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L’ INFERNO DELLA VITA CONIUGALE

II. IL MATRIMONIO CORRETTIVO

II. 3 I L DIBATTITO SUL MATRIMONIO

II.3.1 L’ INFERNO DELLA VITA CONIUGALE

La commedia- simbolo della questione matrimoniale è “Il Marescalco”115 di Pietro Aretino

in quanto il nodo della favola si concentra esclusivamente sui benefici e malefici del prender moglie: la trama ruota intorno alla beffa ordita dal duca di Mantova, con la complicità di tutta la corte, ai danni di un maniscalco omosessuale e misogino, a cui viene fatto credere di dover sposare una bella e ricca fanciulla della città; in un primo momento il marescalco resiste rivendicando la sua libertà, ma successivamente cede e accetta di sposare la fanciulla che infine, per sua fortuna, si rivela essere un paggio travestito da donna.

Aretino scrive tale commedia molto probabilmente perché ispirato dal contesto in cui si trova durante la composizione: la corte mantovana dei Gonzaga dove presto il matrimonio diventa fonte di continue preoccupazioni in quanto Federico II è destinato a sposare Maria Paleologa del Monferrato ma, divenuto fedele amante della nobildonna coniugata Isabella Boschetti, inizia a mostrarsi poco entusiasta delle nozze e poco intenzionato a mantenere l’impegno.

113 C. AGRIPPA, “The humanist theologian and his declamation”, Marc Van Der Poel, Brill 1997.

114 J. L. VIVES, “The officio maritii: Introduction, Critical Edition, Translation and notes”, Charles Fantazzi, Virginia, Brill 2006.

115 P. ARETINO, “Teatro Comico, Cortigiana (1525 e 1534), Il Marescalco”, a cura di Luca D’Onghia, introduzione di Maria Cristina Cabani, Parma, Fondazione Pietro Bembo: Guanda, 2014.

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Quindi è come se Aretino si facesse interprete delle seccature di Federico, costretto a nozze non volute, elaborando una commedia interamente maschile (l’unica donna è la balia del Marescalco) che si sviluppa in una corte dichiarata dalla battuta del ragazzo Giannicco, nimica delle donne.

A questo punto vorrei concentrarmi sul personaggio che più di tutti si fa portavoce di idee misogine e che contrasta inevitabilmente il matrimonio: Ambrogio. E’ lui infatti, che ribatte alla difesa del matrimonio sostenuta dalla balia nel primo atto, descrivendo le molestie della vita di coppia:

«Tu torni a casa la sera a casa stanco, fastidito e pieno di quelli pensieri che ha chi ci vive, et eccoti la moglie incontra: parti ora questa di tornare a casa? O da le taverne, o da le zambracche si viene, ben lo so bene […] e tu, che ti credi consolare la cena, entri in collera, e sofferto un pezzo, se le rispondi, ella ti si ficca su gli occhi con le grida: e tu non mi meriti, tu non sei degno di me, e simili altre loro dicerie ritrose, di modo che fuggita la voglia del mangiare, ti colchi nel letto […]».

(Il Marescalco, Atto primo, scena VI)

Qui, in particolare Aretino, per bocca di Ambrogio, racconta il rientro a casa del marito stanco, aggredito verbalmente dalla moglie con pesanti insulti; la stessa situazione si ripete quando il marito rimprovera la moglie:

«[…] appena apri la bocca, ella ti si avventa addosso con un non fu a cotesto modo, tu esci del seminato, mettiti gli occhiali, tu sei fuor di te, inacqualo, dico, tu trasandi, và fatti rifare, tu sogni, tu frenetichi, sciocco, scimunito, disgraziato: che gioia, che bel fante, quanti ne fa Dio che gli torna mai a vedere, hami inteso?».

(Il Marescalco, Atto primo, scena VI)

Ambrogio amplia la propria denuncia contro le donne, tratteggiando la natura malvagia delle consorti che coincide perfettamente con le caratteristiche attribuite dai misogini al genere femminile:

«[…] mai danno requie a la lingua loro, e contano filastroccole le più ladre, le più sciocche che s’udissero mai e guai chi gli rompesse i ragionamenti o non le ascoltasse. Invidiose non ti dico […] Dispettose son come il cento paia; sempre parlano per

57 dispiacerti […] ritrose non ti so dire; sempre borbottano, sempre garriscono […]

disubbidienti al possibile».

(Il Marescalco, Atto primo, scena VI)

Inoltre, Aretino, tramite il suddetto personaggio misogino, lamenta il disagio che un marito incontra circa l’atteggiamento da tenere nei confronti della moglie poiché sembra che qualsiasi cosa faccia venga sempre giudicata errata:

«Se tu la vesti pomposamente ognuno bucina: e chi par essere a colui, e chi par essere a colei? Se tu la mandi domesticamente: il manigoldo se ne dovria vergognare; egli gli diede pur tanta dote che la potria vestire, ella è stata affogata, ella è stata pazza a non farsi più tosto monica. Se tu l’ammonisci per essere baldanzosa, tu acquisti nome di un asino; se tu le lasci il freno ir su’l collo, tu sei tenuto trascurato dell’onore; se tu le dai libertà, il vicinato mormora: se tu la tieni serrata ogn’uno ti chiama geloso e bestiale».

(Il Marescalco, Atto primo, scena VI)

In particolare, focalizzandoci sull’arringa di Ambrogio, pare che Aretino si sia ispirato al “Corbaccio”116 di Boccaccio poiché, secondo quanto osserva Maria Cristina Cabani

nell’Introduzione al Marescalco117, notevoli sono i passi che ricalcano i modi di dire

boccacciani; oltre alla polemica contro il belletto muliebre, nella battuta che ritrae il rancore della moglie per essersi degradata socialmente in seguito alle nozze con Ambrogio, l’autore imita le parole pronunciate dalla vedova boccacciana:

Il Marescalco II, 121 Il Corbaccio, p. 236

«Se non fossi io, tu mostreresti le carni: io t’ho ricolto dal fango! Mi sta bene ogni male, mi mancavano mariti?»

«Certo tu non eri degno d’avere me […] Pensa che tu non mi ricogliesti del fango; e Dio il sa chenti e quali erano quelli che se l’arebbono tenuto in grazia d’avermi presa senza dote».

La violenza contro le mogli come unica soluzione per domarle è un ulteriore tema ereditato dal Corbaccio:

116 G. BOCCACCIO, Il Corbaccio, pp. 235-283.

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Il Marescalco, II, 140 Il Corbaccio, p. 282

«Deh, quante bastonate gli si vorrebbe far dare». «Che solenni bastonate che io le darei».

Infine Aretino per riferirsi al tradimento muliebre utilizza ancora una volta un’espressione boccacciana:

Il Marescalco, II, 79 Il Corbaccio, p. 280

«La minor virtù ch’ella abbi è il farmi figliuoli senza ch’io ci duri una fatica al mondo, e credo che quelli che tengo per miei, o che si tengono miei, per parlar corretto, appartenghino a me quanto San Giuseppe a Cristo».

«Ha della moglie un tal figliuolo, e per suo il nutrica e allieva, che gli appartiene meno che a Giuseppo non fece cristo».

Il discorso di Ambrogio si conclude con una forte accusa nei riguardi delle donne perché il loro lusso e le loro spese economiche sono imputate come le principali responsabili della rovina di città e di famiglie:

«Ma la ruina di Roma e di Fiorenza è stata più discreta che non è quella, con la quale disfanno, spianano e profondano i meschini mariti che gli credono; e questi tali per mandarle riccamente, e tagluzzate, ed indorate, vanno più unti e bisunti […] e conosco alcuno che ha venduto le possessioni, perché la moglie compri i zibellini col capo d’oro tempestati di gioie, ed i monili di perle […] e così loro vendendo ed esse comperando il temporale e spirituale, hanno tutto, in capo de le fini, ad hebros fratres».

(Il Marescalco, Atto secondo, scena V)

Nella citazione appena riportata Ambrogio sottolinea la differenza tra le mogli, riccamente vestite e profumate, a discapito dei mariti sempre unti e bisunti per riuscire a soddisfare i vizi delle donne.

Il lusso muliebre rappresenta uno dei temi più discussi nel XVI secolo poiché molti scrittori hanno osservato che le donne impiegano nella moda quel denaro che, invece, spetterebbe agli uomini; tale potere deriva dalle doti più che consistenti che fanno aumentare nelle mogli la consapevolezza di essere economicamente importanti all’interno della famiglia.

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Ludovico Dolce118, per esempio, nel cercare un rimedio al problema, insiste nel sostenere

che castità e virtù sono i beni più preziosi che una moglie possa detenere, mentre la sua dote deve irrevocabilmente appartenere al marito:

«Ma non dee la prudente moglie istimar suo, dote, danari, bellezza, o nobiltà, che ella porti seco in casa del marito; ma la honestà, la castità, la bontà, la virtù, la obedientia, la diligentia nel governo della famiglia, & si fatti thesori: dei quali s’ella è abondevole, è riccamente dotata d’ogni bene».

Giuseppe Passi119 nella sua opera contro i difetti muliebri ritrae così il lusso muliebre:

«Che occorre, che il marito s’affatichi, & usi diligenza per acquistare un’ducato, se la moglie nelle sue sfoggie, & inventioni è pazza? che importa, che il marito heredita facoltà, se la moglie il tutto distrugge, in damaschi, in tele d’oro, ricami, & catene […]».

Perciò lo sperpero di denaro da parte delle mogli si aggiunge ai vari motivi che si pongono a sfavore del matrimonio e rientra nella natura insaziabile delle donne.

L’altro personaggio che esplicita il proprio odio nei confronti delle mogli e delle donne in generale, è il protagonista della commedia, il Marescalco che nel dialogo con la balia dichiara:

«E bisogneria che voi parlassi con uno di quelli mali arrivati, che a tavola, in letto, la mattina, la sera, e fuori, e dentro, sì come tutti i demoni fossero in corpo de la sua moglie, così è tormentato da la alterezza, da la ostinazione, e da la poca carità d’essa; et ho inteso di dire che minor pena è il mal francioso con tutte le podagre sue sorelle appresso, che non è lo avere moglie».

(Il Marescalco, Atto primo, scena VI)

In questo frammento di testo il protagonista descrive la consorte come un insieme di demoni che tormentano costantemente il marito; infine conclude la battuta con un’espressione

118 L. DOLCE, Dialogo della institution delle donne, P. 53.

119 G. PASSI, “I donneschi difetti di Giuseppe Passi Ravennate”, In Venetia, MDCXVIII, Appresso Vincenzo Somascho, p. 298

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iperbolica, elevando il prender moglie ad un male perfino peggiore del mal francioso ovvero, la sifilide.

Il paragone fra le mogli e le gravi malattie è un motivo che ricorre anche in altre commedie; si veda per esempio, “Il Ruffiano”120 di Lodovico Dolce in cui, peraltro, ritornano le percosse

già menzionate da Aretino e prima di lui da Boccaccio:

«Isidoro: che questo è un male più naturale a tutti quegli che prendono moglie, che non è la febbre che a tutti suol venire.

Lucretio: Può egli trovare medico o medicina che la gurisca?

Isidoro: Adoperar su di lei il bastone come fece quell’uom da bene, che dice il Boccaccio, sopra il mulo».

(Il Ruffiano, Atto primo)

Il vecchio Lucretio dialogando con l’amico Isidoro critica la misera vita matrimoniale in cui si contano solo due giorni felici, ossia quando la moglie accompagna il marito nel letto e quando il marito accompagna la moglie alla sepoltura.

Ne “Il Ragazzo”121, invece, ritroviamo la comparazione tra le mogli e l’Inferno:

«E tu savio, perché egli s’ha a vivere e a morire con la moglie la quale se avviene che si conformi con le tu voglie, la vita tua è il Paradiso. Se è ritrosa e bestiale come sono la maggior parte delle femine, credi a chi l’ha provato che minor pena è l’Inferno».

(Il Ragazzo,Atto primo, scena V)

Dalle parole del giovane Valerio, si evince come, secondo l’autore, la vita di coppia sia dettata in primo luogo dalla natura della moglie: se asseconda i desideri del marito è un Paradiso ma se ribelle e bestiale si trasforma in un Inferno.

Proprio come quella di Lucido Tolto, uno dei protagonisti de “I Lucidi”122 di Agnolo

Firenzuola che, avendo una moglie superba, strana e dispettosa definisce la vita coniugale una schiavitù:

«Moglie fastidiosa, importuna e caparbia, e un purgatorio continuo, e certo che io non credo che le pene infernali siano simili a queste: e non penso che si possa

120 L. DOLCE, Commedie, pp. 2-48. 121 L. DOLCE, Commedie, 2-60.

61 immaginare al mondo la maggior calamità, né la più misera servitù che avere una

moglie che ti ami, o che ti voglia dar a intendere che ti vuole bene; chè le par dovuto per questo che tu abbia a essere sempre un mulattiere».

(I Lucidi, Atto quarto, scena II)

Infatti ne “La Balia”123 di Girolamo Razzi, la Balia di Livio chiacchierando con la serva di

Girolamo, asserisce che la bontà dei mariti dipende dal modo in cui le mogli si comportano nei loro riguardi:

«La moglie fanno i mariti buoni e piacevoli. Se io fusse come molte c’hanno i mariti strani, e fastidiosi crederei farli tutti amorevoli e trattabili. Donde creda tu che venga, che i più fuggono lo star con la moglie, e tornano a casa, come le serpi allo incanto se non dalla stranezza d’esse, che non sanno essere con essoloro».

(La Balia, Atto terzo, scena I)

Prendendo in esame “La Trinozzia”124 di Luca Contile, all’interno della stessa battuta ho

riscontrato la comparazione delle mogli con l’Inferno e con le malattie:

«Da savio mi dimandi che solamente a dir moglie, spaventa il Paradiso. Primamente a la tua moglie darai la libertà, lasciarala fare ciò ch’ella vuole, sì come a te lasciarà ella fare come ti piace. Serra gli occhi per non vedere ciò che nuoce, atturati le orecchie per non udir quel che dispiace. Ridi e piangi quando ella fa il medesimo […] lascia pur dir che bestie son quei mariti che prudenti imprudentemente le lor mogli regolar tentano, le quali son come la febbre quartana che per disordin viene e per disordin si parte…».

(La Trinozzia, Atto terzo, scena II)

Il parassita Apatilo consiglia al vecchio Brondio di assumere un comportamento passivo e tollerante nei confronti della futura moglie poiché, nascendo per disordine della natura, è inutile tentare di regolamentare la condotta muliebre.

Non a caso Ercole Tasso125 nella declamazione contro le nozze, parla di disordine femminile non solo come complessione naturale, ma anche nel comportamento in casa e fuori:

123 G. RAZZI, “La Balia Comedia di Girolamo Razzi”, in Fiorenza, appresso I Giunti, 1560. 124 L. CONTILE, “Commedia del Contile chiamata La Trinozzia”.

62 «Qual nova sposa è di due dì entrata in casa del marito, et non vi voglia ordini novi;

non biasimi li trovati¸non bestemmi il socero, non maledica alla socera; non discordi il marito da’ fratelli; non contenda con le cognate; non isgridi alle fanti; non villaneggi i servi; et cui finalmente non puta ciòche v’è?».

Perciò i misogini non credono al matrimonio come possibile rimedio al caos muliebre perché è soprattutto nella vita coniugale che le donne confermano le irregolarità ad esse connaturate.