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Rivista di storia economica. A.03 (1938) n.3, Settembre

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diletta da Huiqi Einaudi

Direzione: Via Lamarmora, 60 - Torino. Amministrazione: Giulio Einaudi editore, Via Arcivescovado, 7 - Torino — Abbonamento annuo per l'Italia L. 40. Estero l. 50. Un numero L. 12.

Anno III - Numero 3 - Settembre 1938 - XVI

Mario Lamberti: Il contenuto essenziale della teoria

del valore di R i c a r d o ... Pag. 185 Fronz Oppenheimer: Lo teoria obieiiivo del valore

e la scuola di Carey, con avvertenza preliminare

di Renzo F u b i n i ... » 193 Vincenzo Ricchioni: Un pioniere «forestiero» del ri­

sorgimento m erid io n a le ... » 211 Luigi Einaudi: L'ufficio delle premesse teoriche nell'in­

dagine storica, con alcune riflessioni sulle cause

della decadenza della S p a g n a ... » 241

N O T E E RASSEG N E:

Luigi Einaudi : Sul progresso dell' insegnamento eco­

nomico e sui lavori co llettivi... » 264

REC EN SIO N I :

Antonio Rainoni : su libri di P. M . Arcari, A. Del V ec­

chio Veneziani, N . Narducci, M. Marchetti . . » 272

TRA RIVISTE ED A R C H IV I:

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* Mario Lamberti saggia la verità della interpretazione corrente della

teoria del valore di Ricardo, secondo la quale essa non sarebbe altro che una teoria del costo di produzione, avente la particolarità di considerare il lavoro come unico elemento di esso. Una accurata penetrante analisi del pensiero ricardiano consente all’A. di affermare che la teoria deI valore in Ricardo si fonda su una concezione complessa dei rapporti tra le merci, men­ tre la quantità di lavoro è intesa come astrazione rappresentante la produt­ tività media della comunità, intorno a cui si graduano i vari tipi di lavoro effettivo.

Franz Oppenheimer è un solitario, venuto all’economia dalla medicina;

autore di ponderosi volumi, nei quali, riallacciandosi a Carey ed a Diih- ring, mira alla determinazione del prezzo naturale o statico sulla base de! concetto del costo di riproduzione. £ interessante in lui lo sforzo di stu­ diare come le forze extraeconomiche derivanti dalle istituzioni sociali e politiche e della legislazione modifichino le ipotesi astratte postulate dagli economisti. Interessante altresì il parallelo che Renzo Rubini, il quale voltò in italiano lo scritto dell’Oppenheimer, istituisce fra la teoria de! costo di riproduzione del Carey e quella de! nostro grande Ferrara.

L’on. prof. Vincenzo Ricchioni ci trasporta ne! campo della storia dei fatti collo studio su Pietro Ravanas, pioniere de! risorgimento oleario pugliese al principio del secolo passato. Lo studio de! Ricchioni addita la via allo studio di uno tra i fatti piti interessanti delta storia economica, come di altre storie: l’azione di fermento eccitatore che in un ambiente stagnante, talvolta regressivo può esercitare il « forasfiero ». Nel caso stu­ diato, il forestiero era un francese, che rinnovò tra il 1820 ed il 1840 l’industria dell’olio nelle Puglie ed i pugliesi acclamarono benemerito; ma potrebbe essere il milanese nella campagna romana, il romagnolo a Milano, il meridionale nell’Alta Italia. Il « forestiero » vede uomini ed istituzioni con occhio diverso da quello dell’uomo del luogo; e più facilmente modi­ fica ed innova. 1 forestieri hanno esercitato sulla storia economica italiana una influenza non abbastanza studiata e degna di essere messa in luce

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adeguata.

(3)

conoscere taluni scritti rilevanti sulla storia della moneta e dei prezzi, ina altresì di discutere due problemi. Il primo relativo al metodo ed ai limiti dell’indagine storica su quegli argomenti, additando, tra lo scetticismo degli storici e l’entusiasmo degli statistici, le condizioni per il fecondo sfrutta­ mento dei dati storici sui prezzi. Il secondo tocca il quesito, così grave anche per la storia italiana: (¡itali furono le ragioni della decadenza della Spagna? In libri recenti, Benedetto Croce e Fausto Nicolini sono giusta­ mente insorti contro le sentenze di condanna pronunciate dai Verri e dai Manzoni contro il dominio spaglinolo in Italia. Gli studi recenti sulla storia dei prezzi in Spagna consentono di porre il quesito: il malgoverno spaglinolo derivò dai mediocri venuti dopo o dai grandi sovrani, Carlo V c Filippo li, i quali, volendo governare soli, disfecero le forze locati auto­ nome le quali, in tempi di decadenza della classe dirigente centrale, avreb­ bero potuto salvare qualcosa? Fino a che punto il disfacimento delle energie locati giunse in Italia?

Seguono una rassegna intorno al progresso dell’insegnamento econo­ mico di L. E.; alcune recensioni di A. R.; quindi nella rubrica Tra riviste ed

archivi Gino Luzzatto rende conto dei contributi alla storia economica in­

(4)

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LUIGI SALVATORELLI

S O M M A R I O

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S T O R I A DfI T A L I A

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OPERE, CHE RIM A N GO N O FONDAMENTALI NELLA

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D A N I E L D E F O E

FORTUNE E SFORTUNE

DELLA FAMOSA

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Traduzione di Cesare Pavese '

Un volume di pp. IX-294 - L. 15

« Più che nelle trattazioni di teoria, volte, sì, all’interpretazione della realtà anche più modesta, ma intessute all’uopo di schemi astratti; più che nelle opere di storia, intese, è vero, alla concreta conoscenza di grandi accadi­

menti, è dato trovare rappresentazioni della quotidiana psicologia econo­

mica ricche di verità e vivezza, e per ciò istruttive altresì per teorici e storici, in talune pagine della letteratura narrativa ». Queste parole di Mario de

Bernardi, pubblicate nello scorso numero di questa Rivista, sono applicabili a molte pagine dello stupendo romanzo di Defoe, dove i più svariati aspetti della vita inglese alla fine del Seicento sono delineati con cruda energia.

(9)

Il contenuto essenziale della teoria del

valore di Ricardo.

1. — Questa breve nota vuole essere un contributo alla determina­ zione di quale sia l'elemento fondamentale nella teoria del valore di Ri­ cardo. Tralascierò così ogni tentativo di indagine sull’importanza di questa teoria del valore, e su quale sia il problema centrale della concezione eco­ nomica di Ricardo. Se, cioè, la teoria della distribuzione sia veramente « il principale problema dell’economia politica » come Ricardo affermò nella prefazione ai « Principles >> ; e se, come ebbe egli stesso a scrivere a Me Culloch, la teoria del valore non è che di secondaria importanza per spiegare « la rendita, i salari e i profitti » (l). È certo in ogni modo che la teoria del valore è stata considerata centrale ed essenziale al pensiero di Ricardo da quasi tutti gli scrittori che gli sono succeduti, e non solo dai discepoli ortodossi; da Ferrara, che cercando di sostituire un «costo di riproduzione » al cosidetto costo di produzione e alla concezione di un prodotto netto, credeva di potere affermare « e con essi sparirà Ricardo, il suo libro, e la sua gloria » (2), a Marshall che temprava la sua pietà ricardiana cercando di dimostrare, per ripetere le parole di Cannan, « a dispetto della più aperta evidenza che Ricardo non aveva mai deside­ rato di sostenere una teoria del puro costo di lavoro » (3).

La domanda principale da porsi sarà dunque che cosa in realtà fosse

(1) Lellers lo Me Culloch, p. 72.

(2) Biblioteca dell'Bconomista, Serie I, Voi. 11, p. LIII. • (3) Cannan, A Review of Economie Theory, p. 177.

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la teoria del valore in Ricardo, e se veramente essa non sia che una teoria del costo di produzione, avente la particolarità di considerare il lavoro come unico elemento di esso (non essendo il capitale altro che « lavoro accumulato ») (4) (p. 383-23) così che le teorie posteriori del corso di pro­ duzione (e quella stessa ferrariana del costo di riproduzione) non sareb­ bero che un miglioramento della teoria di Ricardo, e non ovvierebbero al fondamentale difetto di non tenere in considerazione la domanda, ed, in generale, a quello di estremo semplicismo.

Questa è, io credo, la interpretazione comune; quella a cui giunge Cannan, che pure aveva precedentemente ricostruito e criticato con esat­ tezza il pensiero di Ricardo : « noi, possiamo ora vedere chiaramente che la sola verità in questa teoria è che la quantità di lavoro richiesto a pro­ durre un bene è spesso una delle molte cause che influenzano l’offeita e quindi il valore di quel bene » (5).

Similmente per Jannacone, nel suo classico libro, Ricardo, dopo aver tentato di « fare apparire il lavoro come elemento primo, irriducibile », sarà costretto « a riconoscere al costo una maggiore complessità », così che « l'evoluzione della teoria sta nel portare alla luce ora l’uno ora l’altro degli elementi che in Ricardo avevano un posto secondario » (6).

Questa interpretazione, sovratutto, era nella coscienza degli econo­ misti venuti dopo Ricardo, richiamandosi a lui tutti i perfezionatori della teoria del costo di produzione, da Stuart Mili a Marshall, e opponendo- glisi tutti gli innovatori, come Jevons.

Il solo Schumpeter, forse, decisamente afferma che la teoria di Ricardo

non è una teoria del costo di produzione, e che anzi Ricardo è stato con­

dotto alla sua analisi, per cui la quantità di lavoro è la regolatrice, non la causa del valore, dalla insufficienza appunto di una teoria del costo di produzione (7). La interpretazione però di Schumpeter verrà ad acquistare un valore ben più decisivo, se noi pensiamo che già Marx aveva fondato la sua teoria sulla base ricardiana della quantità e non del valore di lavoro, insistendo sul lavoro come « lavoro astratto socialmente necessario », e non

(4) Ricardo, PrincipH, ed. della Biblioteca dell'Economista. — Tutte le citazioni si riferiscono, per comodità del lettore italiano, a questa edizione, naturalmente dopo riscontrata l'esattezza della versione. Il secondo numero in corpo piccolo elevato si riferisce all'edizione Mac Culloch dell'originale.

(5) Cannan, A Review, p. 185.

(6) Jannacone, Il costo di produzione, in « Biblioteca dell’economista », serie IV, voi. I, p. 17.

(7) Schum peter, Dogmen und Methodengeschichte, p. 85.

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(11)

sofferenza e pena individuale; cosa che avrebbe dovuto meglio illuminare anche gli scrittori ortodossi.

2. — Cercherò qui di ricostruire questa parte del pensiero ricardiano, senza fermarmi a discutere i vari significati della parola valore in Ricardo; tanto più che non è da aspettarsi che uno scrittore non sistematico e tutto preso, secondo l'espressione di Stuart Mill, dalla creazione di una nuova scienza, sia sempre coerente nell’uso delle parole.

Oserei così affermare che:

1) Il valore in Ricardo non è mai inteso come semplice ragione di scambio tra due merci isolate, quale è data dalla realtà del mercato, e nep­ pure come qualcosa di intrinseco che si basi sul costo individuale delle merci prese una per una e confrontate l’un l’altra, come vorrebbe la teoria del costo di produzione. Il valore, quand’anche si tratti di valore relativo, ossia « regola che determina quanto d’una (merce) sarà data in cambio di un’altra » (p. 370-10), è visto sempre in rapporto alla totalità della produ­ zione. Esso è, in un certo modo, la ragione di importanza sociale dei beni, il simbolo dello sforzo produttivo della comunità, che, attraverso il mec­ canismo di « temporanee e casuali variazioni di prezzo » per cui « il capi­ tale si proporziona precisamente con il bisogno » (p. 409-17), ha condotto alla produzione di quella determinata varietà e quantità di merci. Ciascuna merce lo porta in sè per il fatto appunto di essere stata prodotta al posto di un’altra merce qualsiasi che con lo stesso sforzo produttivo si sarebbe potuto conseguire.

« Voi dite che se non ci fossero scambi fra merci esse non avrebbero valore, jna se io sono obbligato a dedicare il lavoro di un mese a farmi una giacca e il la­

voro di solo una settimana a fare un cappello, benché io mai non scambi nè l’una nè l'altro, pure la giacca varrebbe quattro volte più del cappello; e se un ladro avesse ad entrare nella mia casa e prendere una parte dei miei beni, io preferirei che egli prendesse tre cappelli piuttosto che una giacca » (8).

Il valore è dunque qualcosa di assoluto che la merce porta in sè non per virtù propria, ma in relazione alla produzione totale delle merci, e per cui, « quando due mercanzie variano in valore relativo », viene ad essere lecita l’indagine, altrimenti incomprensibile, diretta a sapere « in quale delle due la variazione realmente ha avuto luogo » (p. 374-13).

Non è negata l’esistenza di un valore, che egli chiamerà valore

(12)

tivo, inteso come ragione di scambio, ma esso è concepito come espressione di qualcosa di più essenziale, che unisce tutte le merci in una comune va­ lutazione:

« Io non affermo, credo, che il lavoro impiegato in un bene sia la misura del suo valore di scambio, ma la misura del suo valore positivo. E poi aggiungo che il valore di scambio è regolato dal valore positivo c quindi dalla quantità di lavoro impiegato » (9).

2) Non è per amore di astrazione quindi, o parzialità di visione, ma per l’essenza stessa della sua indagine che Ricardo prende in conside­

razione solo quei beni che sono costati lavoro, e limita la sua osservazione ai beni materiali (per quanto ciò non sia mai chiaramente detto) come quelli che essenzialmente costano lavoro, o, almeno fra i servigi considera solo quelli «prodotti». Nè alcuno vorrà negare che:

« la massima parte di quegli oggetti che sono desiderati, si procurano dal la­ voro; e possono moltiplicarsi, non in un paese solamente, ma in molti, quasi senza alcun limite assegnabile, se noi siamo disposti ad impiegare il lavoro necessario per ottenerli » (p. 370-9 10).

Essi sono, d’altronde, la grande maggioranza dei beni prodotti dalla parte « capitalistica » di una società moderna, mentre le altre merci, quelle di cui il lavoro non possa aumentare indeterminatamente la quantità, formano veramente « una piccolissima parte della massa delle mercanzie giornal­ mente cambiate sul mercato » (p. 370-10).

L’indagine di Ricardo non era rivolta allo studio di un astratto scam­ bio di merci, separate dallo sforzo fatto per produrle, ma a delineare alcuni degli elementi essenziali alla struttura della realtà economica.

Il presupposto della libera concorrenza viene così ad essere una sem-' plificazione necessaria per porre in luce le forze latenti nel mercato post­ mercantilistico osservato da Ricardo, e di cui il monopolio non è che una deformazione contingente, mentre il presupposto dei costi costanti per i prodotti non agricoli, non è, nell’equilibrio della, libera concorrenza, di volta in volta, così assurdo come si è creduto fino a pochi anni fa (10).

E sopratutto, alla luce di questa concezione del valore, prende signifi­ cato il concetto di un prezzo naturale, intorno al quale oscillano i prezzi di mercato, come risultato, nel lungo periodo, delle leggi fondamentali che

(9) Lellers lo Trower, p. 151.

(10) Piero Sraffa, Sulle relazioni fra costo e quantità prodotta. Ih «Annali di eco­ nomia», voi. II, pp. 316-318.

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governano i prezzi, i salari, i profitti, facendo astrazione dalle cause « fu­ gaci ed accidentali », e mettendo in rilievo « quella potenza appunto in cui il prezzo naturale delle cose consiste » (p. 411-4”).

3) Connessa a questa interpretazione del valore, quale concetto re­ lativo alla totalità della produzione, sta la quantità (non il valore) del lavoro, come « fondamento di tutti i valori », su cui si basa la legge fon­ damentale del valore, e che è misura della ragione di scambio delle merci. Essa comprende di necessità anche il lavoro impiegato nella produzione del capitale, anch’esso parte dello sforzo produttivo che ha concorso alla produzione delle varie merci.

Non è qui il caso di indagare sulla validità del modo con cui Ricardo ha risolto il problema delle varie qualità di lavoro, e sulla sua teoria del profitto, inteso da Ricardo come semplice dato di fatto, differenza tra il prodotto totale e la parte che va ai salari, parte determinata in equilibrio dai salari necessari a mantenere stabile la popolazione. L’esistenza del pro­ fitto, che grava in diversa misura sulle varie merci, a seconda della quantità di capitale necessario alla loro produzione, e del diverso tempo durante il quale esso rimane immobilizzato, non annulla la validità di questa legge fondamentale. Ne determina solamente eccezioni, riconducibili — come dice Ricardo — sotto la forma generale dell’elemento di tempo. (11). Sa­ rebbe poi inutile dire che egli non ha mai tentato di negare l’esistenza di queste modificazioni, ma si è sforzato di ridurle alle loro proporzioni di fattore « comparativamente di poco momento » (p. 389-20), sopratutto se si considera, come Ricardo sempre fa, non l’ammontare assoluto dei salari e dei profitti (costo di produzione), ma « l’effetto delle variazioni nel rela­ tivo valore delle merci » (p. 376-1B) (rapporto di valori).

Il profitto è elemento modificatore della ragione fondamentale di scambio non in se stesso, come costo che si sia aggiunto al primitivo costo di semplice lavoro, ma come espressione del tempo diverso durante il quale diverse quantità di capitale sono state impiegate. La deviazione dalla legge fondamentale, dovuta all’esistenza del capitale, apparirà solo in quanto le diverse merci siano prodotte con una diversa proporzione di capitale fisso e circolante, e con capitale di diversa durata assoluta; chè solo in quelle condizioni il variare dei saggi di profitto e di salario avrà una sua influenza accanto a quella fondamentale del variare della quantità di lavoro neces­ saria alla produzione. L’esistenza del profitto, infatti, ha di per sè influenza 11

(14)

sull’ammontare assoluto del costo di produzione, in cui sono inclusi i pro­ fitti, ma non necessariamente sul valore delle merci (12).

3. — La teoria del valore in Ricardo sembra dunque basarsi su una concezione complessa dei rapporti tra le merci, mentre la quantità di lavoro — fondamento del valore — non è intesa come sacrificio e pena indivi­ duale, ma come astrazione che rappresenti, per così dire, la produttività media della comunità, intorno a cui verranno a graduarsi i vari tipi di la­ voro effettivo.

L’interpretazione è confermata d’altronde dalla teoria del commercio estero, per cui « il valore d’ogni merce straniera è misurato dalla quantità di prodotto della nostra terra e lavoro, che si diano in cambio di essa » (p. 435-7-). Mentre, è caratteristico che per Me Culloch uguali quantità di lavoro siano di uguale valore ovunque.

Il lavoro è per Ricardo, come per Petty, « l’attivo principio della ric­ chezza », l’elemento ultimo che crea ogni bene economico ed il solo — pren­ dendo l’insieme dei beni e non ogni singola merce, e basandosi sulla intera comunità produttiva e non sull’individuo isolato — che possa essere posto a fondamento di una teoria del valore, « comune misura per mezzo della quale il valore reale non meno che il relativo si possa estimare » (p. 546-m ).

Se si pensa poi come Ricardo affermerà più tardi che la teoria del va­ lore non ha forse importanza essenziale per spiegare « la rendita, i salari, i profitti» (13) e come al suo concetto della quantità di lavoro fosse estranea ogni considerazione di sacrificio del singolo, apparirà chiaro come al pensiero di Ricardo contrasti ogni concezione dei fattori di produzione che li assuma quale elemento del valore; e non si contenti di connet­ terli genericamente con la distribuzione del prodotto « fra tre classi della società » (p. 367-5). 12 13

(12) Io non ho detto che, costando una merce tanto lavoro da valere 1000 lire, e co­ standone un’altra tanto da valere 2000 lire, ciò importi che l'una debba vendersi giusto per 1000 lire, e l'altra per 2000. Ho detto soltanto, che i loro rispettivi valori staranno tra sè come 1 a 2, ed in questa proporzione si permuteranno. Nulla importa per la verità di questa dottrina se una di quelle merci si vende per 1100 lire, e l'altra per 2200 lire, o l'una per 1500 lire e l'altra per 3000 lire; io non investigo tale questione al presente; affermo solamente che il loro valore relativo sarà governato dalle relative quantità di lavoro impiegato nella loro produzione » (p. 390-” ).

In nota aggiunge « Malthus sembra pensare che sia una parte della mia dottrina il dire che il costo e il valore di una cosa siano lo stesso; e lo è, se egli intende per costo «costo di produzione » inclusi i profitti. Nel. passo qui sopra, ciò egli non intende, e perciò non mi ha ben compreso » (p. 391-"). Nota che non modifica, come pensava Marshall, ma conferma quanto detto nei testo.

(13) Lettera a Me Culloch già citata a nota (1). .

(15)

Ricardo d’altronde non era neppure interessato all’ammontare asso­ luto del prodotto distribuito, ma solo alle proporzioni in cui questo viene diviso tra le varie classi; e lo scopo della sua teoria non era lo studio della ricchezza, — ossia, secondo la definizione di Adamo Smith, tutti quegli « oggetti necessari, utili, o piacevoli alla umana vita » — ma del valore, che dipende non dall’abbondanza, ma « dalla facilità o difficoltà di produ­ zione » (p. 537-105), mentre gli altri fattori che non siano il lavoro « sosti­ tuendo sovente il lavoro dell’uomo, e qualche volta lavorando alla produ­ zione insieme coll’uomo » (p. 547-17-) se accrescono la ricchezza, diminui­ scono il valore.

Ora è forse qui appunto dove i contemporanei di Ricardo ne frainte­ sero, o almeno ne modificarono il pensiero. L’aver connesso la teoria del valore con una teoria della distribuzione nel senso moderno (e non quale semplice proporzione, come indicata dall’uso peculiare, ma non arbitrario, delle parole alto e basso applicate ai salari e ai profitti in Ricardo) ha por­ tato a concepire la teoria del valore di lavoro come teoria del costo di pro­ duzione e, indotti forse da una certa incertezza di linguaggio in Ricardo, quale somma del costo dei vari fattori produttivi.

In una teoria di distribuzione infatti (almeno nel senso comunemente dato a questo concetto) non è la quantità di lavoro che conta, ma i salari effettivamente pagati, non il capitale inteso come funzione dell’elemento tempo, ma i profitti che gravano in misura differente sulle varie merci; e una pura teoria del valore di lavoro diviene insostenibile, come è dimostrato

ad absurdum dal tentativo di Me Culloch e di James Mill di ridurre il

profitto a « salario di lavoro passato ».

Se non si tratta dello sforzo produttivo dell'intera comunità, ma di quanto sia costata una merce particolare e di come questa si scambi con ciascuna delle altre merci, allora veramente il lavoro non è che uno degli elementi del costo di produzione, mentre la ricchezza riferita ai singoli individui, non sarà altro che « il valore corrente delle cose che si possie­ dono » (14). Abbandonata la teoria ricardiana del valore e convertita in una teoria del costo di produzione, cadrà anche il suo concetto di ricchezza che era quello di Adamo Smith, e non è maraviglia che Me Culloch fini­ sca per accettare la definizione di Say, e fare della ricchezza una somma di valori.

Parrebbe invece più strano che, sin dai tempi di Say d’altronde, si siano 14

(16)

attribuiti a Ricardo tutti gli errori e le contraddizioni che deve certamente riscontrare in lui chi voglia interpretare la sua teoria del valore di lavoro, come incompleta teoria del costo di produzione, se — come mi viene autorevolmente fatto osservare — non pensassimo che quegli errori e con­ traddizioni si trovano già in Adamo Smith, e per lo stesso motivo (15).

(17)

L a teoria obiettiva del valore e la

scuola di Carey.

L’autore del seguente articolo, Franz Oppenheimer (n. nel 1864), è giunto allo studio dell’economia dopo un decennio di pratica medica: alla pari di altri medici- economisti (Petty, Quesnay, Hall, Thompson) egli si è proposto, a quanto afferma, di diagnosticare e curare una malattia dell’organismo sociale ch’egli identifica col <( capitalismo ».

Come appare dall’ampia ininterrotta produzione scientifica compendiata negli otto volumi del System der Soziologie, nonché nel voi. Das Kapital. K ritik der poli-

tischen Oekonomie, testé edito dalla casa Sijthoff di Leiden, egli è, anzi tutto e sopra

tutto, un classico della vecchia scuola, che deriva direttamente dallo Smith di cui ha assimilato la visione e il metodo. Se ne stacca nettamente nella teoria del capitale e della distribuzione: a suo dire, forze extraeconomiche han reso possibile la sogge­ zione degli uni ad opera degli altri ed han così originato la formazione delle classi sociali. Opinione questa, che contribuisce a spiegare il giudizio ch’egli dà n ell’articolo che segue dell’opera di Duhring. L’ èra capitalistica differisce dall’ èra feudale più per differenze di grado che per differenze di sostanza: I’A. discorre di motto polio dì

classe per riferirsi al possesso del patrimonio e del potere politico da parte di gruppi

ristretti. N on la soppressione della concorrenza, ma la sua liberazione dai ceppi che ne impediscono lo sviluppo può addurre, nell’àmbito dei redditi di capitale e di lavoro, a progressi nei processi di pareggiamento illustrati dallo Smith.

Alla detta tesi si connettono le idee dell’A., che non occorre qui ricordare, in­ torno alla convenienza di sopprimere il così detto « m onopolio delle terre » sì da render queste accessibili a tutti. In tal modo egli elabora una formula generale valida per tutte le epoche, la quale, a suo giudizio, non è che uno sviluppo della generale concezione smithiana, che si contrappone alle singole concezioni parziali, volte a studiare, con debita considerazione dei singoli dati di fatto, i vari periodi (feudale,

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capitalistico, ecc.). La sua opera, che è un po' al di fuori del flusso delle correnti scientifiche moderne, ricorda in più punti l’opera del nostro A chille Loria.

Per quanto concerne il valore la posizione « obiettiva » d ell’Oppenheimer, di cui il chiaro autore vorrebbe valersi per spiegare vari fenomeni storici, è compendiata in breve nell'articolo che segue. Accolta la distinzione classica tra « prezzo corrente » e « prezzo naturale » (identificato col prezzo statico di equilibrio della teoria mo­ derna), l’A. mira essenzialmente alla determinazione del secondo. Determinato il quale, è facile determinare il primo considerando quali fenomeni di temporaneo m onopolio — e facendo per essi ricorso alla teoria psicologica, di cui l'A. vuol circoscrivere quanto più può l'uso — g li eccessi della quantità domandata e della quantità offerta nei con­ fronti delle quantità corrispondenti alla posizione di equilibrio (« naturale » o « statico »).

U n particolare interesse presenta, nell'articolo che segue, il paragrafo dedicato a Carey. Il lettore italiano è indotto sopratutto a riflettere sulla superiorità di Ferrara nei confronti d el pensatore americano. Il Ferrara, non solo non ritiene possibili gli sfruttamenti sistematici prospettati a tinte fosche dal Carey, di cui pur condivide l'idea dell'origine extraeconomica del « male » e del « parassitismo », ma, con pensiero prettamente moderno, ben lungi dal negare i fenomeni di monopolio, o di sminuirli come avevan fatto altri classici, li generalizza (vedi del Ferrara l'Esame storico critico

d i economisti e dottrine economiche del secolo XV11I e prima metà del X I X , voi. I,

parte 2“, Torino, Utet, 1889, p. 6 6 8): le pretese rare «eccezioni [al principio, arbi­ trariamente postulato, della libera concorrenza].... costituiscono.... la condizione nor­ male di nove decimi dei prodotti, se pur non è a dirsi addirittura di tutti », sì che, com'ebbi di recente a ricordare (Rileggendo Ferrara : Ferrara e Proudhon in « Gior­ nale degli economisti », 1937, p. 10), mi pare possa discorrersi, per caratterizzare il pensiero dell’econofnista italiano, di concorrenza tra monopolisti. Ogni individuo ha caratteristiche proprie, innate e acquisite, che lo distinguono dagli altri e da tali ca­ ratteristiche Ferrara ritiene non si debba prescindere, sia che, in un primo tempo, lo si consideri isolatamente come un mondo a sè stante (economia isolata) sia che lo si consideri nei rapporti mutevoli con i suoi simili (economìa sociale concepita quale semplice aggregato di più economie individuali), nel qual caso può discorrersi di più monopoli « naturali », la cui attività risulta limitata per più vie da una certa qual con­ correnza. Questa si esplica in germe già nell'«, economia isolata », vale a dire n ell’ipo­ tesi di un individuo isolato dal consorzio civile, che sia, ad un tempo, proprietario, lavoratore, capitalista, imprenditore e consumatore ed abbia perciò innanzi a sè ir scelta tra varie possibilità idi azione in parte contemporanee in parte alternative; si manifesta nei tentativi, ch'egli fa, di sostituire ai « servizi » più costosi « servizi » meno costosi : processo senza fine, che non adduce mai a vere e proprie posizioni di equilibrio.

In tal modo Ferrara ritiene di aver superato il dualismo concorrenza-monopolio,

oltre a quello prezzo corrente-prezzo normale, per le due ipotesi, ch’egli considera so­

stanzialmente equivalenti, dell’economia isolata e dell’economia sociale. £ quanto gli

occorre per elaborare la teoria del « costo di riproduzione » passando, senza soluzione di continuità, dai presupposti soggettivi del valore alle sue manifestazioni oggettive.

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considerate pura e semplice traduzione dei primi nella realtà concreta. Il concetto di « resistenza », a cui si vuol far corrispondere il concetto moderno di « vincolo » o « ostacolo », che ha in comune con Carey, è inteso da un punto di vista soggettivo : il singolo è rimunerato nella misura in cui sa superarla. In altri termini Ferrara pre­ suppone si partecipi alla distribuzione del prodotto sociale solo se, ed in quanto, si è cooperato al suo incremento, il che non corrisponde sempre a quanto accade in realtà come ci insegna la teoria della rendita ricardiana.

Quanto poi alla teoria della rendita, mi pare meriti annotare, prescindendo dai noti aspetti comuni, un punto di divergenza tra Carey e Ferrara che è collegato a quanto ho testé detto. Come illustra con acume l'Oppcnheimer, Carey insiste assai neH’affermare che la fertilità della terra dipende esclusivamente dai capitali impie­ gati ; Ferrara obietta : « il problema non è nel sapere se la differenza tra terra e terra venga dalla natura o dal capitale, ma nel sapere se la rendita stia nella differenza tra un valore di costo e un valore di cambio [com e risulterebbe dalla enunciazione ricar­ diana] » (nelle Lezioni d i economia politica, voi. II, Bologna, Zanichelli, 1935, pag. 300). Il che, per vero un po' confusamente, egli nega.

La negazione, a tutta prima poco comprensibile, giova a chiarire l’essenza, e i limiti, dell'economia ferrariana, nonché a segnarne il distacco sia dall’economia ri­ cardiana sia (in parte) dall'economia careyana.

a) Il sistema di Ricardo è basato su una generalizzazione dell’ipotesi, per tanta parte aderente alla realtà dei nostri tempi, dell'economia degli scambi : le categorie della popolazione sono considerate prevalentemente dal punto di vista dell'inelutta­ bile contrasto di interessi proprio di ogni atto di scambio. Talvolta al guadagno di Tizio (ad esempio, salariato) fa riscontro una perdita corrispondente per Caio (ad esempio, imprenditore) ; tal'altra tale riscontro fa in parte difetto : esempio tipico, di poi generalizzato o esteso in via analogica in altri campi (teoria del m onopolio; dot­ trine sul corso forzoso e sull'inflazione oltre che, in genere, sull'economia bellica; dottrine liberiste in genere), il fenomeno della rendita fondiaria differenziale.

Data la coesistenza di più costi, e il conseguente aumento del prezzo delle der­ rate in misura tale — all'ipotetico punto di equilibrio definitivo — da compensare il costo più elevato, una parte sola dell'onere imposto ai consumatori va a beneficio dei proprietari di terre, costituendo per essi quel che nella moderna terminologia anglo- sassone è detto guadagno « non meritato » ; la parte residua non va a beneficio di alcuno : è assorbita dall'« avidità » della « natura ». Com’è stato talora osservato, le conclusioni di Ricardo possono essere estese all'ipotesi di un'economia collettivistica-,

di per sé la soppressione della proprietà privata delle terre e degli altri strumenti di produzione non elimina il fenomeno della rendita ricardiana : può soltanto alterare la ripartizione dell’onere tra le varie categorie. Conclusione questa, di cui ci si è di poi giovati come di un primo appiglio per formulare giudizi d’insieme dell’economia collettivistica.

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per forza di cose proprietario, lavoratore, capitalista e imprenditore, oltre che consu­ matore. Quale il punto in cui termina l'ipotetico costo « normale » e comincia l'esosa rendita « e s a tta » senza contropartita dall'avida « n a tu ra » ? è impossibile precisarlo: alla «natura » è imputato tutto il costo; all'unico soggetto è attribuito tutto il pro­ dotto (1). La coltura delle terre può estendersi man mano che cresce la capacità pro­ duttiva del soggetto. Attraverso ripetuti confronti tra costi e prodotti prospettivi il processo tecnico economico avviene senza soluzione di continuità in corrispondenza dei bisogni dell'agente, si da assicurargli quella che, rebus sic slanlibus, gli appare la soddisfazione migliore dei propri bisogni. Il processo di produzione è considerato con acume nella sua essenziale continuità secondo un criterio di poi svolto da vari autori neoclassici.

Tale conclusione, valida nel senso accennato per detta ipotesi (com e ricorda il Pareto nel Manuale, pp. 324, 325 e 329), è generalizzata da Ferrara, il quale ritiene che, risolto il problema in termini di economia isolata, non occorrano indagini ul­ teriori per la più complessa ipotesi dell’economia sociale, è evidente l'unilateralità della sua visione, che si avverte anche in altre parti del sistema. Si noti, per altro, che la soppressione della teoria della rendita ricardiana costituiva per Ferrara una necessità metodologica. Affermata l'essenziale unicità delle due ipotesi dell'economia isolata e dell'economia sociale, gli si schiudeva la possibilità di svolgere la teoria del valore che tanto g li stava a cuore riconducendola, come su osservato, ai suoi presup­ posti soggettivi e da questi assurgendo direttamente ad un esame delle manifesta­ zioni oggettive. Se si fosse ammessa 1'esistenza di un fenomeno inesistente nella sfera individuale ed esistente! nella sfera sociale, formulabile soltanto in termini oggettivi, l'elaborazione non sarebbe stata possibile. N eppur possibile sarebbe stato avallare la su indicata teoria della distribuzione connessa alla teoria della soddisfazione massima.

Renzo Fubini.

I primi esponenti della teoria obiettiva del valore l'hanno affermata aprioristicamente, postulata senz’altro. Appariva loro evidente, senza bi­ sogno di dimostrazioni d’alcun genere, che la « sostanza » del valore è co­ stituita dal lavoro incorporato nei singoli beni. Sir William Petty, uno dei primi esponenti di tale teoria, ad esempio, scrive: «Quando, nel medesimo tempo in cui può produrre un bushel di frumento, un uomo può portare a Londra un’oncia d’argento, tratta dalla terra del iPerù, l’uno costituisce il prezzo naturale dell’altro». La dottrina non era unitaria: per le merci monopolizzate occorreva un’altra teoria, del tutto diversa dalla prima, lad­ dove logicamente si sarebbe dovuto escogitare una formula valida sia per le merci monopolizzate che per le altre merci, vale a dire per quelle «

pro-(1) Per vero anche in tale ipotesi può discorrersi di rendita gravante il soggetto con riferimento al lavoro e al capitale che ha dovuto distogliere da altri impieghi, o che non ha potuto dedicar loro, come avrebbe desiderato poter fare, per dissodare terre sterili.

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ducibili o riproducibili a volontà ». La dottrina, di cui si discorre, era inol­ tre incompleta. Per avvertirlo è sufficiente leggere le sette sezioni del primo capitolo dei « Principles » di Ricardo, nel corso delle quali 1’ autore si sforza di trovare le correzioni necessarie per conciliare con la realtà delle cose la propria formula, la quale appare eccessivamente semplice per le stesse merci riproducibili a volontà. A seconda della ripartizione del capitale tra capitale fisso e capitale circolante, a seconda della relativa durata del capitale e a seconda della lunghezza del periodo d'investimento si hanno modificazioni della formola ricardiana, le quali, nella migliore delle ipo­ tesi, ne scemano di molto l’esattezza.

Si aggiunga che il valore del lavoro, cioè il salario, potè essere deter­ minato da Ricardo unicamente facendo ricorso a un palese ragionamento circolare: il lavoro, misurato in termini di tempo, determina il valore delle merci che il lavoratore può acquistare col proprio salario ; tale valore, a sua volta, quale costo di riproduzione della sua forza di lavoro, dovrebbe gio­ vare a determinare il suo salario. Anche Karl Marx in entrambi questi punti ebbe a cozzare con le maggiori difficoltà. Egli pure, al pari di Ri­ cardo, al posto del lavoro, che anch’egli in prima approssimazione aveva considerato sostanza del valore, pose i « prezzi di produzione » che da quello non divergono in misura considerevole data la tendenza al pareg­ giamento dei saggi di profitto. Per cavarne il valore del lavoro dovette far ricorso all’ingegnosa, sia pur logica com’ebbi a dimostrare, insostenibile teoria del sopravalore, la quale afferma quanto segue: l’imprenditore paga al lavoratore il valore di scambio della sua forza di lavoro ed è posto in grado di utilizzarne integralmente il valore d’uso, che risulta dall’aggiunta di valore apportata alla materia grezza; gli fa prestare un « sopralavoro »: il valore, in tal modo prodotto, è il sopravalore. Il ragionamento riposa, com’è evidente, su di un equivoco : sul termine « forza di lavoro », consi­ derata in un primo tempo come sostanza che si loca e, in un secondo tempo, come sua utilizzazione, il servizio che si acquista. L’esatta, molto semplice soluzione ce la diede Marx allorché si ricordò dell’esistenza di valori di monopolio: ovunque avvengono scambi in condizioni di monopolio sorge sopravalore, come Marx naturalmente ben sapeva e talora anche esponeva, purtroppo, però, non in punti d’importanza decisiva della sua trattazione. Il carattere dualistico della teoria fu in tal modo causa dei più gravi errori.

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preeco-nomico, non si presta affatto ad essere utilizzata per lo studio dei fenomeni del mercato, come già lo stesso Gossen ebbe a chiarire; è soltanto mercè il ricorso ad una ininterrotta catena dei più ingegnosi artifici matematici e logici che si giunge arbitrariamente a dimostrare quanto si vorrebbe, co- m’io ebbi a porre in rilievo nel mio manuale senza che alcuno fino ad ora abbia mai seriamente tentato di confutare le mie critiche. Gli stessi espo­ nenti ufficiali di tale teoria l’hanno, a quanto pare, sostanzialmente ab­ bandonata (2).

I. — HENRY CAREY

Gli sviluppi della teoria obiettiva del valore al di là della sua deficiente forma originaria hanno inizio con Carey. A lui dobbiamo una formula migliore, atta, se non altro, a superare i difetti del lamentato dualismo. Egli stesso, per vero, non l’ha osservato. Fu il suo discepolo Eugen Dii- hring ad avvertire per primo che la formula del maestro è valida sia per le merci producibili a volontà che per le monopolizzate e che, come tale, si presta ad esatte applicazioni. Per quanto concerne gli altri aspetti an­ ch’egli non ne giunse a capo.

Ecco il tenore della formula di Carey: « Il valore è la misura della resistenza che deve essere superata per potere conseguire quanto ci occorre per i nostri fini, per i bisogni della nostra vita; la misura del predominio della natura sugli uomini » (3). £ questa la formula definitiva. In prece­ denza (p. 80) aveva affermato: « Il valore è semplicemente la nostra valu­ tazione della resistenza, che si deve superare per poter giungere in possesso dell’oggetto desiderato ». In Diihring ritroveremo un’espressione analoga. Il termine « valutazione » ricorre però una sola volta (nel brano indicato) nell’opera di Carey. Nell’ampio riassunto delle definizioni (p. 506) è ripe­ tuto: « Il valore è la misura della possanza della natura sugli uomini, la misura della resistenza che essa oppone all’appagamento dei loro desideri ». Tale resistenza può essere superata unicamente mercè il lavoro, prestato in misura adeguata. Già da un punto di vista puramente formale quest’ul- tima formula dev’essere preferita all’altra perchè riconduce a forze obiet­ tive il dispendio di lavoro, quasi col rigore della vecchia definizione della fisica: forza pari a resistenza.

(2) Vedi il mio Wert und Kapìtalprofit, 3* ed., pp. 70 e segg.

(3) Lehrbuch der Volkiwirtschafl und Sozialwisscnschaft, ed. tedesca a cura di Cari Adler, Monaco, 1866, p. 86. Le citazioni che seguono, segnate tra parentesi nel testo, si riferiscono a questa stessa edizione.

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Per comprendere fin nelle sue origini prime la posizione di Carey oc­ corre, in primo luogo, tener presente che in prosieguo di tempo egli fu un protezionista quasi fanatico e, in secondo luogo, ricordare ch'egli si inte­ ressava quasi esclusivamente alla « tendenza dello sviluppo ». La sua at­ tenzione è, in altri termini, rivolta quasi esclusivamente a quella ch’io per primo ho definito « statica comparata » per distinguerla con criterio siste­ matico dalla « statica semplice ». Caratteristiche queste, strettamente colle­ gate tra di loro, come in appresso porrò in rilievo.

Quanto alla tendenza dello sviluppo egli è decisamente ottimista, « ar­ monista », come logicamente deve essere chi respinge la legge della po­ polazione di Malthus, origine prima d’ogni forma di pessimismo econo­ mico. La sua concezione è quella della teoria ortodossa, qual’era già stata enunciata da Adam Smith: la ricchezza della società cresce col progresso, e scema col regresso, dell’associazione o cooperazione.

Malthus e Ricardo in base alla legge della popolazione (che il secondo accoglie) erano giunti alle conclusioni più pessimistiche sulla tendenza dello sviluppo. Carey presume di poterli confutare entrambi con la legge sull’ordine delle colture delle terre, la quale di fatto costituisce un argo­ mento considerevole contro Malthus, ma che nulla può dimostrare contro la teoria della rendita terriera di Ricardo, la quale ultima presuppone sol­ tanto siano poste contemporaneamente a coltura terre diversamente favo­ rite quanto a fertilità naturale o a posizione: da tal punto di vista è in­ differente che la coltura abbia avuto inizio dalle terre migliori o invece dalle peggiori, come, con argomenti di carattere economico e di carattere storico, Carey mostra essere più che probabile sia di fatto accaduto.

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della importantissima conclusione che non è il prezzo di produzione che

determina il valore attuale, sibbene il prezzo di riproduzione.

Detta legge, incondizionatamente esatta per la statica comparata, è priva di rilievo per la statica semplice, in cui, per ipotesi, sono escluse va­ riazioni di dati: in tale ipotesi prezzo di produzione e prezzo di riprodu­ zione coincidono. Conviene perciò accogliere esclusivamente la formula di Carey, che è l’unica valida per entrambe le ipotesi.

La legge in parola vale non soltanto per tutti i beni di consumo, ma anche per tutti i beni di produzione; non solo per i beni prodotti (capitale),

ma anche per i mezzi di produzione non prodotti (terre). Carey non si

stanca di addurre esempi su esempi per mostrare che la terra vale oggi molto meno di quanto siano costati i miglioramenti introdotti e di quanto oggi costerebbe migliorarla nella misura in cui è stata migliorata. Il prezzo di riproduzione è « il limite, oltre cui il valore non può ascendere » (p. 88).

L’autore si arresta poi un istante innanzi al problema del monopolio. « Perchè mai — egli si chiede — spesso si paga per un esemplare assai raro di una vecchia opera mille volte più del prezzo originario? ». Ecco la risposta : « Là dove un oggetto non può essere riprodotto il suo valore non ha altro limite che il ghiribizzo di coloro che desiderano possederlo ».

L’importante punto, ch’egli ritiene d’aver così risolto per sempre, gli appare, per altro, così poco importante ch’egli si limita a discorrerne in una nota. La sua risposta, d’altra parte, non è esatta. Ove le circostanze lo consentano il ghiribizzo del più ricco offerente realizzerà il valore, ma sarà la volontà del proprietario che lo determinerà e tale volontà non è altro che l’espressione della resistenza che nell’animo di quest’ultimo può opporsi all’alienazione dell’oggetto su cui esercita il diritto di proprietà. Con un po’ più di attenzione Carey avrebbe dovuto riconoscere che non solo la natura, ma anche il diritto fa sentire la propria influenza sul va­ lore: entrambi a traverso la resistenza che oppongono al conseguimento dell’oggetto. Solo in tal modo la sua formula, del tutto esatta, avrebbe assunto il suo pieno contenuto. Egli aveva presenti soltanto i « monopoli naturali », che sempre ricorrono nelle vecchie opere di teoria; non occor­ reva che un sol passo per riconoscere l’esistenza di altri monopoli d’origine puramente legale: i brevetti, ad esempio, che fan sì che il valore degli og­ getti possa ascendere oltre quanto comporterebbero le resistenze opposte dalla natura.

Carey si sofferma invece a discutere ancora del caso di monopolio ri­ conosciuto da quasi tutti i suoi predecessori: a questo proposito egli cita

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Adam Smith, Mac Culloch, Say, Senior e John Stuart Mili. Si limita, cioè, ad occuparsi di quel che è certo il caso più importante: il monopolio della terra, riconosciuto come tale dall’immensa autorità di Adam Smith. Sic­ come al giorno d’oggi la terra può essere acquistata ad un prezzo di ripro­ duzione che è molto al di sotto del prezzo di produzione, egli ne conclude che, di per sè, la terra ora ha così poco valore e prezzo quanto ne aveva alle origini dell’umanità: i miglioramenti introdotti adducono alla forma­ zione di un prezzo di riproduzione che è sempre calante. In breve: anche la terra è un mezzo di produzione prodotto, è « capitale » e di questo con­ divide la sorte di ottenere una quota sempre più piccola del prodotto che contribuisce a porre in essere. « La diminuzione di valore del capitale trae con sè di conseguenza una diminuzione della quota proporzionale del pro­ dotto del lavoro che deve essere corrisposto per l’utilizzazione del capitale da parte di coloro che non possono acquistarlo e che quindi si limitano a prenderlo a prestito » (p. 86).

Ecco la giustificazione dell’« armonismo ». Il prodotto sociale si ripar­ tisce soltanto in due parti, non, come si era fin allora ritenuto, in tre; non esiste alcuna « rendita fondiaria » : esistono soltanto salario del lavoro e profitto del capitale. Di essi, il primo, che ottiene una quota sempre mag­ giore, aumenta sia in via assoluta sia in via relativa; il secondo scema in via relativa, pur aumentando in via assoluta grazie alla maggiore produt­ tività del lavoro sociale.

Si noti tra parentesi che è strano che Carey chiami il reddito del si­ gnore feudale « rendita fondiaria, taglia o imposta » (p. 88). Al pari di Jones e Diehl, egli la ritiene un quid del tutto diverso dalla rendita fon­ diaria capitalistica; ne parla, nella stessa pagina, come della «così detta rendita fondiaria ». Per altro un solo sguardo alla storia, di cui la sua mente così sostanzialmente induttiva sa sempre trar partito con molto profitto, sa­ rebbe stato sufficiente ad insegnargli che ovunque la soppressione della servitù della gleba e della schiavitù avvenne senza processi rivoluzionari si provvide risolutamente ad assicurare ai proprietari di terre la persistenza delle loro rendite almeno nella misura in cui l’avevano precedentemente percepite: fu mutata la forma del loro diritto di credito, ma il contenuto economico restò immutato: la rendita feudale si trasforma nella rendita capitalistica senza soluzione di continuità (4). Lo si noti in via del tutto incidentale.

(4) Vedi in proposito la discussione contro Diehl nel mio « Ricardo », pp. 179 e segg.

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Tornando all'« armonismo » ricordo che, come ho già detto al prin­ cipio, esso vale solo per la società progressiva, non per la regrediente, colta da « turbamenti » estranei al sistema. I turbamenti possono provenire dal­ l'interno o dall'esterno. Anzitutto, da forze extraeconomiche. Un uomo restìo al lavoro raduna una masnada attorno a sé; sottomette e taglieggia gli altri membri del gruppo. Vien qui fatta un’ipotesi assurda: che vi sian uomini che depredano fratelli e genitori! (pp. 73 e segg.) (5). Di poi sor­ gono contese tra i caporioni; il grande mangia il piccolo e divien re per poi passare, con gli altri re suoi pari, emersi con gli stessi mezzi, al saccheg­ gio in grande protestando che non è mosso alla guerra che da sete di gloria.

Ne segue che la popolazione retrocede e deve stabilirsi sulle terre più povere, da tempo abbandonate, le uniche di cui possa ora trar partito data la sua indebolita forza di cooperazione. Il costo di riproduzione di tutti i prodotti, anche del capitale, il loro valore aumenta: il salario scema in via assoluta e in via relativa; il profitto aumenta in via relativa e scema

in via assoluta. I :

Non diversamente opera l’intermediazione del commerciante. Un pre­ potente s’intromette nel naturale prospero commercio del vicino (com­

merce) e pone in essere il traffico (trade). Con la forza soggioga i compa­

gni; con un'abile politica di divide et impera li tiene in soggezione (p. 121). Anch’egli divien spesso caporione: si vale di « banditi assoldati » per per­ petuare la propria signoria e il proprio sfruttamento.

Già nella sua semplice qualità di commerciante egli opera nel senso di far aumentare il valore delle cose e di diminuir quindi il « valore del­ l’uomo »: turba in tal modo l’armonia. Il guaio è che i testé descritti svi­ luppi politici esigono sempre più commercio e commercianti nei confronti di quanto sarebbe stato necessario se la situazione non fosse stata turbata. La collettività è povera e sparpagliata su vaste pianure; vie e mezzi di tra­ sporto non bastano là dove di continuo nuove guerre e perdite di po­ polazione han segnato l’arresto, e anche il regresso, della cooperazione. « Quanto più prossimi sono consumatore e produttore, quanto più com­ pleta è la forza di associazione tanto meno si sente bisogno dei servizi del commerciante e tanto maggiore è la forza dei produttori che desiderano sostenere il commercio. Quanto più lontani sono l’uno dall’altro tanto mag­ giore è il bisogno dei servizi del commerciante, nonché la sua potenza, ma

(5) Vedi in proposito la disamina della questione in S. S. Il, pp. 244 e segg.

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quanto più deboli divengono consumatori e produttori tanto più si con­ trae il traffico » (6).

A giudizio di Carey l’intromissione del commerciante costituisce, non un monopolio, ma un superfluo ostacolo alla provvista dei beni, che ne eleva corrispondentemente il valore al di là di quanto sarebbe necessario. Opinione certo non del tutto inesatta per tutti quei prodotti che non pos­ sono essere posti in essere nell’àmbito di ristrette cerehie commerciali. Per la maggior parte di tutti gli altri prodotti il commercio è invece indispen­ sabile: se ci si dovesse provvedere direttamente dai produttori, comunque grande sia il gruppo dei consumatori si avrebbe un dispendio di tempo e danaro assai maggiore di quanto comporti l’esistenza del commercio, che, come « custode del magazzino della società », è assolutamente insostitui­ bile (7).

Ad ogni modo l’intromissione del commerciante, là dove può essere sostituita dal semplice commercio tra vicini, significa un inutile aumento del valore dei prodotti e decremento del valore dell’uomo. E ciò accade in misura ancor più intensa là dove i commercianti ostacolano delibera­ tamente l’associazione e il commercio. « Quanto più compiutamente rag­ giungono il loro intento tanto maggiore è la quota che trattengono per sè e tanto minore è la quota che viene ripartita tra i produttori e i consu­ matori » (p. 126).

In quest’ultimo caso si tratta, com’è evidente, di un monopolio. Ri­ sulta assai chiaro dal brano che segue: « Stipati, come sono, in grandi città, ai commercianti non è difficile associarsi al fine di ridurre il prezzo delle cose che desiderano procurarsi o di aumentare il prezzo delle cose di cui sono in possesso, gravando in tal modo consumatori e produttori » (p. 128). £ qui sufficientemente descritto un monopolio di diritto privato, di com­ pera e vendita, posto in essere mediante un accordo. Evidentemente non si tratta della resistenza che la natura oppone al conseguimento dei beni, ma della resistenza che il monopolio cagiona, la quale, alla pari della re­ sistenza opposta dalla natura, dev’essere superata con un prezzo più elevato.

Carey non ammette che, come avevano affermato A. Smith, Ricardo e Mac Culloch, « vi siano due cause del valore, il lavoro e il monopolio » (p. 91). Un po’ singolare è, in proposito, la giustificazione che adduce: « Ammettere l’esattezza di tale tesi vorrebbe dire negare l’universalità delle

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leggi che governano la materia, vorrebbe dire affermare che il grande Ar­ chitetto dell’universo ci ha dato un sistema nel cui operare non è possibile trovar traccia di armonia » (p. 93).

Con un tale appello alla sapienza divina non si va lontano. A ciò si ri­ duce quanto egli ha da osservare contro A. Smith, il quale chiarisce la ren­ dita fondiaria come un prezzo di monopolio, e contro Mac Culloch, il quale adduce la circostanza evidente che « singoli individui si appropriano le forze naturali e pretendono poi un prezzo per i servizi che prestano.... per­ chè possono impedire che le forze naturali siano utilizzate da chi non è disposto a pagarne i servizi » (p. 91). Anche qui si tratta senza dubbio di un monopolio.

Carey naturalmente non si accosta affatto al monopolio. Qua e là ne fa menzione, ma purtroppo solo come di un vocabolo di cui non indaga la natura; non cerca anzi neppure di definirlo. L’indice del libro, assai im­ preciso, al termine monopolio fa richiamo in tutto in quattro punti. Una prima volta (p. 152) si discorre della tendenza degli olandesi a «monopo­ lizzare il commercio » ; una seconda volta (p. 224) si discorre della « mono­ polizzazione delle conoscenze, grazie alla quale si è potuto progredire » ; una terza volta si discorre del sistema inglese volto i monopolizzare la fab­ bricazione, vale a dire a ridurre gli altri paesi, anzitutto le colonie, a puri produttori di materie grezze (p. 226) è, infine, un’ultima volta si dice del monopolio delle terre. Anche qui però non v’è parola nè di aumento mono­ polistico di prezzo a carico dei consumatori, nè di detrazione dal salario del lavoratore, la quale è pur sempre possibile anche quando il prezzo di ri- produzione della terra è al di sopra del suo prezzo di produzione, ma si dice costantemente soltanto del prolungamento delle vie di trasporto e della necessità, che ne consegue, di mantenere una massa inutilmente grande di commercianti. Egli dice : « Guerre tra nazioni e contese tra individui cre­ scono col crescere del monopolio della terra. La terra viene consolidata quando il coltivatore è soggetto interamente ad una politica mirante alla circoscritta creazione di una sola remota officina e quando il produttore e il consumatore sono separati l’unot dall’altro » (p. 554).

Da un punto di vista psicologico questa straordinaria cecità di fronte ad un fenomeno ben noto e largamente trattato nella vecchia teoria si spiega ove si ricordi la fede protezionistica di Carey. Nella sua qualità di citta­ dino degli allora ancora giovani Stati Uniti, i quali in epoca relativamente recente si erano sottratti al su caratterizzato monopolio britannico, egli adot­ tava un punto di vista logico. Aveva proclamato un ministro inglese ,«

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pure un chiodo deve esser prodotto nelle colonie! ». Al paese resosi libero occorrevano certo per un po’ di tempo quei « dazi educativi » che lo stesso Smith aveva approvato (8). Carey si spingeva più innanzi perchè riteneva che in regime di libero scambio il traffico (trade) avrebbe costantemente mi­ nato il commercio (commerce): il dazio protettivo egli lo reclamava quale cavezza per l’odiato traffico.

A. Smith sempre ripetutamente qualificò come monopolio, e respinse, il dazio protettivo. Il consueto motivo suona fin dalle prime righe del ca­ pitolo 2° del libro IV della « Ricchezza delle nazioni » : « Restringendo con diritti elevati o con proibizioni assolute l’importazione da paesi stranieri di quelle merci che possono essere prodotte in patria, il monopolio del mercato interno è più o meno assicurato all’industria nazionale.... un monopolio contro i connazionali ». Appresso è detto: « Lo spirito monopolizzatore dei mercanti e dei manifattori, i quali non sono, e non debbono essere, i reggi­ tori dell’ùmanità.... escogitò originariamente e propagò questa dottrina [del dazio protettivo] » (/. c., p. 436).

Carey deve avere avvertito che la miglior difesa della propria tesi, così nettamente contrapposta a quella d’una così grande autorità, consisteva nel negare ogni diretta influenza del monopolio sul valore.

II. — EUGEN DÜHRING

Come si è già detto fin dall’inizio, Eugen Dühring ha corretto l’errore del suo tanto venerato maestro. Egli non è affatto un incondizionato pro­ pugnatore del protezionismo: al pari di Friedrich List, egli propugna dazi educativi di carattere transitorio. Egli scrive: « In un aggruppamento sta­ tale, le cui forze economiche siano in certo qual modo in equilibrio, di re­ gola non si dovrebbe neppure più far parola di dazi protettivi » (9). Non ha perciò alcun motivo di negare l’influenza del monopolio sul valore. Egli scrive (Gesch., p. 393): « La formula, per cui il valore è la misura della re­ sistenza, che si oppone al conseguimento degli oggetti desiderati dal sog­ getto economico da parte della natura e delle possibilità di produzione, è una formula assai ben riuscita. Per altro, abbisogna di un’aggiunta, la

(8) Everymans edil ion, pp. 402, 406.

(9) Carey1 s Umwälzung der Volkswirtschaftslehre und Sozialwissenschaft (München, 1865), p. XII (citata appresso come « Umwälzung »). Sono stati inoltre utilizzati per la redazione del presente scritto il «Cursus der National-und Sozialökonomie», J* ed. (Leipzig, 1892) e la «Kritische Geschichte der Nationalökonomie und des Sozialismus», 3* ed. (Leipzig,

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quale non corrisponde allo spirito della concezione di Carey. Gli ostacoli di carattere sociale alla provvista dei beni non van trascurati come si trat­ tasse di trascurabili fenomeni di attrito: per spiegare i prezzi effettivi al concetto di valore di produzione deve aggiungersi quello di valore sociale o di distribuzione ».

L’importanza dell'opera di Diihring sta nell’aver egli seriamente intra­ preso a ravvisare nella « distribuzione dei fattori di produzione » il tratto caratteristico iniziale del capitalismo : mi riferisco alla dottrina del « pos­ sesso del potere » ( Cursus, p. 5), eredità del periodo feudale, grazie al quale è possibile ottenere, e di fatto si ottiene, forzosamente, ora come un tempo, una quota del prodotto sociale. La ricchezza, a suo dire, ha « direttamente o indirettamente la propria base nella rapina » ; il suo « ammontare si com­ misura al numero degli individui tenuti in soggezione o governati e alla capacità, da parte loro, di prestar servizi per conto d'altri » ( Cursus, p. 19). Il dominio degli uomini ha preceduto il dominio della natura. « Come si po­ trebbe mai pensare ad un gran signore feudale, che non abbia sotto di sè schiavi e servi e non signoreggi indirettamente altri individui non liberi? In prosieguo di tempo la schiavitù si è mitigata e si è venuta trasformando nelle più indirette forme di dipendenza economica »"[Cursus, p. 20), le quali « possono essere adeguatamente comprese e chiarite solo ove siano consi­ derate un’eredità alquanto trasformata di una originaria diretta soggezione e espropriazione » (p. 21).

L’opera di Diihring giova a chiarire, nella sua essenza sociologica, jl tratto taratteristico iniziale, per cui una data epoca storica, ed è questa l’epoca del capitalismo, trae la propria origine da un’epoca precedente: solo in tal modo può essere compresa e chiarita. Parimenti corretta è la dedu­ zione che ne trae: vi sono «monopoli di classe» (Cursus, p. 184), i quali aumentano la resistenza opposta dalla natura ed in tal modo accrescono il valore degli oggetti monopolizzati.

Diihring ne ricava però una .formula poco soddisfacente in tema di valore: « Il valore è il pregio che hanno gli oggetti economici in commercio in corrispondenza alle valutazioni effettuate.... La misura della valutazione economica è da porsi in relazione all’estimazione e questa è in ragione della resistenza opposta dalla natura e dalle circostanze alla provvista dei beni »

( Cursus, p. 21). Detta formula, facendo ricorso al termine «valutazione», contiene un elemento di carattere accentuatamente soggettivo dato che, com’è evidente, diversi individui valutano diversamente lo stesso oggetto.

La mancanza di esattezza è avvertita e ammessa da Diihring, che la / f i

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« Non meno lamentevole e fatale fu la cecità anzi l'autosoddisfacimento con cui si lasciò libero corso ad una evoluzione industriale, la quale, con disprezzo