III. LE NUOVE SFUMATURE DEI PERSONAGGI FEMMINIL
III. 3 L A MADRE DI FAMIGLIA
III. 3.2 D UE MADRI AUTOREVOL
Giovambattista Gelli scrive la “Sporta” traendo ispirazione dall’Aulularia di Plauto; difatti il nucleo centrale della trama ruota intorno al vecchio avaro derubato del proprio tesoro, di cui un giovane si serve per sposare la propria amata.
Tuttavia rispetto al modello di riferimento Gelli riserva grande indipendenza elaborando tipi innovativi come la figura di monna Lisabetta, la madre dell’amante Alamanno. Quest’ultima è una vecchia vedova che si vanta continuamente di aver portato il denaro in casa grazie alla sua dote e, in seguito alla morte del marito, di essere diventata padrona di tutto.
Ginevra nella sesta scena del secondo atto la descrive proprio così:
«Ginevra. Lapo la Lisabetta ebbe sempremai quell’alterigia nel capo, e ha quel rigoglio, per parergli aver dato gran dota».
Inoltre, la serva Lucia, in un lungo monologo, fornisce informazioni dettagliate circa gli atteggiamenti quotidiani di monna Lisabetta:
129 «Io ho una padrona, di queste spirituali, che vanno a tutte le padronanze,
e nondimeno è la più massaia, la più misera e più strana donna di Firenze. Come ella è in casa non resta mai di gridare e d’arrovellare altrui: e fa peggio per le pasque e per la settimana santa, quand’ella si confessa, che tutto il resto dell’anno. Vedete, io vi prometto ch’io mi sbigottisco, quando ei ne viene la quaresima: ella va alle prediche e potete poi far conto, quand’ella torna a questa casa, che ci torni il diavolo e la versiera. Ell’ è ogni mattina in piedi all’alba, e s’io non fussi levata al par di lei, mal per me, a bisognami fare le faccende di casa, che le ho a fare tutte io, che noi abbiamo un famiglio, che tutto il dì Alamanno suo figliuolo lo manda in qua ed in là, e s’io non filassi poi anche ogni dì quattro o cinque fusa io sarei mal raccattata».
Da questa battuta emerge l’ipocrisia di Lisabetta che dopo aver recitato preghiere, torna a casa e si trasforma in un diavolo, rendendo penosa la vita degli altri; infatti obbliga tutti ad alzarsi presto e delega le faccende di casa alla serva Lucia. Ma ciò che più importa è il trattamento riservato al figlio Alamanno che comanda a bacchetta quasi fosse un famiglio. A tal proposito nell’atto secondo assistiamo ad una scena domestica tra madre e figlio dove Lisabetta rimprovera Alamanno di rientrare tardi a casa, spendere troppo in vestiti e di non aver voglia di far niente:
«Lisabetta. Ei si vuol fare bene le cose con qualche modo, e non volere ogni dì un paio di scarpe, e spendere ogni due mesi tre o quattro scudi in un paio di calze: io mi ricordo pur tuo padre andare con un paio d’otto o nove lire, e bastargli anche un anno, che non le portava così tirate, come vuoi far tu ed usava le stringhe di cuoio e cignovasi con un busecchio, dove tu spendi oggi un tesoro in istringhe ed in becche. E fu altro uomo che non sarai mai tu; che ei sapeva pur guadagnarsi un fiorino a sua posta; e tu non sei buono che a spendere ed andarli a spasso».
Successivamente Lisabetta non capisce il motivo per cui il figlio si ostina a voler studiare considerato che la maggior parte degli studiosi sono poveri; tuttavia ciò che più non tollera è lo spreco di soldi tant’è vero che lo minaccia di dividersi da lui e di volerlo diseredare:
130 «Ma io ti dico bene che se tu non tieni altro modo circa allo spendere e
al tornare a casa, io rivorrò la mia dota, e arrecherommi a star da me; che io non vo lasciarti mandare or male ciò che io ho per aver a stentar poi quand’io sarò vecchia».
Infine, Lisabetta prova a convincere Alamanno a prender moglie “per por la dota in su bottega”, ma il figlio le risponde di non essere interessato al matrimonio; nonostante ciò la madre non si arrende e si rivolge al fratello Lapo chiedendogli di sgridare il nipote per i suoi cattivi comportamenti e di persuaderlo a sposarsi:
«Lisabetta: Io l’ho caro d’avervi trovato, che io vorrei che voi lo sgridassi un poco; perché se e’ non muta modo, noi arem poco accordo insieme.
Lapo. Lisabetta egli è un battere il capo nel muro: io ne l’ho gridato tanto, che tu non sai; che io sono oramai stracco: ma tu non se cagione tu, che lo vuoi sempre contentar d’ogni cosa.
Lisabetta. Cagion ne sete stato pur voi, a farmi mandar via quel nostro maestro, che ne aveva cura; onde io sapeva di quel ch’e faceva: ed egli avendo compagnia la sera in casa, non aveva così voglia di uscire fuora».
Dalle parole di Lapo scopriamo un altro lato caratteriale di Lisabetta in quanto appare come una madre molto premurosa che si preoccupa in maniera ossessiva per la sorte del figlio, a tal punto da opprimerlo.
In realtà sappiamo che Alamanno ha una relazione sentimentale con Fiammetta, ma non dice nulla alla madre per timore che la sua avarizia possa ostacolare le nozze con una fanciulla senza dote; infatti quest’ultima a sua volta è figlia di Ghirigorio, il vecchio avaro a cui Alamanno sarà costretto a sottrarre la sporta per offrire a Fiammetta la dote necessaria al matrimonio.
Nel Ruffiano di Lodovico Dolce il conflitto madre-figlio porta invece ad una reale separazione ed è il marito, nonché padre, a raccontare l’accaduto:
«Lucrezio: Il mio figliuolo s’innamorò d’una di quelle fanciulle: il cui amore essendo venuto all’orecchio di mia moglie, egli le disse una gran villania: la qual non giovando, pensò di trovar rimedio per un’altra via
131 […] volse ella dargli mogliera: quasi che l’amore si cacciasse come un
chiodo con l’altro chiodo. Il giovane disperato, senza dire a Dio, si partì in quell’ora, che tre mesi sono compiti, che io non ne ho saputo novella».
(Ruffiano, Atto Secondo)
Simona si arrabbia con il figlio perché, innamoratosi di una schiava, si è fatto derubare dal Ruffiano a cui la fanciulla apparteneva, ragion per cui la madre prende la decisione di ammogliarlo. Ma è proprio in seguito a tale provvedimento che Lorenzino fugge di casa. Ciò scatena la disapprovazione e il dispiacere del marito Lucrezio che, per colpa della moglie, ha perso il suo unico figlio:
«Malpensa. Havete perduto un figliuolo?
Lucretio. Si ho. E per questo mi doglio: che dove altri per le mogli acquistano de’ figliuoli; io per la mia ne ho perduto uno solo, che haveva».
(Ruffiano, Atto secondo)
Di conseguenza Lucrezio, al contrario della moglie, diventa complice del figlio ospitando Lauretta e Giulia, le due fanciulle ritrovate dal servo Malpensa, poiché consapevole che una delle due è l’amata di Lorenzino. Nel far ciò Lucrezio viene accusato da Simona (che è all’oscuro di tutto), di essere un marito adultero dal momento che nasconde a casa ben due amanti. Alla fine, grazie al riconoscimento di Lauretta, figlia di Isidoro, amico di Lucretio, tutto si risolve e Lorenzino può sposare la sua amata.
Sofronia nella “Clizia” e Cornelia nella “Pescara” costituiscono l’esatto opposto delle madri appena elencate in quanto è grazie al loro aiuto che i figli realizzano i propri desideri. Nella prima commedia, Sofronia capisce che il marito Nicomaco si è invaghito della stessa fanciulla di cui è innamorato il figlio e perciò prende le parti di quest’ultimo:
«Sofronia: Io non so come tu te la ami; ma io ti dico bene questo, che s’io credessi trarla delle mani di Nicomaco, e metterla nella tua, che io non me ne impaccerei».
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Dopo una serie di vicissitudini, Clizia viene data in sposa al servo Pirro e perciò Nicomaco pensa di poterne beneficiare ma a questo punto, Sofronia organizza una beffa: nella prima notte d’amore, al posto della giovane si presenta Eustachio, servo del figlio Cleandro che, approfittando dell’oscurità della stanza, maltratta e picchia Nicomaco. Successivamente Sofronia rivolge una ramanzina al marito concedendogli però la possibilità di essere perdonato:
«Sofronia: Io non volli mai, el giuoco di te, ma tu sei quello che lo ha voluto di tutti noi altri, ed alla fine di te medesimo! Come non ti vergognavi tu, ad avere allevata in casa tua una fanciulla con tanta onestade […] e di volerla maritare poi ad un famiglio cattivo e disutile, perché fussi contento che tu ti giacessi con lei? […] Io confesso avere condotti tutti quelli inganni, che ti sono stati fatti, perché, a volerti fare ravvedere, non ci era altro modo. Ora la cosa è qui: se tu vorrai ritornare al segno, ed essere quel Nicomaco, che tu eri da uno anno indietro, tutti noi vi tornereno, e la cosa non si saprà».
(Atto Quinto, scena III)
Sofronia è dunque una moglie pronta a reagire con sdegno al tentato adulterio del marito nei confronti del quale si dimostra sensibile e indulgente, concedendogli una seconda possibilità; allo stesso tempo, il personaggio in questione è anche una madre pronta a difendere il figlio rendendo possibile la sua unione con Fiammetta. Non a caso Alamanno esclama: «Dio vi salvi, mia madre!
Nelle vesti di un’eroina appare anche Cornelia che, nella “Pescara” di Luca Contile, salva il figlio Curzio dalla condanna del vecchio Virgilio. La tragicommedia narra infatti le vicende di due amici, Curzio e Lucio che dopo aver scoperto di essere innamorati della stessa ragazza, in nome del loro profondo legame affettivo, prendono la drastica decisione di suicidarsi. Per tanto, Virgilio, avendo promesso in sposa la giovane Antofilonia a Curzio, pensa di essere ingannato e infuriatosi, fa incarcerare i due ragazzi. A questo punto entra in scena Cornelia che raccontando a Virgilio le sue più grandi sventure ossia la perdita del marito e il rapimento della figlia, riesce a farlo commuovere:
«Cornelia: Dolentissima me, che ben nacqui tristo punto, ho da perdere senza cagione un figlio?
133 Vergilio. Ho da perdere per gli inganni suoi l’honore? Se il vostro
Curzio ha un’altra moglie, come diede egli la fede a me per la mia figlia?
Cornelia. Come altra moglie? Chi l’ha detto?
Vergilio. Basta, in man de la giustizia sono. Dogliomi per amor vostro. Cornelia. Oime che dite voi? Adunque se non vi commuove l’innocenza del mio figliuolo, vincavi almeno la miseria mia, farà gli anni presto. […] il mio Marito che sia in cielo, essendo podestà in Terracina, per non rimaner solo; tenendome in Roma con Curzio per farlo imparare, volse ch’io gli lasciai una fanciullina, chiamata Artemisia di due anni; o figliuola mia. E’ per sollazzo una mattina entrato il mio marito in una barchetta […] con la figliuolina facendo pescare riva riva, fu all’improvviso assaltato da una fusta de Mori. Fu egli con i servitori ammazzato e via menatane la mia Artemisia. Non so come io non muoia di dolore».
Per giunta, da questo racconto e da altri dettagli delineati da Cornelia, Vergilio capisce che la figlia perduta dalla povera Cornelia è Antofilonia, da lui adottata a Costantinopoli. Perciò, la commedia si conclude con le nozze fra Curzio ed Herminia e Lucio con Antofilonia.
Dopo un’attenta analisi condotta sul carattere e sul modo di agire delle madri di famiglia è evidente che siamo davanti ad un tipo femminile molto variabile perché se alcune opprimono, maltrattano e tiranneggiano i figli facendosi perfino mezzane, altre al contrario spalleggiano e soccorrono i propri figli escogitando astuti stratagemmi pur realizzare i loro desideri.
III.4.LA CORTIGIANA
Prima di descrivere le cortigiane che animano le scene delle commedie erudite, vorrei soffermarmi sulla nuova sfumatura che tale categoria conosce durante tutto il Cinquecento: è questo infatti il secolo in cui ha origine un genere più elevato di prostituta, la cortigiana onesta. L’accostamento dei due termini, meretrix ed honesta può sembrare un ossimoro ma non lo è perché l’aggettivo non si riferisce alla castità quanto alle buone maniere, all’eleganza e all’intelligenza che queste donne possiedono; invero, all’interno delle corti,
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tali qualità fanno della cortigiana una perfetta interlocutrice, che instaura rapporti di dipendenza economica verso i cortigiani, con tutte le conseguenze del caso. A quel punto le cortigiane divengono a tutti gli effetti prostitute e si distinguono dalle loro colleghe più povere e sfortunate perché non sono costrette a cercare i clienti (non sono propriamente “pubbliche”, di tutti) e perché possono contare su redditi ben diversi.
Invero le cortigiane oneste hanno un ruolo non trascurabile sia nella vita mondana (partecipano a feste, banchetti, riunioni conviviali) che nella vita artistica e culturale dal momento che rappresentano ospiti affascinanti e colte, ispiratrici di artisti e poeti, musiciste e, buone conoscitrici di Petrarca tant’è vero che, molte di loro, diventano per giunta poetesse (si pensi a Gaspara Stampa, Veronica Franco e Tullia d’Aragona).190
La vita delle cortigiane oneste permette dunque di ricollegarci al tema più generale della condizione femminile nel XVI secolo in quanto rappresenta una prima manifestazione di donna economicamente e intellettualmente indipendente.
Perciò è necessario operare una distinzione tra le grandi cortigiane che troviamo all’apice della gerarchia, ossia le cortigiane oneste e quelle che popolano la base ovvero le cortigiane “da candela” o “da lume”, di più vile condizione.
A tal proposito nelle commedie rinascimentali, come sostiene anche il critico Vincenzo De Amicis, si registra un maggior numero di cortigiane appartenenti alla specie più bassa e vile, mentre rare sono quelle meretrix di carattere colto ed elegante; per tanto i commediografi mostrano una scarsa aderenza al nuovo fenomeno verificatosi nella società cinquecentesca.