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L A DOTE : UN OSTACOLO AL MATRIMONIO

II. IL MATRIMONIO CORRETTIVO

II.2 L A DOTE : UN OSTACOLO AL MATRIMONIO

Secondo quanto precedentemente accennato, il sistema dotale costituisce il fattore primario che complica l’intreccio delle commedie moderne perché corrisponde all’ostacolo principale che i due giovani innamorati devono superare per potersi, finalmente, sposare.

Difatti i padri, non preoccupandosi affatto delle caratteristiche delle future nuore, s’interessano esclusivamente alla somma di denaro offerta dalle doti delle fanciulle; quest’ultime, a loro volta, sono penalizzate da padri avari che, pur di non spendere le proprie ricchezze nelle doti delle figlie, prendono decisioni drastiche causando la loro infelicità. La centralità del sistema dotale è dimostrata da una delle prime commedie di Giovanni Maria Cecchi che s’intitola, appunto, “La Dote”87, già citata nel paragrafo precedente e di cui vorrei

porre in evidenza il Prologo:

« […] E’ vogliono or darvi la dota, e serbano in altro tempo a darvi poi la Moglie, imitando, e in questo accomodandosi al tempo d’oggi, che sempre si nomina, quando e’ si tratta qualche matrimonio la dota prima; e qui e dove nascano tutte le liti; questo capo sconcia, e acconcia oggi il tutto: nulla montano l’altre cose, le qual cercar si debbono; come è la qualità di quella che esserti dee moglie, chi fu’ l padre, s’ell’è simile alla madre, con chi sia allevatasi, e che costumi sieno i suoi; sono favole queste, son cose che oggidì si acconciano con due parole. Sia la dote comoda; che l’altre cose non così si stimano che co’ danar compensar non si possino […]».

(La Dote, Prologo)

Come si evince da questo frammento di testo, siamo in un periodo storico in cui, laddove si affronta un matrimonio, gli uomini pensano esclusivamente alla dote che subito diventa oggetto di discussione, facendo passare in secondo piano tutte le altre informazioni che si dovrebbero sapere sulla futura moglie (chi sono i suoi genitori, in che modo è stata allevata, quali sono le sue qualità e i suoi costumi).

Per tanto Cecchi, imitando le contemporanee consuetudini matrimoniali, pubblica prima “La

Dote” e successivamente, nel 1585, “La Moglie”88, anticipata anch’essa da un Prologo

significativo:

87 G. M. CECCHI, “Commedie di Giovanni Maria Cecchi”, p. 155. 88 G. M. CECCHI, “Commedie di Giovanni Maria Cecchi”, p. 223.

43 «E lo sperar di contentarvi è posto tutto ne’l non vi haver punto per miseri, miseri dico

o avari, come certi che vivono, e si fanno chiamar huomini. Come che d’huomo non habbino altro che la presenza e’l nudo nome, le quali bestie (credendo non vivere sino alla morte) cercan solo la dote senza curar che segua della Moglie e dove della dote non si veggano pieni, son della Moglie così stucchi. Non è ella sì tosto entrata in casa, che volentieri a qualunque altra merce la cambiereno e la darieno in presto, in vendita, in baratto, e in tutti i modi […]».

(La Moglie, Prologo)

Qui l’autore si scaglia contro gli uomini che sono attratti soltanto dalla dote, soprannominandoli ‘bestie’ poiché trattano le loro mogli come se fossero delle merci di cui potersi disfare in qualsiasi modo. Del resto, consultando l’edizione de “La Dote”89

pubblicata nel 1585 a Venezia, ho riscontrato un ampliamento del Prologo dove si dichiara quanto la stessa pratica del prender moglie si sia trasformata in una forma di mercanzia che permette, tramite il sistema dotale, un notevole arricchimento:

«Quando a Firenze si stimava più il parentado che la dote, mai si ragionava di Dote, perché e’ si sapeva quel che usava dare quella casa di dote, e si sarebbe vergognato uno a chiedere più tantino; ma ora che o il bisogno o l’avarizia hanno introdotto che e’ si fa del torre moglie più mercanzia, e più si tira e più si stiracchia che a far mercato di qual si voglia altra merce, ci bisogna trovar prima la dote […]». (La Dote, Prologo)

Ma per poter comprendere maggiormente queste dinamiche, è necessario fornire una spiegazione precisa circa il funzionamento del mercato matrimoniale e, in particolare, del sistema dotale.

Durante tutto il Cinquecento il matrimonio costituisce una nuova forma d’investimento, un vero e proprio affare economico che avviene per mezzo di un contratto stipulato tra due famiglie per interessi economici e sociali, in quanto è finalizzato al mantenimento e al miglioramento del patrimonio e dell’onore famigliare90.

Tutto ciò è possibile grazie alla dote, ossia quella porzione di eredità paterna che una figlia riceve al momento delle nozze, durante le quali viene consegnata dal padre della sposa al padre dello sposo che s’impegna, per il figlio, di farla fruttare e di non decurtarla.

89 G. M. CECCHI, “Commedie di M. GianMaria Cecchi fiorentino”, Venezia, presso Bernardo Giunti, libro I, 1585, p. 3.

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Una parte della dote è composta dal corredo ossia da beni materiali, descritti nella lista allegata al contratto matrimoniale, che la famiglia del futuro sposo deve valutare dal punto di vista economico e, successivamente, fissare una cessione in un atto notarile.

Non a caso Giovanni Maria Cecchi per fare in modo che la sua “Moglie” «non sia tenuta da poca […] e acciò che la possa andare al par dell’altre», pubblica nello stesso anno un’altra commedia intitolandola “Il Corredo”91 che, come dichiara il relativo Prologo, è tanto

desiderato dalla donne poiché consiste soprattutto in biancheria per la sposa e per la casa:

«O’ come piaccion loro quando le veggano que’ bei lavori tanto larghi a pie di quei grembiuli? O su quelli spallini? O su trincianti? o su gale? o ventagli? E ce ne sono di quelle, e più di sette, che ne vogliono ancor nel letto e massime alle lenzuola da parto, e alle federe e alle scuffie […]».

(Il Corredo, Prologo)

Invece, l’altra parte della dote è costituita dal denaro assegnato, all’atto delle nozze, dagli intestatari del patrimonio (padre e fratelli della sposa) allo sposo che a ciò contraccambia, concedendo alla sposa l’usufrutto di una sola porzione (un quarto) dei suoi beni.

La dote è quindi l’impegno più autentico del vincolo matrimoniale che qualifica in modo indiscutibile il matrimonio come un atto economico in cui la donna non rappresenta altro che il tramite preferenziale per la circolazione di ricchezza o, meglio ancora, la ‘mercanzia’ ceduta da un gruppo famigliare all’altro.

Tuttavia, se per la famiglia dello sposo il sistema dotale rappresenta una fonte di ricchezza, per la famiglia della sposa significa perdere una parte del patrimonio e, in certi casi, addirittura indebitarsi, specialmente in seguito all’aumento esorbitante del valore delle doti matrimoniali.

Tutte problematiche, queste, che i commediografi cinquecenteschi trasferiscono abilmente nei testi teatrali, portando in scena genitori avari ed egoisti che intralciano gli amori dei figli. Lorenzino De’ Medici ne “L’Aridosia”92 apre il primo atto con un dialogo tra Marcantonio

e la moglie Lucrezia circa il comportamento errato di Aridosio, fratello di Marcantonio, nei confronti della figlia Cassandra:

91 G. M. CECCHI, “Il Corredo, commedia di GianMaria Cecchi fiorentino”, libro I, vol. III, 1585, pp. 2-3. 92 L. DE’ MEDICI, “L’Aridosia commedia di Lorenzino De’ Medici”, Trieste, dalla sezione letterario-artistica del LLoyd Austriaco, 1858, pp. 8-9.

45 «Marcantonio: così vivono tutti malcontenti, infino a quella povera figliuola, la quale è

già grande da marito, che è disperata, perchè per non si avere il padre a cavare di mano la dote, non le vuol dar marito, e trovasi contanti in un borsotto due mila ducati, li quali porta sempre seco, e ha una cura estrema, che io non gli vegga, perchè non fo mai altro che sgridarlo, che lascia invecchiarsi in casa la mia nipote; egli mi risponde che è povero, e che non le può dar la dote […]».

(L’Aridosia, Atto primo, scena I)

In questa battuta Marcantonio è contrariato dalla decisione del fratello di non far sposare Cassandra in quanto determinata solo dalla volontà di tener per sé i duemila ducati, piuttosto che investirli nella dote della figlia. La profonda avarizia che contraddistingue Aridosio è ribadita anche da Cesare, il giovane che, innamoratosi di Cassandra, intende sposarla anche a costo di dover affrontare tutti i vizi del suocero:

«Egli avaro, invidioso, ipocrito, superbo, dappoco, bugiardo, ladro, senza fede, senza vergogna, senza amore, e insomma è un mostro ingenerato da’ vizj e dalla sciocchezza; la mia sorte ha voluto ch’io abbia ad esser sottoposto a tanto male, nè mi manchi, perchè quattro anni sono ch’io incominciai a voler bene a Cassandra sua figliuola, non pensando però che questo nostro amore avesse ad avere sì tristo effetto; ma andando crescendo, come fanno tutti gli amori ben collocati, mi condusse a tal grado, che poco più accender mi potrà di quel ch’io era, rendendomi pur ella del continuo il cambio […] essendo venuto a termine, che viver più senza lei non poteva, nè trovando via più facile a soddisfare il desiderio mio, pensai di addimandarla per moglie […]».

(L’Aridosia, Atto secondo, scena I)

Presto però Cesare deve fare i conti anche con l’avidità di suo padre in quanto, dopo aver saputo che Cassandra è sprovvista di dote, gli proibisce rigorosamente di sposarla, esigendo dalla futura nuora almeno mille ducati d’oro:

«[…] conferito la cosa con mio padre, lodò il parentado per ogni altro conto, che per il suocero; ma considerando la voglia ch’io n’avea, e l’altre tutte buone parti, deliberò farne parlare a persone d’autorità con Aridosio, […] e parlato seco, s’ebbe risposta, che il parentado gli piaceva: ma che era povero, e che non aveva il modo a dar una dote conveniente alla sua figliuola e a me: questa che in sul principio mi pareva buona, mi diventò col tempo cattivissima infra le mani, perchè io cerco lei, e non la dote, e lei ignuda, non che senza dote, mi bastava: ma mio padre mi comandò, che senza mille

46 ducati d’oro mai concludessi il parentado, o facessi conto di non capitarli più innanzi

[…]».

(L’Aridosia, Atto secondo, scena I)

Perciò Cesare pensa di risolvere da sé tali complicazioni, rubando la borsa contente i duemila ducati d’oro che il vecchio Aridosio aveva precedentemente nascosto, in modo da costringerlo a confessare la sua ricchezza; infine, Cesare restituisce i soldi ad Aridosio e, grazie all’aiuto di Marcantonio, può finalmente sposare Cassandra.

La medesima situazione si verifica ne “La Sporta”93 di Giovambattista Gelli così intitolata

perché fa riferimento alla sporta di denari trovata e custodita gelosamente dal vecchio Ghirigoro de’ Macci, anch’esso avaro a tal punto da non voler maritare la figlia Fiammetta:

«Comare perché voi non habbiate più a infraccidarmi, e tormi sempre il capo con una cosa medesima, io vi dico per ultimo, che se voi trovate uno che voglia moglie, e non dota io gliela darò; quanto che no stiasi pure in casa, che Domenedio gli mandi qualche ventura».

(La Sporta, Atto primo, scena III)

Nella citazione appena riportata Ghirigorio detta l’unica condizione per cui sarebbe disposto a far sposare Fiammetta, ossia un pretendente che non richieda una dote; ma la comare Laldomine cerca insistentemente di convincere Ghirigorio a offrire una dote alla figlia perché soltanto così la madre di Alamanno, approverebbe le nozze del figlio con l’amata Fiammetta, ormai prossima al parto. Il vecchio Ghirigorio non cambia idea e di conseguenza Alamanno escogita un piano insieme al servo Franzino: ruberà la sporta per impiegarla come dote necessaria alle nozze finali con la sua Fiammetta.

Dagli esempi appena riportati è evidente che l’amore è spesso frenato da questioni economiche che i giovani innamorati cercano in tutti i modi di risolvere dando vita all’intreccio della favola.

93 G. B. GELLI, Delle opere di Giovan Battista Gelli, La Sporta commedia. Lo Errore, Milano, Della società tipografica de’classici italiani, 1807,

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In altre commedie però la trama si complica perché, oltre alla dote negata, i genitori segnano il destino delle figlie, costringendole a farsi monache oppure a sposare uomini molto più grandi di loro.

Il primo caso si riscontra ne “I Rivali”94 di Cecchi dove il vecchio Anselmo sceglie di

mandare la figlia Lucrezia in monastero:

«Anselmo. E perché io desidero, prima ch’i muoia, d’allogarla, ho l’animo fermo di farla, e quanto prima, monaca.

Valerio. Oh! Gli è pur troppo danno che una giovane si bella e sì gentil s’abbia a rinchiudere senza sua voglia, anzi contro al suo animo; colpa del non aver la dote, che usasi oggidì in questo mondo furfantissimo.

Anselmo. Oggidì, figliuol mio, poco ci vagliano bellezza e nobiltade, e men si stiman le bontadi o virtù: chi più ci annovera, quella è più buona, più bella e più nobile. Valerio. Maledetta avarizia!»

(I Rivali, Atto primo, scena I)

Significative le parole del vecchio Anselmo perché confermano quanto le virtù non contino più nulla in un mondo dove solo chi offre maggior dote è stimata bella, buona e nobile. Nella scena seguente, il giovane Valerio insieme al famiglio Norchio rivelano che la decisione di Anselmo è dettata dall’avarizia e non dalla reale mancanza di denaro:

«Valerio. Si ch’egli è tanto rigido!

Norchio. Dite taccagno, gaglioffo e di canchero.

Valerio. E di che sorta! Poi che vuol far monaca, per darle poca dote, una figliuola, bella quanto è il sole […]».

(I Rivali, Atto primo, scena II)

In questa battuta Valerio lamenta il triste destino della sua amata Lucrezia, costretta a farsi monaca perché il padre intende offrirle una dote ridotta.

Ciò riflette la realtà contemporanea perché, nel XVI secolo, collocare una figlia in monastero era meno esoso per le finanze di una famiglia dal momento che le doti monacali erano più economiche rispetto a quelle matrimoniali.

94 G. M. CECCHI, “Commedie di Giovammaria Cecchi, notaio fiorentino del secolo XVI”, a cura di Gaetano Milanesi, Firenze, Felice Le Monnier, 1856, pp. 183-184.

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Questa è la causa principale delle monacazioni forzate che, con il passare del tempo, ha provocato alcune ribellioni femminili, prima fra tutte, quella di Arcangela Tarabotti, monaca forzata e pensatrice politica veneziana che, nelle sue opere, denuncia i padri di famiglia poiché costringono le loro figlie ad effettuare scelte di vita per le quali esse non nutrono alcuna inclinazione95.

Ne “La semplicità ingannata” Arcangela descrive così la condizione delle monache forzate:

«Lo stesso succede alle monache, le quali senza aver mai commesso verun mancamento (se non è colpa l’esser soverchiamente modeste e innocenti) tradite, quasi si può dir dormendo, da’ suoi genitori e parenti, vengono imprigionate; le quali poi svegliatesi, e venute in cognizion degl’inganni, […] disperate di non trovar scampo, vivono morendo, se pur vivono, agittate da mille furie e inquietudini, col corpo intralciato negl’abiti e l’anima prona per cadere nei precipizii dell’Inferno».96

Perciò l’autrice accusa i padri denominandoli «spietatissime belve», «moderni Giuda», traditori delle proprie figlie che si servono dell’istituto delle monacazioni forzate per tutelare i propri interessi; nell’ultimo capitolo della sua opera, scrive:

«Ma tu con violenze, insulti e minacie, vuoi legare i corpi di quelle che nacquero libere, col […] confinarle per sempre in un sito, crucciar l’anime loro, e disponer della volontà di quelle, che non meno di te possedono le prerogative del libero arbitrio, che non può loro esser tolto se non dalla morte, e tu pur le condanni in un vivo inferno, tormentandole e astringendole con obbligazioni così inviolabili e spietate che fariano pianger un sasso di compassione».97

Il nucleo centrale del pensiero tarabottiano è quindi il diritto di esercitare il libero arbitrio e seguire la propria vocazione, sia per quelle donne che spontaneamente decidono di abbracciare la vita religiosa, sia per quelle che meglio si adatterebbero ad un matrimonio terreno o al nubilato in famiglia.

95 S. MANTIONI, “Monacazioni forzate e forme di resistenza al patriarcalismo nella Venezia della

Controriforma”, Roma, facoltà di Geografia e Stroria, a. a. 2011-2013, pp. 115-120.

96 A. TARABOTTI, “La semplicità ingannata”, (a cura di Simona Bortot). Edizione critica e commentata, Il Poligrafo, Padova, 2007, pp. 235-237.

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Bisogna precisare però, che quello di Tarabotti non è affatto un attacco all’istituto monastico, ma alla violenza esercitata sulle figlie che, come lei, erano state costrette a varcare la soglia del chiostro contro la loro volontà.

Tornando alle nostre commedie, anche Benedetto Varchi ne “La Suocera”98 presenta un caso

di monacazione forzata che riguarda la fanciulla Agnoletta, destinata alla monacazione dal padre Guasparri per mancanza di dote; in questo caso a protestare è l’amante di Agnoletta, Fabrizio, che sfoga la sua frustrazione condannando la chiusura in convento di giovani donne contro il loro volere:

«Oh quante usanze cattive appruovano gli uomini per buone! Io non dico che delle fanciulle non se ne debbano far monache; ma dico bene, che tra tutte l’empietà, quella mi par grandissima, quando si fanno monache o contra lor voglia, o per non aver a dar loro dote. Quanti effetti cattivi cesserebbero, quanti ne nascerebbero de’ buoni, se in questa cosa del dar moglie e pigliarla s’usasse prudenza!».

(La Suocera, Atto primo, scena II)

Per quanto riguarda invece i matrimoni combinati fra giovani fanciulle e uomini anziani, si distinguono due commedie di Anton Francesco Grazzini, “La Sibilla”99 e “La Gelosia”100 perché, in entrambi i casi, i padri Michelozzo e Giovacchino scelgono per le figlie Sibilla e Cassandra mariti vecchi, pur di non dotarle o per tornaconti personali.

Infatti Michelozzo si rifiuta di far sposare il figlio Alessandro con la giovane Sibilla (da lui adottata) perché questa potrebbe offrirgli solo cinquecento ducati d’oro mentre lui potrebbe averne tremila sposando una fra le più belle e nobili cittadine di Firenze. Di conseguenza vuol far sposare Sibilla con il vecchio Giansimone per i propri interessi: la sposerebbe senza dote e, nel caso morisse prima di lei, gli spetterebbe una sopradote di duemila ducati d’oro. Alla fine tutto si risolve con l’arrivo di Diego, vero padre di Sibilla, che acconsente alle nozze con Alessandro.

Ne “La Gelosia” il giovane Filippo critica così la scelta di Giovacchino di dare in sposa Cassandra al vecchio Lazzaro piuttosto che al giovane Pietrantonio:

«Oh insaziabil sete! Può egli esser però che Giovacchino maritar contenta una sua legittima figliuola, per non ispendere, a un vecchio contraffatto; quando con dote

98 B. VARCHI, “La Suocera”, Trieste, (ed. della sez. letterario-artistica del Lloyd austriaco), 1858. 99 A. F. GRAZZINI, Commedie, pp. 225-285.

50 ragionevole a un giovane qualificato, gentile, onesto, di nobil sangue e benestante anco

maritar la potrebbe? Vedi ingorda cupidità de’ mortali! Più tosto contente affogarla, sotterarla in tutto. Povera figliuola, povere e misere tutte le altre destinate a nascere da padri simili!».

(La Gelosia, Atto primo, scena II)

In soccorso dei due amanti intervengono Alfonso, fratello di Cassandra e il servo Ciullo, facendo credere a Lazzaro che Cassandra lo tradisce ancor prima di sposarlo; in questo modo Lazzaro rinuncia alle nozze con la fanciulla, rendendole possibile il matrimonio con Pietrantonio.

In ultima istanza, vorrei esaminare “La Cecca”101 di Girolamo Razzi, una commedia degna

di attenzione in quanto offre una testimonianza rilevante circa un fenomeno sociale in costante crescita durante quest’epoca storica, l’indebitamento per dote:

«[…] che vorresti tu ch’io facessi come molti altri della nostra città, i quali per poveri che sieno se pigliam moglie, o maritano figliuole, o sorelle, fanno robe, e più cose, che s’elle fussero contesse e in capo a l’anno i più l’hanno vendute o impegnate per pagare i debiti, o comprarne di che vivere o gli sono state levate da birri? Sarebbe molto meglio far manco cose e far capitale delle doti e de guadagni».

(La Cecca, Atto quarto, scena I)

Con tali parole Bonifacio comunica alla moglie Lisabetta di aver concesso in sposa la figlia Emilia al figlio di Giannozzo di Chinsica: anche se quest’ultimo non è il migliore dei pretendenti, l’accordo è conveniente perché solo in tal modo può evitare d’incorrere in quell’errore commesso da molti padri che, seppur poveri, sposano le loro figlie come se fossero contesse, arrivando a indebitarsi gravemente.

In effetti, nel XVI secolo, le famiglie per dotare le figlie femmine prossime alle nozze, contraggono pesanti debiti in seguito all’aumento esagerato delle doti matrimoniali; ciò trova la sua spiegazione nel declino delle attività mercantili che, come ho già sottolineato all’inizio di questo paragrafo, ha fatto sì che il matrimonio si mutasse in una nuova forma d’investimento ossia un mezzo di ascesa sociale da perseguire con alleanze politiche.

101 G. RAZZI, La Cecca comedia, pp. 27-30.

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Secondo quanto osserva la studiosa Elisabetta De Anna ne “I matrimoni segreti nella

Venezia del ‘600”102, l’aumento dell’inflazione dotale emerge nelle legislazioni delle città

italiane già nel medioevo, ma è in età moderna che il fenomeno inizia a costituire un grande