è evidente che la parola «femmina», dal latino femina, ha un significato dispregiativo e denota l’aspetto puramente fisico e sessuale contrapponendosi al termine «donna», contrazione del latino domina (padrona di casa) che sottolinea la nobiltà d’animo e una condizione socioculturale.

Questo tipo di distinzione si riscontra anche nelle varie opere trattatistiche cinquecentesche, specialmente nei “Dialoghi piacevoli”42 nei quali, volendo chiarire il come e il quando del

manifestarsi dell’onestà femminile, Stefano Guazzo, propone di dividere le donne in «femminette» «femminelle» «femminucce» e «femminaccie»: le prime sono coloro che non peccano perché, per loro sfortuna, nessuno le corteggia, le seconde rappresentano quelle donne oneste che, rimaste vedove, si trasformano in bestie, mentre con femminelle l’autore intende quelle donne che, nonostante siano pudiche d’animo, nei loro sguardi e nei loro

39 L. DOLCE, Comedie, p. 18.

40 F. BELO, El Beco. Comedia di Francesco Belo romano, Antonio Blado d’Asula, Roma, 1538, p. 50. 41 N. MACHIAVELLI, Mandragola Clizia, p.108.

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atteggiamenti si dimostrano lascive; infine le femminacce costituiscono quella categoria femminile che si abbandona all’amore platonico.

Al contrario, Lucrezia Marinelli, una delle prime scrittrici di trattati cinquecenteschi, ne “La

nobiltà e l’eccellenza delle donne co’ difetti e mancamenti degli uomini”43 propone

un’etimologia positiva dei diversi nomi attribuiti alle donne: donna (signora), femina (generazione o fuoco), Eva (vita) e mulier (molle e delicato), tutti nomi nobili e pregiati. Infatti se finora abbiamo visto che femina ha un’accezione negativa, qui invece viene detto che è un vocabolo addirittura più nobile di ‘donna’, perché «dinota generazione e produzione (…) è attione dignissima fra tutte le operationi de viventi che dipende, a punto solamente da perfetti viventi come sono le donne»; inoltre femina rimanda anche al fuoco, il più attivo fra gli elementi, fonte di calore e splendore senza cui non ci sarebbe vita e il mondo morirebbe. Ma la caratteristica dominante che il filone misogino conferisce all’identità femminile è la sua mutevolezza, l’incapacità delle donne di essere stabili e ferme nelle relazioni sentimentali; a tal proposito ne “La Gostanza”44 e ne “La Vedova”45 sono presenti battute

che fanno riferimento al difetto prima citato:

La Gostanza, Atto I, scena I La Vedova, Atto Secondo, scena III «Lisabetta: infine noi siam tutte donne e tutte

pazze; e in noi non è fermezza, né stabilità nessuna.

Fidenzio: Varium e mutabile femina semper. In lingua Etrusca: femina è cosa mobil per natura».

«Gostanzo: Oh infedele, oh scelleratissimo sesso, o donne volubili, e ben più volubili che foglia! Oh pazzo, oh sciocco chi di donna si fida!»

Nel primo caso Girolamo Razzi apre la commedia con un dialogo fra la giovane Lisetta e il pedante Fidenzio che, in seguito all’improvviso cambiamento di mona Gostanza, discutono sulla mutevolezza e frivolezza del gentil sesso; allo stesso modo Giovan Battista Cini nella sua commedia fa pronunciare tali parole al giovane Gostanzo che, dopo aver saputo dei presunti tradimenti della moglie Cornelia, giunge all’amara conclusione che di un sesso così scellerato come quello femminile non bisogna assolutamente fidarsi.

In queste citazioni ciò che è importante sottolineare è la loro dichiarata dipendenza dal topos antico e medievale della volubilità muliebre che, a partire dalla celebre espressione virgiliana

43 L. MARINELLI, La nobiltà e l’eccellenza delle donne co’ difetti et mancamenti degli huomini, Venezia, G. Battista Ciotti, all’insegna dell’Aurora, 1602, pp. 3-8.

44 G. RAZZI, La Gostanza comedia di Girolamo Razzi, Firenze, Giunti, 1565, p. 3.

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presente nell’Eneide, «varium et mutabile semper femina»,46 trova la sua prosecuzione in

prima istanza nel Canzoniere di Petrarca «femina è cosa mobil per natura»: tutte formule che Razzi trasferisce alla lettera nelle parole del pedante.

Nella novella IX della seconda giornata del “Decameron”47, Boccaccio introduce il tema

della mobilità muliebre tramite la scommessa tra Ambrogiuolo da Piacennza e Bernabò Lomellin: se quest’ultimo è sicuro dell’onestà della propria moglie, Ambrogiuolo intende dimostrargli il contrario; a ciò il genovese controbatte dicendo «che speri tu che una donna, naturalmente mobile, possa fare a' prieghi, alle lusinghe, a'doni, a' mille altri modi che userà uno uom savio che l'ami?».

A questo punto vorrei porre in rilievo il legame che ho rintracciato fra il passo dell’Eneide, quello di Boccaccio e la commedia di Cini poiché pare che, in tutti questi testi, il topos in questione serva in realtà a far risaltare con maggior fulgore la virtù della protagonista che, sebbene appartenga ad una specie naturalmente volubile, si rivela ferma nei suoi principi morali. Infatti Didone rivela una personalità fermissima capace di affrontare il suicidio per amore, Ginevra mostra una grande tenacia nell’affrontare e svelare al marito le false accuse di tradimento che le erano state mosse contro da Bernabò, così come, alla fine della commedia di Cini, si scoprirà che la vedova Cornelia non ha mai tradito il marito, riuscendo ad ingannare i vari corteggiatori.

Infine, i tradizionali motivi antimuliebri quali ingratitudine, leggerezza e inaffidabilità completano il quadro misogino ricostruito intorno ai personaggi femminili; ne L’Olimpia48

di Giovan Battista Della Porta, il giovane Lampridio, profondamente deluso dai comportamenti scorretti della sua amata, critica tutte le donne ingrate con le seguenti ingiurie:

«Ahi donne perfide, ed infedeli, (delle ingrate parlo io) tutte sete macchiate d’una pece, tutte sete ad un modo. Non perché vi si mostri piegato il cuore in mille parti, non perché si spenda la vita mille volte per onor vostro si può aquistar tanto merito appresso voi, che in un punto non vi si dilegui dalla memoria. L’instabilità è l’oggetto del vostro cuore, la leggerezza è nata nel mondo dalla vostra condizione».

(L’Olimpia, Atto secondo, scena IV)

46 P. VIRGILIO MARONE, Eneide, a cura di Ettore Paratore, traduzione di Luca Canali, Milano, Mondadori, 1978, libro IV.

47 G. BOCCACCIO, Decameron, a cura di Vittore Branca, UTET, Torino, 1956, 2 9 16.

48 G. B. DELLA PORTA, Delle commedie di Giovanbattista della porta napoletano, tomo IV, Napoli, Stamperia e a spese di G. Muzio erede di Michele-Luigi, 1726, p. 34.

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Alla luce di tali considerazioni, possiamo evincere quanto una lunga e inveterata tradizione abbia fatto pesare sulle donne una duplice condanna biblica e biologica e quanto tutta una letteratura misogina abbia attribuito loro le caratteristiche di irrazionalità, passionalità, mollezza, lussuria, volubilità, frivolezza e incostanza, considerate come conseguenze naturali e quindi, inappellabili, di una costituzione fisica imperfetta.

I.3.3 LE VIRTÙ MULIEBRI IN FUNZIONE DELL’UOMO

Nelle commedie cinquecentesche alcuni autori introducono battute che sembrano difendere il gentil sesso e opporsi alla tradizione misogina appena delineata; è questo il caso delle due commedie di Lodovico Dolce, Il Ragazzo49 e La Fabritia50 in cui, dopo aver constatato che

la maggior parte degli uomini odiano le donne in quanto causa di tutti i mali, vengono esaltate le virtù del sesso femminile:

Lodovico Dolce, Il Ragazzo, Prologo Lodovico Dolce, La Fabritia, Atto II «[…] E nonostante che voi siate ornamento del

mondo, colorazione degli uomini, riparo del seme umano e dolcezza di chi ci vive vi portano cotanto odio, che non è niuno di loro che vi voglia vedere in fronte».

«Ma questi che così dicono hanno l’appetito guasto e vorrebbono che gli huomini si disperdessero perciocchè le donne sono quanto di bene ha il mondo. E se non fossero i matrimoni, nessuno conoscerebbe i propri figliuoli e la nostra vita sarebbe confusione».

In questi frammenti di testo emergono due delle doti primarie riconosciute alle donne, quelle stesse doti con cui Lucrezia Marinelli chiarisce il significato del termine femmina, ovvero generazione e produzione, la donna è riparo del seme umano e senza di lei non ci sarebbero matrimoni né gli uomini conoscerebbero mai i propri figli. Ciò non deve stupire se consideriamo che Dolce scrive queste commedie intorno alla metà del Cinquecento, periodo in cui si sviluppa una trattatistica pedagogica dedicata all’educazione femminile dove la

49 L. DOLCE, Comedie, pp. 3-4. 50 L. DOLCE, Comedie, pp. 18-19.

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donna, irreggimentata nello schema tradizionale di vergine, moglie e vedova, appare come figura positiva e autonoma poiché essenziale alla prosecuzione della genealogia parentale, all’educazione della prole, al sostentamento dell’economia famigliare, senza avere però alcun potere decisionale.

Lo stesso Lodovico Dolce è autore di un celebre trattato d’institutio intitolato “Dialogo della

institution delle donne”51, in cui delinea la propria concezione circa il genere femminile:

fortemente ridimensionata sul piano dell’incidenza culturale, la sua importanza è legata ad una necessità naturale, la procreazione e ad un beneficio economico, la cura e l’amministrazione della casa; secondo Dolce, l’educazione di una modesta e pudica fanciulla deve concentrarsi esclusivamente sul rispetto per l’ortodossia religiosa, sulla virtù della castità e sul governo della casa. Quest’ultimo sarà infatti la principale mansione della moglie che risulta del tutto subordinata all’uomo in quanto deve obbedire al marito e addirittura sopportare con pazienza le sue percosse; inoltre se l’adulterio della moglie è ritenuto un sacrilegio, è invece tollerato nell’uomo.

Perciò quella di Ludovico Dolce è una filoginia ambigua perché anche se protegge le donne in quanto creatrici di vita, propone una loro istruzione in funzione dell’uomo, nei confronti del quale sono ancora completamente sottomesse.

Un altro commediografo particolarmente attento all’universo femminile è Alessandro Piccolomini che, nei prologhi delle commedie, non manca mai di sottolineare il rapporto diretto fra l’Accademia degli Intronati e le gentildonne senesi, ispiratrici e destinatarie privilegiate delle loro composizioni; infatti nel ”Amor Costante”52 è presente il topos del servitium amoris in ossequio alla concezione del letterato come colui che utilizza la propria arte quale veicolo per esprimere la sua totale devozione per il gentil sesso: «cercar sempre di sapere, pigliare el mondo per el verso, e esser schiavo, servo affettionato, e sviscerato di queste donne, e per amor loro far qualche volta qualche Comedia, ò simil cosa da mostrarli l’animo nostro». Sempre nel suddetto contesto, risulta significativo il monologo declamato dal Prologo subito prima dell’inizio del primo atto, con l’elogio delle gentildonne e l’accorata richiesta affinché esse concedano il proprio favore e il proprio plauso alla commedia alla quale stanno per assistere:

«[…] solo vi dirò che questi Intronati son piu vostri che fusser mai, & da voi hanno cio che glihanno, & ogni giorno piu s’aveggono che senza voi male potrebben fare,

51 L. DOLCE, Dialogo delle institution delle donne.

52 A. PICCOLOMINI, L’Amor costante comedia del stordito intronato, composta per la venuta dell’imperatore

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24 & hanno piu di bisogno di voi che di generatione che sia al mondo. Però vi pregan

di cuore, che li vogliate hoggi far favore in questa loro comedia perché da voi depende il tutto, che se guardarete o tratterete quest’huomini la comedia andara invisibile & se per il contrario guardarete a noi & ci favori rete con l’attentione tutti quest’altro vi verran drieto».

(L’Amor Costante, Prologo)

Non a caso questo invito precede la spiegazione del titolo come sentimento meritevole di essere preservato e difeso, suggerendo così alle spettatrici di non cadere nelle avversità amorose perché Amore non abbandona mai chi lo serve con fermezza.

Anche nella seconda e ultima commedia scritta integralmente da Piccolomini, “L’Alessandro”53, si recupera il dialogo fra gli Intronati e le gentildonne, sempre nel segno

di una captatio benevolentiae in cui si ribadisce quanto lo scopo degli accademici sia quello di lodare ed intrattenere le donne «Nacquero gli Intronati, donne mie care, del seme delle bellezze vostre, ebbero il latte e si nutrirno della vostra grazia e finalmente, col favor vostro, salirono a quella altezza che piacque a voi». Ma questa volta lo Stordito distingue il raffinato ‘sollazzo’ offerto dagli esponenti dell’Accademia, dalle ‘buffonarie’ e i ‘ciaffi’ per i quali alcune spettatrici avrebbero mostrato, al contrario, il proprio gradimento; è questo il motivo per cui gli Intronati decidono di riunirsi e di riprendere le loro attività al fine di offrire al pubblico femminile una commedia del tutto nuova che, proponendosi come strumento di stigmatizzazioni di vizi e debolezze, possiede un’importante utilità morale.

Già dalle citazioni appena riportate possiamo scorgere una certa ambivalenza, quella fra l’omaggio alle grazie muliebri, il rimprovero per gli atteggiamenti di ingratitudine delle donne e gli accenni di velata e scherzosa misoginia; per tanto Piccolomini, così come Dolce, si contraddistingue per una filoginia ambigua, riflessa anche nelle sue opere trattatistiche: se ne “La Raffaella”54 riconosce alla donna il diritto al piacere e alla condivisione della morale

del carpe diem, successivamente, nel ”Istitution morale”55, riconferma il pregiudizio

misogino della donna materia, bisognosa di una forma, di cui detentore è il maschio. A differenza delle commedie appena citate, in quelle di Anton Francesco Grazzini non ho riscontrato nessuna battuta contro le donne bensì solo prologhi riferiti direttamente e

53 A. PICCOLOMINI, L’Alessandro. Commedia di Alessandro Piccolomini, ristampa anastatica con prefazione a cura di N. Newbigin, Bologna, Arnaldo Forni Editore, 1974, pp. 50-51.

54 A. PICCOLOMINI, La Raffaella ovvero Della bella creanza delle donne dialogo di Alessandro Piccolomini

stordito intronato, Milano, G. DAELLI e c. editori, 1862.

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unicamente alle donne, a cui l’autore si rivolge con modi e formule già ampiamente codificati, lodandole per la loro bellezza, grazia, onestà e leggiadria; solo nel Prologo alle donne de “La Gelosia”56, viene proposto il doppio senso della materia che entra, «sendo tutte

di cortese e benigna natura, tanto che agevolmente vi cape e v’entra tutto il soggetto e la materia che vi si mette dinanzi». L’autore imposta la captatio benevolentiae basandosi sul tema centrale della commedia, l’amore, quel sentimento in grado di affascinare soprattutto il pubblico femminile.

Invece la posizione del commediografo Bernardo Dovizi da Bibbiena è ben delineata ed emerge dal confronto fra il dibattito inserito ne “La Calandria”57 e quello presente ne “Il

Cortegiano”58 poiché in entrambe i casi si assiste ad una tutela del genere femminile; tant’è vero che nella commedia il giovane Lidio difende il gentil sesso dalle accuse misogine del precettore Polinico, affermando che «le donne sono quanto refrigerio, e quanto bene ha il mondo, e senza le quali noi siamo disutili, inetti, duri, e simili alle bestie». Nel trattato di Castiglione, il Bibbiena, discutendo sull’argomento delle facezie, raccomanda ai gentiluomini di non attaccare l’onestà delle donne perché «sono nel numero dei miseri e però non meritano in ciò essere mordute, ché non hanno arme da difendersi». Il privilegio femminile nei riguardi dell’uomo incontra la disapprovazione di Gasparo Pallavicino poiché, secondo la sua opinione, così come agli uomini deve essere cara l’onestà delle donne, altrettanto alle donne deve essere caro l’onore degli uomini.

A tale critica, Bernardo ribatte evidenziando le disparità di condizioni sociali e di costume che separano l’uomo dalla donna, discriminata sessualmente e socialmente priva di potere contrattuale; ciò lo dimostra il fatto che determinati comportamenti se compiuti dall’uomo non sono tali da indurre a giudizi negativi mentre, per quanto concerne la figura femminile, è sufficiente una calunnia relativa alla sua onestà per essere disonorata. Quindi il Bibbiena conclude il capitolo con la seguente dichiarazione:

«noi stessi avemo fatta una legge, che in noi non sia vicio né mancamento […] che quella di chi una volta si parla male, o falsa o vera che sia la calunnia che se le dà, sia per sempre vituperata».

(Il Cortegiano, libro secondo, capitolo LXXXIX)

56 A. F. GRAZZINI, Commedie, pp. 10-11. 57 B. D. BIBBIENA,La Calandria, p. 28.

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Addirittura, in certi casi gli autori filogini si oppongono ai motivi antimuliebri attraverso l’elaborazione di un’intera commedia che, grazie al comportamento dei personaggi, riesce a dimostrare quelle che sono le virtù femminili; tale procedimento viene attuato da Raffaello Borghini che si serve della sua commedia, “La Donna costante”59, per contrastare il

pregiudizio misogino sulla mobilità muliebre. Infatti nelle parole del maestro Herosistrato, Borghini riflette il suo pensiero circa la costanza femminile:

«O quanta mi pare che fuor del dritto pensiero escano coloro che a biasimare la donna si pongono, e che sopra a tutte le altre calunnie d’instabilità, e di leggerezza l’accusano, dicendo con Virgilio. Varium e mutabile semper femina, o con il Petrarca. Femina è cosa mobil per natura, a qual calunnia essi medesimi quanto sia falsa dimostrano, quando che elle sono ostinate volendo più ampiamente biasimarle han di dir costume, e per non dir costanti, come veramente sono danno lor falsamente questo nome d’ostinate. […] come vogliono questi calunniatori del nobil sesso femminile che duo effetti nati da due cagioni contrarie possono stare in un soggetto? Che l’ostinatione, e la leggerezza naschino da due cause contrarie tutti i filosofi lo sanno. […] Quanto al nome che danno loro questi maldicenti, d’ostinate, per adombrare la virtù della costantia alle donne».

(La donna costante, Atto primo, scena III)

Secondo il commediografo, coloro che giudicano le donne ostinate e leggere si contraddicono perché l’ostinazione e la leggerezza nascono da due cause opposte e non possono coesistere; per tanto i maldicenti utilizzano l’aggettivo «ostinate» per nascondere quella che è invece la virtù che contraddistingue il gentil sesso: la costanza. Quest’ultima nella commedia trova la sua perfetta incarnazione nella giovane Elfenice che, essendo stata lontana per ben sette anni dal suo amato Clotario, ha sempre conservato il suo amore e non ha mai voluto assecondare le richieste del padre e dei suoi parenti «in prender nuovo marito, havendo fermo nell’animo di haver sol quello», a tal punto che infine, obbligata dal padre a sposarsi, preferisce fingersi morta e farsi seppellire, pur di esaudire il suo desiderio.

Riassumendo, nelle commedie analizzate si attesta una disparità fra le battute misogine e quelle filogine non solo da un punto di vista quantitativo ma anche qualitativo: le prime, più numerose, si scagliano contro il gentil sesso in maniera decisa e spietata, arrivando perfino a paragonare le donne alle bestie, mentre quelle a favore del gentil sesso esaltano e difendono le qualità femminili quali bellezza, onestà e costanza celandole però, sotto un filo di

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ambiguità dal momento che acquisiscono valore solo in relazione all’uomo, nei confronti del quale persiste una totale subordinazione.

I.4LA VOCE DELLE DONNE

All’interno dei testi teatrali i commediografi inseriscono ampi soliloqui dove i singoli personaggi possono commentare liberamente le peripezie in cui sono coinvolti e manifestare in modo sincero i problemi, le sofferenze, le angosce e i tormenti da cui sono quotidianamente afflitti. Ed è proprio in questo spazio letterario che gli autori concedono ai personaggi femminili l’opportunità di esprimere il proprio punto di vista circa la relazione con il sesso maschile: che si tratti di fanciulle desiderate, giovani avventurose, donne sposate, serve e balie, ciò che emerge dalle loro battute è un problema sociale autentico, un rapporto storicamente determinato tra il mondo maschile e quello femminile in cui sussiste la prevaricazione dell’uomo nei confronti della donna, considerata come intellettualmente inferiore e sessualmente incontrollabile, con l’ineluttabile conseguenza di dover dipendere sempre dalla figura maschile, sia in famiglia che in società.

Difatti, nel XVI secolo, dal momento in cui una bambina veniva alla luce in un matrimonio legittimo, indipendentemente dalle sue origini sociali, veniva definita in base alle sue relazioni con un uomo; il padre e in seguito il marito dominavano interamente la sua vita e ad entrambi essa doveva onore e obbedienza. Perciò nelle commedie le donne prendono parola per sfogarsi sulla loro misera condizione, fortemente penalizzata rispetto a quella degli uomini in quanto non possiedono alcuna libertà di scelta e di azione.

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Ne “La donna costante”60 ho rilevato un monologo molto significativo in quanto la serva

Acradina si abbandona animatamente ad una generale riflessione sullo stato d’inferiorità femminile:

«Gnaffe chi nasce femina porta seco tutte le sciagure. Mentre le donne sono fanciulle, sono guardate come si guardano i morti, né è lor lecito non ch’altro il farsi alle finestre liberamente e son menate fuori a punti di Luna, e bisogna che caminino per misera; tenghino le mani per ragione, gli occhi bassi, la persona dritta, la bocca stretta e in casa hanno il compito del lavor e a tavola non possono mangiar tanto che le si cavino l’appetito. Quando le donne sono maritate peggio che peggio: d’ogni cosa che hanno a che fare bisogna chiederne licenza al marito, e quando elle s’abbattono come fanno la maggior parte, in questo scopa schiaffi […] e le pene che le patiscono nel partorire, non ne voglio dir niente, e la fatica che hanno nell’allevare figliuoli, nel governar la casa [...] Et a gl' huomini è lecito ogni cosa, e ne' figliuoli hanno solo il piacere senza pena alcuna».

(La donna costante, Atto terzo, scena X)

Acradina, assistendo alle ingiurie che colpiscono la padrona Teodolinda, medita su tutte quelle ingiustizie e difficoltà che una donna deve affrontare nel corso della vita, a partire dalla tenera età in cui deve obbligatoriamente attenersi ad un rigido codice comportamentale che le vieta persino di affacciarsi alla finestra, fino ai travagli del matrimonio e della maternità dove, l’educazione dei figli e il governo della casa, sono completamente subordinati al potere decisionale del marito a cui, invece, è concesso tutto. In effetti, leggendo i trattati cinquecenteschi dedicati all’educazione delle donne, ci rediamo conto che l’immagine trasmessa è quella di una persona condizionata e controllata in tutti i suoi passi, cui si riserva una formazione specifica di genere, a seconda dell’età e dello stato anagrafico. Nella battuta qui sopra citata, in prima istanza, la serva Acradina fa riferimento a tutta quella serie di atteggiamenti che una fanciulla è obbligata a tenere in pubblico, i medesimi atteggiamenti che troviamo descritti dettagliatamente nel trattato del pedagogista Juan Luis Vives61:

Non cammini la femina né velocemente, né con troppa tardità. Sedendo tra gli huomini, stia co’l corpo e co’l volto modestamente […] tenga gli occhi bassi, levandoli di raro, & vergognosamente, non guardi alcuno di continuo. Non stia favoleggiante arditamente tra

60 R. BORGHINI, La donna costante, pp. 60-61. 61 J. L. VIVES, De l’ufficio del marito, pp. 103-107.

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29 gli huomini per lungo spacio e non sia la voce né sonora né arrogante che mostri animo

virile.

Nella definizione degli atti esteriori la giovane donna è tenuta a mostrare assoluta modestia che corrisponde con lo stare rivolti verso se stessi, silenziosamente con gli occhi bassi, il gesto composto, non ampio, non vistoso, la voce moderata e la parola non eloquente. Inoltre, prendendo in esame il già citato “Dialogo delle istitution delle donne” di Lodovico Dolce, ci accorgiamo che l’educazione della bambina e della fanciulla è sorvegliata partendo addirittura da una selezione di giochi e favole di tipo formativo, dalla scelta di una maestra letterata o di un maestro anziano e sposato, al fine di preservare la castità della bambina; successivamente l’autore suggerisce l’insegnamento di pratiche di tessitura e filatura per contrastare l’ozio, padre di tutti i vizi e, un catalogo di letture religiose e umanistiche per la prevenzione delle impudicizie.

Una volta sposata, la donna diventa proprietà del marito che, essendole stato imposto dal padre, spesso è motivo di frustrazione, proprio come lamenta madonna Oretta ne “L’Assiuolo” 62di Giovanni Maria Cecchi:

«Oretta: quanto sia misero lo stato di noi altre donne, facilmente in parte può conoscerlo chi considera a quanti incomodi noi siamo sottoposte, e di quanti piaceri prive, e sotto crudele tirannie il più delle volte ci tocca a vivere. Gli uomini avendo a tor donna tolgono quasi sempre chi essi vogliono; a noi per lo contrario ci convien torre chi ci è dato: e ci tocca tavolta (misera me e io ne posso far fede) ad averne uno, il quale […] è così rozzo e inumano che piuttosto una bestia di de gambe, che un uomo chiamar si puote».

(L’Assiuolo, Atto quarto, scena III)

In questo frammento di testo assistiamo alla disperazione di una donna che, non avendo potuto scegliere l'uomo con cui trascorrere il resto dei suoi giorni, si ritrova ad avere un marito fedifrago che intende svergognare indossando abiti virili. Del resto lo stesso Dolce non solo raccomanda alla moglie una totale obbedienza al marito ma anche un’assoluta sopportazione per quanto concerne le possibili percosse e gli eventuali tradimenti; invece l’adulterio femminile è considerato un sacrilegio da punire severamente. Tale disparità fra i sessi è denunciata dalla serva Nuta ne “La Stiava”63 di Cecchi:

62 G. M. CECCHI, L’Assiuolo commedia e saggio di proverbi per Giovanni Maria Cecchi, a cura di Luigi Fiacchi, Milano, G. Daelli e comp. Editori, 1863, pp. 121-122.

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