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L E CORTIGIANE ONESTE

III. LE NUOVE SFUMATURE DEI PERSONAGGI FEMMINIL

III. 3 L A MADRE DI FAMIGLIA

III.4.2 L E CORTIGIANE ONESTE

Sono molti gli storiografi che nella nuova figura della cortigiana onesta intravedono il simbolo della libertà e della più alta considerazione che la donna inizia ad acquisire nel Cinquecento; così, fra gli altri, scrive Paul Larivaille:

«Si potrebbe [...] affermare senza tema di esagerare che le cortigiane sono coloro che principalmente beneficiano della stretta breccia aperta nei pregiudizi antifemministi e del cambiamento di mentalità che durante il Rinascimento prende l’avvio. Fino a un certo punto, forse, sono perfino le avanguardie dell’emancipazione femminile che si va timidamente delineando».

Ancora, Georgina Masson sostiene che le cortigiane fossero «le antesignane della donna moderna: indipendenti, si guadagnavano da vivere con la loro bellezza e il loro acume, ed erano padrone del loro destino».

Una libertà, dunque, che deriva dall’unire l’utile al dilettevole; la Nanna affronta tale questione con Antonia la prostituta, dichiarando quanto potesse ritenersi fortunata nel ricavare un guadagno dal soddisfacimento dei propri appetiti carnali.

Ma bisogna precisare che non si può ancora parlare di una vera e propria emancipazione bensì di un’indipendenza, peraltro sempre soggetta a minacce.

Inoltre l’esplosione del fenomeno della cortigiana onesta è da molti ritenuta strettamente legata al fiorire della cultura rinascimentale. E in effetti, quasi non vi è opera, dalle raccolte di novelle alle poesie, dai dialoghi ai resoconti di viaggio, in cui non vengano menzionate le cortigiane, segno evidente dell’indubbio protagonismo di queste ultime nella vita culturale e sociale dell’epoca. Perciò è grazie a loro che la donna occupa nella letteratura italiana del Rinascimento, come eroina ma più ancora come autrice, un posto che non trova precedenti nella letteratura.

Quello delle commedie è invece, l’unico genere in cui è raro trovare il tipo della cortigiana onesta: Ardelia nell’Erofilomachia di Sforza degli Oddi rappresenta una delle

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poche cortigiane appartenenti al genere più alto; quest’ultima proclama l’integrità del suo amore e la sua assoluta fedeltà ad Amico, l’uomo amato a cui ha anche donato ingenti somme di denaro per il gioco d’azzardo:

«Ardelia: Ardelia: O Amico, la cagion di questo la sapete pure; ma sempre bisogna che io ve la ridica. Voi dubitaste da principio e poi più volte me l’avete accennato che io sia la meno onesta femmina e la meno generosa cortigiana di Firenze; anzi che non vi sia la più rea e la più sottoposta alle voglie amorose di me….Ma vi rispondo che mi accusate di questo per ricoprire la vostra crudeltà, perciò che questo vi dovrebbe essere un segno che non sono così spessi i miei piaceri, come voi credete, anzi che per l’astinenza ch’io fo con gli altri, mentre sono priva di voi, nasce che come io vi vedo mi viene si gran voglia di abbracciarvi…..e ch’io desideri anzi abbia fisso il chiodo di morire allora quando non sarete più mio…..che tosto che inchinerete il cuore ad abbandonarmi, come fe’ Teseo della sua Arianna nell’isola di Chio, in questa io subito con le mie mani m’ucciderò come fa’ l’infelice Cleopatra […]».

(Erofilomachia, Atto Terzo, scena II)

Tali sentimenti fanno di Ardelia una cortigiana onesta che non pensa solo all’utile del proprio mestiere ma è realmente innamorata del suo amante; allo stesso modo, la cortigiana Aurelia negl’ “Ingiusti sdegni” di Bernardino Pino, appassionata e intellettuale, è innamorata alla follia del giovane Flavio e accesa per l’arte:

«Aurelia: Sarà pur vero che Flavio pigli moglie? […] ahimè egli è tutto scordato di me. Patirò io mai si gran torto, che così m’abbandoni? Sarà egli tanto ingrato, e crudele, che più non mi voglia veder? […] tu lo sai ben Giannotta com’io l’ho sempre esortato ad ubidir al padre, a non lasciar l’hore dello studio, anzi l’ho avvertito, che mi venga a vedere in quell’hore, che per suo piacere gli son concesse.

Giannotta: Madonna voi fate il contrario dell’altre, che non solo non vogliono gli amici letterati, ma hanno in odio chi è amico loro.

Aurelia: Hanno poco in giudizio che non è al mondo la più dolce pratica, che quella de’ letterati, e volesse Dio che tutti quelli che s’innamorano havessino lettere. […] non vedi tu che un letterato ama

142 con giuditio, è fermo nell’amicitia, dà maggior premio che più vale un

dono solo che faccia un tale che quanto si può sperare da certi profumati Ganimedi, da certi furiosi Orlandi […] innamorti di se stessi si danno ad intendere che ognun sia loro rivale. […] Tant’è d’altra natura sono i letterati, che conoscendo a che sbaraglio mettiamo la nostra vita, hann compassion di noi, e ne’ bisogni nostri, pur che possino, non ci mancano».

(Ingiusti sdegni, Atto Terzo, scena IV)

In queste battute Aurelia oltre a confessare il proprio amore per Flavio, elenca tutti i pregi degli uomini letterati che amano con più serietà e mostrano più compassione per il mestiere delle cortigiane che non esitano, per quanto possono, ad aiutarle.

Riprendendo in esame “La Suocera” di Benedetto Varchi, la cortigiana Fulvia può considerarsi a tutti gli effetti una cortigiana onesta in quanto alle parole di Nastasia circa l’inganno del giovane amante, con grande sorpresa ribatte, difendendo Gismondo e raccontando come sia stata proprio lei a prendere la sofferta decisione di chiudere la relazione, subito dopo aver saputo delle nozze con Argentina: per evitare di essere incolpata dal padre o dal suocero di eventuali problemi matrimoniali tra i due giovani sposi e, soprattutto, per preservare l’onore dell’ex amante:

«…ma io per onor suo, non mi parendo più cosa giusta di trattenerlo come prima, e dubitando che non venisse in corruccio con il padre o suocero, e che tutta la broda si rovesciasse addosso a me, non volli mai acconsentirgli».

(La Suocera, Atto Secondo, scena I)

E’ evidente la bontà d’animo della cortigiana, la stessa con cui, alla fine della commedia, si offre per risolvere la difficile situazione, anche se ciò vuol dire affrontare la moglie di Gismondo, sua peggior nemica.

Per tanto una cortigiana onesta non deve possedere solo ricchezze e vivere in una casa lussuosa, bensì deve dimostrare di avere precise caratteristiche morali ed essere appassionata alla cultura e all’arte in generale. Di conseguenza, come suggerisce lo studioso Fortunato Rizzi, anche se la Fausta della Maiana è descritta come «colei che ha l’ordine e i carriaggi come fanno i principi» oppure nei “Lucidi” la signora mostra d’avere «una casa netta, pulita e agiata», nulla ci dà motivo di credere che le due donne siano dotate d’intelligenza, di valori morali e di cultura.

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III.5LA MEZZANA

Il ruolo dell’intermediaria d’amore è di solito ricoperto da una serva che, favorendo i piani della propria padrona, declina al femminile il compito tradizionalmente svolto dal servus currens nel teatro classico.191 Ma nella commedia del Cinquecento accanto alla serva- pinzochera, appare la vecchia ruffiana di mestiere, un vero e proprio tipo comico che possiede sempre le stesse caratteristiche fisiche e morali. Pietro Aretino, nel prologo del suo “Marescalco”, ne presenta un ritratto esemplare:

«Se io fossi una ruffiana, con riverenza parlando, io mi vestirei di bigio, e discinta e scalza con due candele in mano, masticando paternostri, ed infilzando avemarie, dopo l’avere fiutate tutte le chiese, spierei che’ l Messere non fosse in casa, e comparsa a la porta di madonna, la percoterei pian piano, e impetrato udienza, prima che io venissi al quia, le conterei i miei affanni, i miei digiuni e le mie orazioni.

(Il Marescalco, Prologo)

Le prima caratteristica descritta dall’autore riguarda l’associazione con la sfera del sacro difatti, che si tratti di una vera e propria ruffiana di professione, oppure di una serva che svolge occasionalmente il ruolo di “pollastriera”, il personaggio della mezzana è sempre associato ad un oggetto sacro come la corona del rosario o “paternostri”, simbolo di una vita che sebbene corrotta vorrebbe apparire agli altri specchiata. Ciò mette in luce uno dei tratti distintivi del personaggio in questione: l’ipocrisia.

Vincenzo De Amicis scrive che «la mezzana è per solito una falsa divota, una pinzochera che copre con il manto della religione le sue male opere e ragiona di santi e madonne, trattando faccende tutt’altro che oneste»; dichiara, inoltre, che «queste donne formavano quasi una confraternita, avevano proprie regole, portavano un abito di particolare colore scuro bigio, simili forse a quelle che oggi chiamasi monache di casa».192

191 A. SURIANI, Tra modelli antichi ed istanze di modernità, l’innovazione dei personaggi femminili nella commedia del Cinquecento,

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Altre caratteristiche imprescindibili della ruffiana sono la scaltrezza e la sua abilità persuasiva da esperta affabulatrice, elencate sempre nel “Marescalco”:

«[…] e poi con mille novellette rallegratola, le entrerei ne le sue bellezze, chè tutte gongolano ne lo udir lodare i loro begli occhi, le lor belle mani e la lor gentile aria […] e tosto che io l’avessi vinta con l’arme de le sue lodi, sospirando le direi: la vostra grazia ha mal concio il più leggiadro giovane, il più vago ed il più ricco di questa città; ed in tempo le pianterei una letterina in mano, e non mi mancherebbero scuse, cogliendomici il suo marito».

A tale profilo corrisponde perfettamente Mona Verdiana nell’Assiuolo di Giovanni Maria Cecchi:

«una pinzochera bigia che andava per le chiese con una filza lunga di pater nostri, biasciando sempre pissi pissi, una spigolistra picchiapetto che pareva il santusse, che faceva le gite ai martiri ed altre devozioni e con questi mezzi andava tentando nella fede le donne oneste».

L’ipocrisia di Mona Verdiana emerge nel momento in cui sebbene saluti Messer Ambrogio con toni religiosi, «Dio vi dia la sua pace», subito dopo tiene con lui un dialogo pieno di sconci equivoci e oscenità. La doppiezza della ruffiana raggiunge il suo apice quando il vecchio avaro, a ricompensa dei suoi servigi, le offre un paio delle sue pianelle fruste e M. Verdiana giura: «O non poss’ io morir con questo abito santo indosso, se io m’impaccio mai più di vostre cose e, poco dopo, quando M. Ambrogio ha esclamato: «Cazzica!», essa pudicamente lo riprende: «O non bestemmiate!». In quest’ultima scena la bestemmia del vecchio Ambrogio è dettata dai dieci ducati che la pinzochera Verdiana gli chiede per compiere ciò che lui le aveva richiesto ovvero consegnare una lettera alla sua amata Anfrosina.

Negli “Incantesimi” del Cecchi, sono presenti due pinzochere, Barbera ed Ermellina, due donnacce che hanno dedicato gli anni più belli alla lussuria e al piacere e ora tentano di conciliare il pentimento delle colpe antiche con il nuovo ufficio di aiutare turpi pratiche e del favorir adulterii; come dichiara Fortunato Rizzi, non parlano che di Santi e Gesummaria, e giurano pel sacro abito che hanno indosso ma allo stesso tempo ricordano i loro trionfi

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amorosi e, quando l’una racconta che un giovane ha forzato una fanciulla, l’altra, chinando il capo, devotamente mormora: «egli era ordinato in cielo».193

Ma, una delle prime commedie in cui il personaggio della ruffiana assume la sua tipica connotazione è “la Pisana” (1518) dove, Lorenzo Filippo Strozzi fa annunciare dal servo Coletta l’entrata in scena della ruffiana Betta:

«guarda com’ella va divotamente ella par proprio santa Verdiana

co’ paternostri in man, ch’han più reliquie tocche e più santi che non furno mai non ci è feste o perdoni ove costei non corra com’ogn’altra spigolistra».

(La Pisana, Atto Secondo, scena V)

Tali parole richiamano la descrizione che, nella decima novella della quinta giornata, Boccaccio propone all’anziana ruffiana a cui si rivolge l’insoddisfatta moglie di Pietro di Vinciolo:

«una vecchia che pareva pur Santa Verdiana che dà beccare alle serpi, la quale sempre co’ paternostri in mano andava ad ogni perdonanza, né mai d’altro che della vita de’ Santi Padri ragionava e delle piaghe di San Francesco»194.

Un altro testo tramite cui il personaggio della ruffiana ottiene successo si rintraccia nella “Tragicomedia de Calisto y Melibea” di Fernando de Rojas, opera teatrale in ventuno atti, più nota come “Celestina”, dal nome della sua protagonista, una vecchia barbuta, fattucchiera, astuta, sagace in ogni sorta di malvagità che viene così descritta dal servo Parmeno:

«praticava sei mestieri, e cioè: cucitrice, profumiera, maestra nel preparare belletti e rifare verginità, ruffiana e un tantino fattucchiera».195

193 F. RIZZI, pp. 170-171

194 G. BOCCACCIO, “Decameron”, a cura di Amedeo Quondam, Maurizio Fiorilla e Giancarlo Alfano, Milano, Bur Rizzoli, 2013, pp. 930-943.

195 F. ROJAS, “La Celestina”, traduzione italiana di A. Gasparetti, a cura di F. J. Lobera Serrano, Bergamo Rizzoli, 2006.

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Da questa citazione possiamo rilevare un’altra caratteristica che si aggiunge al profilo delle ruffiane ovvero la negromanzia, Celestina è infatti una maga che tenta di favorire l’amore fra Calisto e Melibea ma solo per interessi personali.

Palesemente derivata dal personaggio della Celestina è Artemona, la ruffiana presente ne “I

tre tiranni” di Agostino Ricchi (1530) dal momento che ci viene descritta come una maga

immersa nei suoi strumenti negromantici:

«Vo’ che vi venga un tratto, e che tu veda l’opre belle che fa questa tua arpia. Il collo torto, il volto consumato, quegli occhi lagrimosi accompagnati con l’abito fratino e i paternostri che sempre biascia inganneriano il tempo che inganna ognuno […] Tu vedi prima una casaccia antica fatta al tempo dell’arca; e poi le stanze fantastiche, affummate […] E vedi poi, d’intorno, mille fatte di lambricchi e campane da stillare, bocce di vetro le più contraffatte del mondo, fornaci, stufe, orci, fiaschi, araballi e trabeccoli; per le finestre fiori, erbe e sementi, radici zucche pignatte, laveggi, pignattini e spazierie e altre cose strane».

(I tre tiranni, Atto Primo, scena VI)

Oltre alla classica associazione con il tema sacro (abito fratino e paternostri), il servo Fileno ritrae la casa della maga Artemisia, contraddistinta da stanze fantastiche e ricca di oggetti adatti a praticare arti magiche.

Secondo quanto sottolinea la studiosa Annamaria Suriani, anche nella “Cortigiana” di Aretino troviamo il tema della negromanzia ma declinato ironicamente come appare evidente nell’elenco degli strumenti che la ruffiana Aluigia eredita dalla sua maestra, prossima ad essere arsa sul rogo per stregoneria, e che culmina nella trovata comica dello spirito costretto in un orinale:

«Rosso: Ma che ti lascia se si può dire?

Aluigia: lambicchi da stillare erbe colte a la luna nuova, acque da levar lentigini, unzioni da levar macchie del volto, una ampolla di lagrime d’amanti, olio da risuscitare…, io no’l vorrei dire […] ella mi lascia strettoie da ritirar poppe che pendono, mi lascia il lattovaro da impregnare e da spregnare, mi lascia un fiasco d’orina vergine. […] mi lascia carta non nata, fune d’impiccati a torto, polvere da ucccidere

147 gelosi, incanti di far impazzire, orazioni da far dormire e ricette da far

ringiovanire: mi lascia uno spirito costretto. Rosso: Dove?

Aluigia: In un orinale. Rosso: Ah Ah!

Aluigia: […] in un orinale sì, et è uno spirito fameliario, il quale fa rotrovare i furti; ti dice se la tua amica t’ama o non t’ama, e si chiama il Folletto; e lasciami l’unguento che porta sopra acqua e sopra vento a la noce di Benevento».

(Cortigiana, Atto Secondo, scena VII)

Nell’ “Amor Costante” di Alessandro Piccolomini è evocata, senza mai apparire in scena, monna Bionda, ruffiana, «erbolaia valentissima, stregona, maestra di malie»196.

Dunque, a partire dalla Celestina, il personaggio della ruffiana assume l’ulteriore connotazione di erbolaia e maga, un elemento che rinnova il modello della tradizione novellistica proveniente da Boccaccio.

Se nelle commedie erudite il personaggio della ruffiana è quasi sempre un personaggio secondario, dagli anni trenta del secolo diventa invece protagonista assoluta di due opere dialogiche appartenenti al filone della trattatistica rinascimentale e comportamentale. Non a caso si tratta di due testi scritti da due autori di commedie: la terza giornata del “Dialogo” di Pietro Aretino (1536) e il “Dialogo della bella creanza de le

donne” ovvero “la Raffaella” di Alessandro Piccolomini, edito nel 1539.

Nell’opera di Aretino la ruffiana Nanna insegna alla figliuola Pippa l’arte puttanesca per tanto costituisce un vero e proprio manuale teorico dell’arte del ruffianesimo; qui la comare Nanna diventa il simbolo dell’astuzia, dell’ipocrisia, della capacità d’ingannare, tutte doti che permettono alla ruffiana non solo di sopravvivere, ma di prosperare e muoversi nel mondo che la circonda da vera dominatrice:

«Dimandale come stà il cielo, lo sa coaì bene come il Garico strologo; e lo abisso suo: e sa quante legne vanno a far bollire le caldaie dove si lessano le anime dei monsignori, e quanti carboni si lograno ad arostire quelle dei signori, no per altro che per esser messer Satanasso suo compare. La luna non iscema e non cresce mai senza saputa de la

196 A. PICCOLOMINI, “L’Amor costante”, in Commedie del Cinquecento, a cura di N. Borsellino, vol. I, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 316.

148 ruffiana, e il sole non si leva e non colca senza licenzia che la ruffiana;

e i battesimi, le cresime, le nozze, i parti, i mortori e le vedovanze sono al comando de la ruffiana: e non accade mai una di cotali cose, che la ruffiana non ci abbia un poco di attacco197».

Nelle commedie, numerose sono le scene in cui le ruffiane istruiscono le cortigiane nell’arte del meretricio, si veda per esempio la ruffiana Nastasia che ne “La Suocera” di Benedetto Varchi mette in guardia la cortigiana Filotide dall’eccessiva bontà nei confronti degli uomini:

«Nastasia: Naffe, io t’ho detto mille volte, Fulvia, che tu non abbi né misericordia né discrezione di nessuno, e che tu tragghi da tutti e in tutti i modi tutto quello che tu puoi, se tu dovessi ben cavarne un puntal di stringa, guarda un poco come fan le altre, […] che pelano, anzi scorticano, chiunque capiti loro alle mani».

(La Suocera, Atto Secondo, scena I)

Significativo è anche il dialogo tra la ruffiana Santina e la meretrice Polissena nell’Hermafrodito di Girolamo Parabosco:

«Polissena: La moltitudine de gli amanti mette adunque in riputatione una cortigiana.

Santina: Ben sai, ancho un uomo solo è sufficiente a metterla in credito ma bisogna che questo tale sia huomo onorevole e grande […] tu che non hai così gran signore, e poni cura a spennacchiare questi pochi uccelletti ch’abbiamo sotto la rete: che si suol dire che molti pochi fanno uno assai, intendi?».

(L’Hermafrodito, Atto II, scena I)

Santina spiega alla figlia che per una cortigiana è importante avere tanti amanti oppure un solo amante ai livelli però di un duca, conte o marchese; infine allo stesso modo di

Nastasia, Santina consiglia alla figlia di sfruttare il più possibile tutti gli amanti, qualsiasi sia la loro età o condizione sociale.

Nell’opera di Piccolomini, già più volte citata, si assiste all’azione persuasiva che la vecchia Raffaella esercita sulla giovane Margherita, consigliandole di soddisfare sempre i

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propri piaceri anche al di fuori del matrimonio e fornendole indicazioni dettagliate circa la cura del corpo e le tecniche di seduzione. In una commedia di Piccolomini intitolata “L’Alessandro”, incontriamo un’allieva della ruffiana Raffaella ovvero Nicoletta:

«[…] se donna mai s’intese di questo, e fu dotta nello svolgere una gentildonna a fare qualcosetta, io son dessa; […] Che monna Nanna? Che monna Bonda? Vo’ che sieno impiccate per la gola, io vo’ far più frutto in un’ora ch’elle non farebbero in quattr’anni. Io so tutti i buchi, e tutte le chiavicchie di queste donne […] E vi dico di più ch’io sono allevata da quella buona memoria di monna Raffaella, che sapete che donna ch’ell’era in quest’arte, che se ne leggono in fino i libri dei casi suoi».

(L’Alessandro, Atto Secondo, scena I)

Nicoletta, nel mediare l’amore tra Fortunio e Lampridia, si dimostra una ruffiana di prim’ordine, discepola della famosa Raffaella, grande conoscitrice dei diversi umori e capricci femminili e accorta iniziatrice di altre donne al suo stesso mestiere.