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Rivista di storia economica. A.05 (1940) n.2, Giugno

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¿.ovetto, da Huigi Stnoudi

Direzione-, Via Lamarmora, 60 - Torino. Amministrazione: Giulio Einaudi editore. Via Mario Gioda, ) - Torino — Abbonamento annuo per l'Italia L. 40. Estero l. 50. Un numero L. 12.

A n n o V - N u m e r o 2 - G i u g n o 1940 - XVIII

Attilio Cabiati : Intorno ad alcune recenti indagini sulla teoria pura del co lle ttivism o... Pag. 73

NOTE E RASSEGNE:

C. A. Vianello: le finanze ed il commercio toscani

da Pietro Leopoldo al regno di Elruria . . . . » 111 Luigi Einaudi: Schemi statistici e dubbi storici . . . » 125

RECENSIONI d i:

L. E., F. M., Vittorio Racca, F. M., A. Rainoni, su libri di luigi Bollini, Arrigo Serpieri, Ugo Giusti, Mario Bandini, Giovanni loienzoni, E. De Talco, Nino Valeri, Antonio Fossati, K. E. Poole, C. W . Guil- lebaud, C. Panunzio, L'Economie collective au Mexique, G- D. H. Cole, Filippo Carli, Benedetto

B a rb e ri... » 130

TRA RIVISTE ED ARCHIVI:

F. P. : Storia delle dottrine economiche ... » 141

! fondazione

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A±Je in passato nelle storie delle dottrine economiche la discussione intorno al collettivismo si imperniava sulle teorie del valore-lavoro e del sopralavoro di Carlo Marx, oggi nessun economista perde il tempo in simili logomachie. La discussione si è spostata nel senso di indagare se in una società collettivistica valgano le teorie del prezzo, dell’equilibrio, del com­ mercio internazionale, dell’interesse ecc. che la scienza economica ha regi­ strato nelle ipotesi astratte della piena concorrenza e del monopolio. V’ha chi, come il von Mises, constatando l’inesistenza del « mercato » in regime collettivistico, nega si possano in esso formare prezzi, interessi ecc. Altri non vede perchè il ministro della produzione, mirando allo scopo del massimo vantaggio collettivo, non debba giungere alle stesse soluzioni alle quali si arriva nell’ipotesi della piena concorrenza. Il Cabiati esamina dottamente le discussioni che dopo il 1920 hanno in materia avuto luogo, specie fra gli studiosi tedeschi ed anglosassoni, e mette in luce il vantaggio che i di­ fensori della tesi della identità delle soluzioni liberistiche e collettivistiche avrebbero potuto trarre dallo studio del Pareto e, sulle sue traccie, del Barone, primi a porre in maniera esatta le equazioni dell’equilibrio eco­ nomico nelle due ipotesi. Naturalmente se chi fa la storia delle dottrine non può negare l’identità « teorica » delle due soluzioni, ciò non significa che il collettivismo sia desiderabile o vantaggioso; che anzi il Cabiati lo definisce come « l’iperbole del burocratismo, coi suoi insostenibili difetti e con la formazione della peggiore oligarchia arrivista ».

C. A. Vianello rievoca, sulla scorta di un documento indirizzato al Custodi, i principali problemi finanziari e commerciali della Toscana sullo scorcio del secolo XVIII.

Nella rubrica delle Note e Rassegne il direttore della rivista insiste,

. /

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simi per tanti rispetti, elaborati dagli statistici e dagli economisti per la in­ terpretazione della realtà, incontrano dinnanzi alla difficoltà di costringere entro schemi astratti i fatti storici che sono individui e non riproducibili.

Seguono le consuete rubriche di Recensioni e Tra riviste ed archivi.

OìCMtà Einaudi

ADOLFO OMODEO

LA LEGGENDA

DI

C A R L O

A L B E R T O

NELLA RECENTE STORIOGRAFIA

IN APPENDICE

MES SOUVENIRS SUR LE ROI CHARLES-ALBERT

par le comte J. Gerbaix de Sonnaz.

Un volume della collezione «Saggi » di p. 168, L. 15.

IVAN PAVLOV

I RIFLESSI COIDIZIOITATI

Un volume della « Biblioteca di cultura scientifica » di p. 400, L. 30. *

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Intorno ad alcune recenti indagini

sulla teoria pura del collettivismo.

1. — Da parecchi anni a questa parte il socialismo, che pareva « re­ legato in soffitta », è venuto di nuovo attirando l’attenzione scientifica di un gruppo assai bene scelto di studiosi stranieri, particolarmente tedeschi ed anglo-americani, il quale si è rimesso ad analizzare punto per punto la possibilità teorica di un governo economico collettivista, le difficoltà che esso incontrerebbe, le probabilità ed i modi di superarle.

A differenza del movimento marxista, il quale prendeva le mosse dalla critica distruttiva dei principi scientifici della economia « borghese-ca­ pitalista », come la chiamavano i socialisti della prima maniera, gli uomini che hanno nell’ultimo quindicennio ripreso il problema, — parecchi dei quali non hanno neppure tendenze socialistiche, ma sono mossi dal mero stimolo della curiosità scientifica — partono precisamente dai concetti della scienza economica, specie da Ricardo in poi, ed esplicitamente dichiarano che il loro socialismo si inquadra nella dottrina matematica dell’equilibrio generale economico. Essi hanno abbandonato il rivoluzionarismo marxista, e si propongono di studiare in teoria pura come possa funzionare uno schema socialistico, il quale si accordi perfettamente con la scienza del valore, erroneamente criticata e reietta dal primitivo socialismo rivolu­ zionario.

Essi hanno difatti ripreso le teorie del costo, del movimento della popolazione, della moneta e del credito, e partono dalla base della forma­ zione del prezzo, che è il « pivot » di tutta la scienza economica.

6, II.

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74 ATTILIO CAB1ATI

In ultima analisi, se li studiamo bene e sopratutto con quello spirito di serenità che ogni scienza esige, partendo dal concetto che è solo « pro­ vando e riprovando » che si costruisce e si sviluppa la scienza, noi econo­ misti restiamo sorpresi rilevando che, in fondo, questi nuovi studiosi sboc­ cano — certo senza esserselo proposto — alla conclusione matematica di­ mostrata dal Pareto, e rielaborata dal colonnello Barone, che qualunque sistema economico si adotti, ove esso miri a procurare col minimo dispen­ dio di forze il massimo di benessere alla collettività, deve soddisfare a quello stesso sistema di equazioni, che in libera concorrenza garantiscono l’utilità massima ai singoli operatori sul mercato.

Con che non si distruggono le disuguaglianze umane; le quali, anzi, sono sempre accentuate e provocano gli attriti sociali. La conclusione della scienza economica è più modesta. Essa ci dice soltanto che, dato lo stato sociale quale è in un dato momento e ambiente; data la ripartizione delle ricchezze, quale si è prodotta; dati « i punti iniziali di partenza» nella vita dei singoli operatori sul mercato, qualunque metodo economico si adotti — individualista o socialista — l’equilibrio economico, ove si operi

solo coti le forze economiche, si risolve in guisa perfettamente identica.

Io credo che questa rifioritura di studi dimostri la sensibilità degli studiosi ai fatti che si svolgono loro dinnanzi, specialmente dal 1914 ad oggi.

Ogni guerra che prenda l’ampiezza di un continente, o addirittura del mondo, sconvolge con la sua violenza i confini degli stati, la ric­ chezza dei cittadini, e, sopratutto, la ripartizione normale delle ricchezze. Anche un regime economico che ammetta profonde disuguaglianze sociali, viene sopportato e riesce ad adattarsi ed a divenire normale, quando la situazione si svolge gradualmente per passi successivi, senza sconvolgere di colpo le situazioni acquisite e l’equilibrio che lentamente si è venuto adattando.

Ma se un fatto eccezionale (ad es. una .guerra seguita da inflazione monetaria) trasforma la redistribuzione delle ricchezze quale si era creata con lenta evoluzione, gli uomini sentono che il peggioramento degli uni e l’elevamento degli altri si è creato non certo in forza delle fisiche leggi della scienza economica: e allora fatalmente l’umanità è spinta verso me­ todi rivoluzionari, contro cui la società reagisce restringendo le libertà normali, per un istinto di conservare quel tanto che può essere salvato della civiltà.

£ in questo quadro, mi sembra, che possiamo qui esaminare, ora

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che ne ho rapidamente analizzato talune cause principali, il movimento di pensiero economico-sociale che si è sviluppato dopo il 1918, che ha attirato ed attira studiosi di alto valore e di piena serenità; ed è entro questi limiti che mi accingo a discutere rapidamente i punti essenziali di questo interessante movimento, dopo averne sintetizzato e discusso i caposaldi fondamentali.

2. — 11 libro del prof. Hall (1) rappresenta un documento impor­ tante di questa letteratura, ed importa esaminarne e discuterne con at­ tenzione i punti più originali e fondamentali.

L’A. incomincia col dimostrare che il sistema socialista tenta di ri­ solvere un problema economico con decisioni di carattere collettivo so­ ciale, e non in base alle decisioni individuali. Sono i rappresentanti della comunità che, disponendo del potere politico, decidono sulla natura del sistema dei prezzi: il che naturalmente — osserva l'A. — implica l’ab­ bandono della scelta da parte dell’individuo, « e quindi elimina una delle libertà fondamentali ».

Affermazione, questa, che però non mi sembra decisiva. Passando da un sistema liberista ad uno collettivista, pare logico che lo stato si senta indotto, prima di determinare i quantitativi della produzione, ad esaminare i prezzi ed i consumi, i costi di produzione dei vari fattori di essa, i gusti dei consumatori quali erano in regime di libera concor­ renza, per trarne una norma regolatrice della nuova produzione. Non co­ stituirebbe una critica decisiva il rilevare che lo stato non può misurare l'entità dei gusti dei cittadini e decidere quindi l’esatta quantità di generi da produrre. Se Primus ricevesse più carne di quanto desidera, e invece preferisse più verdura, mentre Secundus desidera più carne e meno ver­ dura, sarebbe agevole per entrambi addivenire d’accordo ad uno scambio sulla base dei prezzi fissati dallo stato, raggiungendo così l’utilità mas­ sima « collettiva ».

Come pure non mi sembra abbia un valore decisivo il ragionamento dei professori von Mises e Halm, ai quali il prof. Hall si riferisce, e che enunciano il principio che, dove non vi è mercato, non può esistere un meccanismo di prezzi, e quindi neppure un calcolo economico.

I prezzi esistevano nel precedente regime liberista e un certo equi­ librio si era costituito. Ora si passa ad un governo collettivista. La base (1) R. L. Hall, The Economìe System in a Sodatisi State (Macmillan and Co.,

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76 ATTILIO CABIAT1

dei prezzi in termini di danaro e di servizi è quindi già nota. Il nuovo stato socialista accetta prò’ tempore quei prezzi e quindi i rapporti quan­

titativi di scambio dei beni e dei servizi. Si ha già dunque, almeno, un punto iniziale di partenza. Lo stato poi rileva, supponiamo, che, dopo un certo tempo, la merce A non viene più assorbita tutta a quel prezzo, op­ pure che, inversamente, essa risulta insufficiente alla domanda. Ciò significa che i gusti sono mutati; e allora il ministro della produzione o produce meno (o più) di quella merce; oppure ne abbassa il prezzo (ossia eleva la quantità che si deve dare di essa per ottenere una dose dell’altro bene), sino a toccare quel rapporto dei due prezzi, raggiunto il quale le quantità delle due merci richieste ed offerte restino completamente assorbite.

Nè mi sembra perturbante — sempre in teoria — il problema dello « interesse », che impressiona più di tutte le altre incognite il prof. Hall, e che, nella sua opera più interessante e nota, lo induce a scrivere: « E una disgrazia che questa necessità dell’interesse, il bisogno del quale è urgentemente dettato da considerazioni economiche, non possa venire riconosciuta nell’economia socialista. Forse questo fatto costituisce l’obbie- zione più seria che si può muovere contro il socialismo » (op. cit. p. 161).

Anche questa obbiezione mi pare agevolmente superabile. In regime socialista tutto il risparmio si può concepire nelle mani dello stato, o, almeno, amministrato da esso. Se la massa del risparmio, in un dato momento, diventa inferiore quantitativamente al fabbisogno, lo stato riduce i compensi dei lavoratori ed i consumi meno indispensabili, e accantona il risparmio che ne deriva. E proprio ciò che, sotto svariate forme, si verifica con lo stato capitalistico. Quando, ad esempio, quest’ultimo emette carta-moneta inconvertibile, abolendo il cambio in oro, esso espropria i cittadini di una certa parte del loro risparmio. Lo stato socialista imita questa condotta: oppure, sotto le più svariate forme, offre un premio ai cittadini disposti a consumare di meno, ed in tal modo ricostituisce il ri­ sparmio nella quantità che gli abbisogna. La legge economica che regola il risparmio ed il prezzo d ’uso di esso resta sempre la stessa. Anzi si si potrebbe sostenere che questo metodo è superiore, in un certo senso, a quello precedente. Con quest’ultimo, la scarsezza relativa di risparmio, innalzando l’interesse, eleva il valore dei mezzi di acquisto a favore dei possessori di risparmio, e getta tutto l’onere della diminuzione di esso, almeno temporaneamente, sulle spalle dei meno abbienti e del proletariato, a cui viene ridotto il salario; mentre, con l’altro sistema, l’onere si di­ stribuisce proporzionalmente fra tutte le classi sociali.

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Anche qui, dunque, in regime capitalistico, sotto forme lievemente diverse, il governo, in casi di necessità, opera in guisa e con risultati perfettamente identici a quelli di uno stato collettivista.

3. — La cosa riguarda anche la redistribuzione delle ricchezze. Se scoppia una guerra, ad esempio, lo stato si rivolge ai cittadini perchè sottoscrivano all'impegno di ridurre le loro spese, proporzionalmente ai guadagni; impegnandosi poi a ricostituire il loro «standard of life » a guerra ultimata e, poniamo, anche vinta.

Se i cittadini si sottraggono a quest’impegno, il governo abbassa i compensi, eppure eleva i prezzi dei prodotti, oppure allunga, a compenso uguale, le ore di lavoro; e con tali metodi ottiene ugualmente quanto gli occorre.

E anche qui, in regime capitalistico, il governo, in forma diversa, giunge perfettamente allo stesso risultato. Emette, ad esempio, un prestito al 5 %, e paga gli interessi gettando tanta carta moneta quanta ne occorre per ridurre il valore reale della moneta del 50 % . Le 5 unità monetarie hanno ora una potenza reale d’acquisto in merci del % , ed il problema è brillantemente risolto. Il primo sistema è però assai più perequato del sistema secondo.

4. — Il problema poi, per il coefficiente di produzione « uomo », è non meno semplice. Lo stato offre un salario differenziale per quei generi di lavorazione per i quali la collettività sente maggior bisogno, e in tal guisa accresce l’offerta di lavoro in quell’impiego. E potrei agevolmente continuare a mostrare che quasi tutte le difficoltà teoriche sollevate contro la possibilità di agire economicamente « per un ministro socialista della produzione », si risolvono perfettamente, e, probabilmente, senza maggiori attriti di quelli che si verificano nella economia liberista.

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fra gli uomini, per infirmare tutto il principio teorico che la libera concor­ renza assicura il massimo di benessere collettivo.

Ove poi a questo vizio iniziale si aggiunga il dato che la libera con­ correnza, in via di fatto, non viene adottata compiutamente in nessun paese, si ha quanto basta per togliere la più gran parte di valore reale a queste discussioni, e a svalutarne quindi anche le conclusioni in teoria pura.

5. — « Vi sono due fili conduttori, scrive il prof. Hall, per gli scrit­ tori in questa materia. Il primo è il punto di vista che il « ministro della produzione » è incapace di trovare un metodo teoricamente corretto per determinare il costo migliore di produzione, con tutte le conseguenze che derivano da questa mancanza. Il secondo filo è che sarà così difficile in pratica imaginare un meccanismo capace di tradurre in atto i risultati del calcolo teorico senza cadere in errori di seria natura che, praticamente, ne apparirà l’impossibilità del funzionamento » (op. cit. p. 74 e segg.).

Io divido qui pienamente lo scetticismo e la nessuna simpatia per un sistema socialista del genere di cui si tratta. Ma, ciò premesso, qui pure devo osservare: 1) un governo socialista che inizi i suoi assaggi, ha dietro a sè una lunga serie di avvenimenti e di casi pratici, svoltisi sino al momento della trasformazione del regime; 2) l'evoluzione com­ piutasi sino al periodo precedente, è giunta alla situazione attuale mediante continui assaggi e tentativi, in cui gli errori vennero pagati e hanno istruito. Nessuna delle scoperte trasformatrici dell’attività economica si compì senza perdite, che svalutarono gli impianti precedenti recando dislocamenti di mano d’opera e di mercati e redistribuzioni di ricchezza. La storia delle app.icazioni del vapore e della elettricità è costellata di fenomeni del genere.

6. — L’A. esamina in proposito un punto più complesso, già studiato anche dal prof. Halm: ossia la difficoltà, per uno stato socialista, di deter­ minare il valore capitale dei beni già esistenti; ed afferma che non è pos­ sibile fissare i costi di produzione dei beni capitali, « perchè essi alla loro volta sono il prodotto di lavoro e di capitale; sicché un valore deve essere attribuito in anticipo al capitale stesso, perchè si possa determinare il costo che si paga per l’uso di esso » (cioè, il tasso netto).

Ora sembra elementare che, come sempre avviene in casi di questo genere, il valore del capitale si debba determinare non già partendo dal prezzo che esso è costato, ma bensì dal frutto netto sperato di esso,

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pitalizzato al saggio corrente dell'interesse; o, il che torna lo stesso, dallo sconto dei benefici netti che si presume saranno dati da esso. E, qui pure, il valore stimato precedentemente, quando ancora le aziende non erano state socializzate, potrebbe fornire l'indice iniziale più sicuro di calcolo.

Il prof, von Hayek avanza a sua volta una osservazione interessante, che il prof. Hall ricorda: «L a qualità essenziale del sistema economico attuale, è che esso reagisce contro gli errori: ed è importante considerare come si verifica questa reazione. La forza motrice qui è data dal « self-in- terest ». Come osservava già Adamo Smith, « ogni uomo, sin quando non viola le leggi della giustizia, è lasciato perfettamente libero di perseguire il suo proprio interesse secondo la via che preferisce, e di competere con la sua industria ed il suo capitale contro qualsiasi altro individuo » (Wealth of nations, lib. IV in fine).

Lo sforzo degli imprenditori è costantemente diretto a tentare di so­ stituire dei sistemi più a buon mercato di fronte a quelli più cari; ed i possessori dei coefficienti di produzione cercano di trovare quegli impieghi che risultino più profittevoli per essi. Il lavoro di raffronto è continuo e costante; e la grande virtù del sistema capitalistico privato consiste nel fatto che, quanto più largo è lo scarto fra la posizione del momento e quella dell’equilibrio teorico, tanto maggiore diventa il movimento verso la direzione giusta.

È evidente inoltre che gli errori eventuali commessi dai privati, in quanto essi lavorano ognuno per proprio conto, diventano di importanza grandemente maggiore, quando siano commessi da uno stato socialista. E lo stesso ragionamento vale per gli errori che vengano fatti negli inve­ stimenti di beni capitali. Questo veramente costituisce uno dei punti più deboli di un ipotetico regime collettivista.

7. — Merito precipuo del prof. Hall è quello di avere studiato il re­ gime economico socialista anche sotto l’aspetto degli scambi internazionali. Prima di riassumere il pensiero dell’A., esaminiamo per conto nostro, ed in­

dipendentemente dalle idee del prof. Hall, le conseguenze di questo punto

di partenza.

Se la domanda della merce X, fatta dal paese I contro cessione di merci sue. al paese produttore II che la esporta, è intensa, il paese II ne aumenta il prezzo all’estero; sicché nel paese I, importatore, questo aumento di prezzo, operato dall’esportatore II, tende a restringerne la domanda.

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80 ATTILIO CABI ATI

della merce X in I e in II, e muta il prezzo della merce N, venduta da I in pagamento, sui due mercati entrambi contemporaneamente venditori e consumatori.

Il che significa che i ministri della produzione nei due paesi, non ap­ pena i mercati si aprono, non sono più padroni o dei prezzi, o delle quan­ tità. E le elasticità delle due curve di domanda-offerta dei due paesi obbli­ gano i due ministri della produzione a tenere conto di questo fatto impera­

tivo, ed altresì delle diverse elasticità delle due curve di domanda-offerta dei consumatori di I e II. E, ancora, questo mutamento costringe a sua volta i ministri a rivedere salari, prezzi, materie prime, costi generali, ecc.

In generale, osservo incidentalmente, la dottrina economica può divi­ dersi in due parti: 1° teoria dell’equilibrio su un mercato chiuso; 2° teoria dell’equilibrio su M mercati aperti.

Ora questa distinzione diventa decisiva anche sotto un altro punto vitale di vista.

Se supponiamo un mercato teorico assolutamente chiuso, il governo può, entro limiti ragionevoli, fare ciò che vuole: mutare prezzi, quantità, determinare salari e produzioni, fissare interessi e profitti, ecc. Il mercato reagisce, ma queste reazioni possono non essere tali da forzare il governo a mutare la sua linea di condotta.

Ma se i mercati restano aperti ed il governo del paese I si decide a determinare esso i prezzi, abbiamo: 1) questi nuovi prezzi o aumentano o diminuiscono di fronte alla posizione iniziale. Nel primo caso l’estero, E, non acquista più le merci da I, e, o si rivolge ad altri mercati, o trova più conveniente fabbricarsi da sè quelle merci: il che muta le bilancie dei pa­ gamenti di entrambi i paesi e quindi i costi e i prezzi. 2) Oppure si rivolge per l’acquisto ad un terzo mercato, con che l’equilibrio dei tre mercati si modifica nuovamente.

Qualunque via si scelga, insomma, il governo socialista del paese I è

costretto a mutare i prezzi e le quantità, in funzione delle variazioni degli

Talmente influisce su tutta la linea di condotta del governo stesso. E, se in-

altri m-I mercati; ossia non può agire come si proponeva di fare. Il che natu-

vece esso si rinchiude nella sua casa, tutto l’equilibrio interno si trasforma-, perchè, se tiene fermi i prezzi, mutano le quantità richieste; se tiene ferme le quantità, mutano i prezzi ed i consumi; e in tal modo si altera tutto il delicato equilibrio che il ministro della produzione aveva studiato nel suo « primitivo piano ». Cosa non da poco, ove si pensi che tutta questa tra­ sformazione grava sulla spesa, su gli introiti, sui compensi dei cittadini.

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8. — Molto fine, anzi, di una finezza analitica quale forse non si trova in nessun altro scrittore della materia, è l’esame che il prof. Hall conduce su questioni importanti, quali il sistema monetario in regime socialista, l'accumulazione del risparmio ed i suoi limiti, l'influenza di un maggiore consumo sui prezzi, e così dicendo.

Sarebbe eccessivo, in una revisione generale dei problemi maggiori del socialismo quale quella qui condotta, addentrarsi nell’esame analitico: tanto più che il prof. Hall lo conduce con finezza pari alla competenza, e con assoluta novità di pensiero, accoppiando ad una sottile analisi una forma così sintetica, che il riassumere diventa impossibile.

Preferisco quindi commentare rapidamente alcune sue conclusioni ori­ ginali, dolente solo che l’A. non sia entrato in un problema, che pure ha visto, e cioè in quello nuovo del ciclo economico e delle crisi in regime col­ lettivista, che potrà servire di tema a qualche giovane studioso.

9. — Il prof. Hall non è entrato nelle mie considerazioni precedenti, ma esamina taluni altri problemi. Naturalmente tutte le ipotesi che egli pone per la soluzione di esse sono basate sulla esistenza di una « vera » moneta (si potrebbe del resto concepire perfettamente, come moneta di conto, una base aurea). Allora, egli osserva (p. 220 e sgg.), le importazioni cesseranno quando la domanda locale è soddisfatta ai prezzi calcolati (l'A. suppone l’osservanza del principio dei costi comparati); oppure quando la produzione interna si può iniziare a questi prezzi.

Il che non mi sembra del tutto esatto: il vantaggio degli scambi inter­ nazionali dipende dai costi comparati, e non dai costi assoluti; e quindi lo scambio cessa quando ambo i contraenti arrivano ad un prezzo per le due merci, dato il quale cessa l’utilità dello scambio per ambo le parti. Il fatto che il prezzo della sola merce I nel paese X è diventato uguale al prezzo di costo della stessa merce nel paese Y, non basta di per sè solo a

troncare gli scambi, ove i prezzi della merce II nei due paesi siano rimasti diversi.

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al-82 ATTILIO CABIATI

l’estero potranno venire confrontati direttamente fra di loro, attraverso a questa unità di misura. Se il prezzo di una di queste valute è di 125 rubli, poniamo, per ogni sterlina, si saprà subito quale è il prezzo della merce M in termini di sterlina, e quindi anche in termini degli altri prodotti: all’in- circa come si usa oggidì.

Bisogna aggiungere però che l'immobilità del prezzo della sterlina in oro dovrà venire assicurata. Ove una guerra sottoponesse la sterlina a patire le oscillazioni del dopoguerra (quali quelle del 1931, ad esempio) la fac­ cenda funzionerebbe male e tanto varrebbe allora adottare di nuovo l’oro. E, per di più, è anche necessario tenere conto del fatto che nel com­ mercio internazionale gli scambi non si effettuano mai, o raramente, fra i paesi I e II, ma bensì fra M paesi. Questa è la ragione per cui ho accennato antecedentemente ai fenomeni «triangolari, o poligonali»; i quali da una parte complicano il problema degli scambi internazionali; ma dall’altra parte accelerano il ritorno all’equilibrio generale, col minimo di scosse e nel più breve tempo possibile.

E infine, in ogni caso, si deve tenere conto che quanto più i paesi sono « aperti » e si intensificano gli scambi, tanto più numerose diventano le oscillazioni dei cambi e quindi dei prezzi, diminuendo però di ampiezza e di profondità: sicché sono i prezzi che impongono la loro politica ai mi­ nistri degli stati socialisti; e non i ministri socialisti della produzione, che impongono i prezzi ai mercati. Precisamente come avviene in regime di libero scambio!

10. — Fra tutte le ampie e complesse discussioni fatte sul socialismo in qaest’ultimo ventennio, scarseggia una precisa descrizione del modo con cui si forma il prezzo in tale regime.

Nella sua poderosa « Gemeimwirtschaft » tradotta ed aggiornata nella terza edizione inglese (2), il prof, von Mises osserva: «Dove lo stato è il solo proprietario dei beni stromentali, non vi può essere una formazione di prezzi, e quindi non esiste nessun calcolo razionale del costo, sicché non si ha nessuna economia razionale. Sotto una economia pianificata, i capi del­ l’industria non possono avere nessun potere discrezionale e nessuna respon­ sabilità pecuniaria, sicché è impossibile una misura dei rischi ».

E contro questa osservazione che si eleva il signor Dickinson, nell’in­ teressante studio ricordato in seguito (§ 13). E a ragione, perchè, se quella affermazione fosse esatta, sarebbe inutile discutere il socialismo.

(2) Socialism, J. Cape, London, 1936.

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11. — Ora mi affretto a notare che la critica del von Mises mi sembra insussistente. Prima di esaminare il ragionamento del signor Dickinson, premetto quindi poche osservazioni preliminari. Se Primus, che possiede la merce X, e Secundus, che possiede la merce Y, trovano utile di scambiarsi una quantità delle loro rispettive merci, un prezzo si forma senz’altro. Cioè è probabile che si determini l’accordo sul numero di unità, intere o frazionarie, di X, necessarie per ottenere una unità di Y : questa essendo la definizione stessa del baratto. Ove sul mercato intervenga Tertius con una merce Z, ambita da Primus e da Secundus, ed egli a sua volta desidera determinate quantità di merci dei primi due, si formerà un terzo prezzo, che diverrà di equilibrio stabile, mediante una semplice operazione di arbitraggio.

Questa operazione di scambio, compiuta con tale sistema, è la defini­

zione stessa di « prezzo » ; e presso le tribù di selvaggi tale legge viene nor­

malmente constatata in pieno. Supponiamo che le due merci iniziali ven­ gano usate da tutti i componenti le tre tribù. Noi abbiamo: 3 merci richie­ ste e offerte: 3 prezzi, od unità permutate l’una nell’altra. Questi prezzi po­ tranno poi variare, ad esempio, col variare disforme dei raccolti, nell’unità stagionale: e allora il raccolto minore in quantità verrà disputato fra le tre tribù, sicché il suo prezzo unitario aumenterà in termini di unità degli altri due raccolti. E così via dicendo.

Se il prezzo viene stimato in termini di giornate, o di ore di lavoro, il risultato sarà identico. Se il prezzo nei tre paesi viene misurato in termini di giornate di lavoro, ma il suolo è tale che in I si ottengano più chilo­ grammi di merce con uguali giornate di lavoro, ossia si abbiano in I più unità di prodotto che non nei paesi II e III, avremo: o che il prezzo dei pro­ dotti di I diminuirà di fronte ai prezzi dei prodotti di II e di III; oppure che un certo numero di abitatori di II e di III si trasferirà in I, accre­ scendosi così la popolazione di I, e diminuendosi invece in II e in III; e allora si altereranno i prezzi ed i consumi nei tre gruppi, e le rispettive popolazioni si redistribuiranno territorialmente in guisa da obbedire ad una ben nota legge.

Che questi paesi siano a regime liberista o a regime collettivista, dun­ que, la teoria dei prezzi resta quella che è sempre stata.

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84 ATTILIO CABIATI

esistono in questi paesi le bilance del sistema metrico decimale, i pesi si calcolano ugualmente benissimo, ancorché non vengano calcolati col no­ stro sistema attuale.

13. — Ciò premesso in linea generale, possiamo addentrarci in questo vitale argomento della formazione del prezzo in uno stato socialista, esami­ nandone dapprima la soluzione che ne propone il signor Dickinson (3).

Molto elegantemente questo scrittore contraddistingue la collettività socialistica col fatto che in essa la proprietà privata consiste in beni usati per consumo personale, ma non in beni usati per commerciare, o per pro­ durre dei beni da vendersi mediante operazioni commerciali. Le risorse na­ turali ed i beni stromentali, quindi, appartengono alla comunità, ed ogni produzione viene intrapresa dalla comunità stessa.

Le attività economiche della comunità ed ogni produzione vengono ela­ borate da essa. Tali attività si ripartono in due principali categorie: l’una produce i beni ed i servizi atti a soddisfare le domande espresse dai com­ pratori singoli sul mercato. L’altra provvede i beni ed i servizi liberi da onere a tutti i membri della società, come risultato di una decisione fondata su basi diverse dalla domanda del mercato, e presa da un organo dell’auto­ rità centrale.

Il signor Dickinson chiama il primo, il settore del consumo indivi­ duale; ed il secondo, il settore del consumo socializzato. « Naturalmente è il settore individualizzato (di consumo) quello che dà origine alla discus­ sione circa il prezzo ed il costo ».

Come si vede, sin qui siamo come in regime capitalistico; ed in esso difatti l’A. riconosce l’uso della moneta, liberamente adoperata dai privati per scambiarla contro beni liberamente disponibili.

I beni di consumo si vendono ai consumatori ad un prezzo fissato dalla comunità.

L’organizzazione della produzione viene affidata dalla comunità con un contratto di servizio, costituendo così una gerarchia di corporazioni auto­ nome, simili alle società odierne a responsabilità limitata. «A d esse pre­ siede il consiglio economico (S. E. C.) ». Data tale costituzione, il problema risiede nel come si determinano i prezzi: a) dei beni di consumo; b) dei beni di produzione.

(3) H. D. Dickinson, Price for million in a Socialist Community in «T h e Economic

Journal », vol. 43, fascicolo del giugno 1933, p. 237 e sgg.

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14. — A tale uopo, ¡1 Dickinson ipotetizza la seguente soluzione. Le merci vengono affidate alle agenzie di vendita. Queste vendono sulla base di quello che il mercato sopporta, aumentando i prezzi quando gli stocks diminuiscono, ed abbassandoli invece quando i beni rimangono invenduti e si accumulano. In tal modo il servizio statistico dell'agenzia vendite si porrà in condizioni di costruire una scheda di domanda per ogni tipo di merce venduta.

L’A. stesso rileva che ciò non è un compito agevole, « poiché- la do­ manda di una merce non è funzione solo del prezzo di essa, ma dei prezzi di tutte le altre merci ».

15. — Trattando lo stesso tema, il prof. Cassel, là dove determina la legge di formazione del prezzo in regime socialista (4), osserva innanzi tutto che « il principio di scarsità è precisamente lo stesso per l’economia socialista, come per quella capitalista: quindi, in una economia bilanciata e razionalmente condotta, il sistema socialista deve essere mantenuto il più perfettamente possibile nel nostro sistema economico attuale.... Il prezzo, per ogni varietà di lavoro, deve essere sufficiente a restringere la domanda. Sino a quando la comunità riconosce il diritto del lavoratore individuale al compenso economico del suo lavoro, il salario deve essere eguale al prezzo della sua produzione. Si è generalmente posto in rilievo dai socialisti che la loro economia metterà una fine al sistema del salario: e ciò deve signi­ ficare che il salario del lavoratore resterà determinato da certi fattori og­ gettivi diversi, secondo la situazione del mercato in quel momento. Noi vediamo che ciò è errato ». I salari, — scrive il Cassel — in una economia socialista condotta razionalmente devono essere in armonia con lo stato del mercato del lavoro: il che equivale a dire che essi sono determinati secondo il sistema dei prezzi, d’accordo coi principi della rarità, della « attribu­ zione », ecc.

Ora tutto questo ragionamento, che il Cassel analizza con la sua usata precisione e finezza analitica, sbocca alla ben nota conclusione che, sia la società condotta politicamente secondo il principio del « laissez faire », o lo sia invece secondo il principio collettivista, le conseguenze diventano più vaste e decisive, ma non mutano di sostanza.

E, per vero, quando i salariati dello stato socialista hanno ricevuto il loro salario, restano liberi nell’uso che possono farne. Domande diverse,

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risparmio diverso, distribuzione delle spese nel tempo diverse. Tutto ciò influisce sui prezzi e quindi sui costi: e si può lasciare ai lettori la conclu­ sione. Se arriviamo ad un equilibrio stabile, è chiaro che i beni stromentali (e quindi i loro prezzi) si saranno ripartiti in guisa da garantire ad ognuno dei produttori e dei consumatori (risparmiatori compresi) il massimo di utilità individuale compatibile con l’uso più economico ed intelligente dei beni produttivi in quelle date condizioni. È il teorema di Pareto.

16. — Qui abbiamo ragionato per conto nostro, seguendo una nostra via. Prendiamo ora la conclusione a cui sbocca, con un ragionamento suo e senza addentrarsi in questa analisi, il sig. Dickinson: «U na volta che il sistema è stabilito, sarà probabilmente inutile creare seguendo tale via e con una simile costruzione di una comunità socialista, una specie di mo­ dello di produzione capitalistica.... Per derivare unicamente le quantità ed i prezzi di un dato numero di beni finiti di consumo e di fattori finali di produzione atti a fabbricarli, sono necessari — scrive il Dickinson — quattro tipi di funzioni: 1) La funzione della domanda per ogni bene di consumo, che ponga in rapporto la quantità consumata al prezzo; 2) Una funzione che colleghi la quantità unitaria di ogni bene di consumo con le quantità di fattori usati per produrla; 3) Una funzione per ogni prodotto, la quale esprime la condizione che il prezzo di vendita deve essere uguale alla somma dei prezzi dei fattori della produzione; 4) Una funzione del­ l'offerta per ogni fattore della produzione, che ponga in relazione la quan­ tità disponibile col prezzo » (op. cit., p. 242).

Ora è noto che queste condizioni sono determinabili quantitativa­ mente, e altresì si verificano « contemporaneamente ». E con esse, — av­ verte l’A. — « si determinano i prezzi dei servizi produttori, dei coeffi­ cienti di produzione, ecc.: sicché si derivano altresì da essi i prezzi per la domanda dei beni stromentali». Precisamente come in regime liberista!

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re-golano automaticamente i fenomeni economici del regime della proprietà privata e della libera concorrenza.

17. — Dobbiamo concludere allora che il vero problema del regime collettivista quindi si riduce a quello della distribuzione del reddito sociale: ed è appunto per giungere a questa conclusione, che ho condotto questa prima parte del ragionamento, basandomi sulla massa delle fonti raccolte. E cioè nel campo produttivo il regime socialista funziona esattamente come

in regime liberista: la differenza si forma sul terreno della distribuzione.

E su questo terreno il socialismo può almeno in teoria, effettivamente operare, perchè, come si accennò a suo tempo, l'inuguaglianza sociale, cae- teris paribus, consiste effettivamente nella disuguaglianza grande dei punti di partenza iniziali delle varie classi e dei singoli individui. Un cretino milionario è molto più forte di un poderoso ingegno assillato dalla mi­ seria, la quale non gli permette di sostenersi sino a quando abbia superato l’intervallo fra la preparazione di un lavoro e la realizzazione del com­ penso di esso. Fra i due passa la stessa differenza che esisterebbe fra un contadino che vuole crearsi un buon terreno nella Jungla, ed un altro che lavora una risaia od un vigneto già in perfetto assetto. Nella società questo formidabile distacco decide della sorte degli uomini. Il Macedone si affi­ dava bensì sul valore dei suoi guerrieri, ma sentenziava che il metodo più sicuro e rapido per conquistare una fortezza era quello « di introdurvi un asinelio carico d’oro ».

Non per nulla le classi operaie dovettero lottare circa un secolo poli­ ticamente per conquistare, di fronte agli imprenditori, il diritto alla orga­ nizzazione, con le sue conseguenze.

18. — Ora i metodi di redistribuzione del reddito collettivo in un regime socialista possono essere svariati.

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Il

eccesso in talune altre, alcuni propongono che ognuno scelga a sua vo­ lontà la propria professione.

L’A. non considera che tutte queste scelte valgono « pro-tanto ». Se difatti i prezzi e le domande-offerte di taluni generi prodotti variano, alterandosi prezzi (o, se questi sono fissati dalle autorità, alterandosi le domande del pubblico), come si regoleranno le autorità socialiste?

19. — Il sig. Dickinson è uno dei rari scrittori che si ricordano, a questo proposito, della esistenza del commercio internazionale. Bisognerà che, una volta o l’altra, si ponga in luce l'influenza teorico-pratica di questo

fatto su taluni punti trascurati dell'economia pubblica.

Io definisco la teoria del commercio internazionale, come la dottrina deH’equilibrio economico su AI mercati interdipendenti. Mentre, nell’econo­ mia pura, si studiano le leggi dell’equilibrio su un solo mercato, che teori­ camente può anche essere il mondo intero considerato come una sola unità, le conseguenze del passaggio dall’equilibrio di un mercato a quello di parecchi mercati più o meno aperti fra di loro sono numerose e pro­ fonde, sia in economia pura, sia per lo studio pratico degli attriti che ne derivano. Ad esempio, l’azione dei poteri pubblici esercita un effetto determinato sulla vita economica, quando si esamini un solo mercato na­ zionale, studiato come organismo economico chiuso. Se si tiene conto di stati in relazione economiche fra di loro, tutta la dottrina dell’influenza degli interventi governativi di un paese nella sua vita economica si tra­ sforma, quando addirittura non si capovolge. Ogni stato può comandare ai suoi cittadini, non già agli stranieri, i quali reagiscono, influendo così a loro volta su gli altri paesi. B per questa ragione molto sem­ plice che, quando un governo vuole impacciarsi dell’economia e pre­ tende applicarvi delle proprie ideologie sulla così detta giustizia econo­ mica, è costretto gradatamente a chiudere le porte doganali ed a ridurre il paese ad un mercato più o meno chiuso.

20. — Senza entrare in queste considerazioni, e sotto una forma per­ fettamente diversa, il nostro A. osserva subito che « il principio dei costi comparati si applica ad una economia socialista, come ad un’economia ca­ pitalistica » (p. 248). E spiega questo concetto con un esempio semplice ed elementare. Il che mi rende però incomprensibile ciò che egli scrive immediatamente dopo (p. 249) : « La politica di una comunità socialista, per ciò che riguarda il commercio con l’estero, dovrebbe essere non il

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libero scambio, che è inconsistente coi principi del collettivismo, ma la non­ discriminazione fra fonti estere e fonti domestiche dell’offerta. È con la non­ discriminazione, piuttosto che con la libertà commerciale, che l’accordo ortodosso in favore del libero scambio si dimostra economicamente vantag­ gioso » (sic). E aggiunge che una comunità socialista potrebbe praticare la non discriminazione, « pur proteggendo il mercato interno dal dum­ ping e dalle fluttuazioni brevi ». Il che non ha nulla a che fare coi dazi protettivi. E l’A. avverte ancora che « tale comunità potrebbe incoraggiare le industrie in un primo periodo; e siccome non vi sarebbe nessun corpo indipendente di imprenditori con interessi opposti all’interesse sociale (sic), non sorgerebbe il pericolo che una tale protezione e incoraggiamento ve­ nissero usati come paravento a depredazioni monopolistiche ». Tutto ciò è ideologia, non economia, e quindi rinunzio a discuterla.

21. — Ben più logicamente, passando ad altro argomento, l’A. os­ serva che il problema del cambio non presenta difficoltà per il fatto di

essere l’oro e i cambi nelle mani di organi pubblici.

Però qui valeva la pena di trattenersi un poco su questi argomenti. L’importanza del problema non consiste nel fatto che il cambio sia o non sotto o sopra alla pari e che l’oro entri od esca dallo stato. Questi due tenomeni, in economia normale, altro non significano che uno squi­ librio immediatamente curabile in guisa automatica nella bilancia dei pa­ gamenti internazionali. Ciò che è importante sono le conseguenze [foriate

sui prezzi e sulla produzione da questi due fenomeni: automatiche in re­

gime di libero scambio, tali conseguenze esigono uno speciale intervento statale in regime socialista. E la cosa diviene più complessa ove si tratti di movimenti mondiali di entrare od uscite anormali di merci, di servizi, di capitali, con tutte le complesse reazioni che comportano. Lo stato socialista accetta l’entrata e l’uscita libere di capitali sotto qualsiasi forma? Come interpreta esso movimenti internazionali su grande scala dell’oro? Intro­ durrebbe ed amministrerebbe direttamente uno « Exchange Equalisation Account », con tutte le conseguenze?

Ecco una serie di interrogativi che meritano di venire studiati.

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Il

problema, basandolo sul fatto che nella teoria economica liberale il ca­ pitale è proprietà privata. Il resto costituisce tutta materia secondaria.

Egli ricorda (5) che il giapponese Shibata ha osservato che il capita­ lismo nella sua evoluzione tende 1) allo «oligopolio»; 2) al protezio­ nismo; 3) al nazionalismo; 4) alla rivalità internazionale e all’aumento della instabilità economica nel sistema capitalistico stesso e che, distrug­ gendo la sicurezza economica e sociale della popolazione dei paesi capita­ listi, spinge alla ribellione contro il vigente sistema economico, qualunque sia la forma che assume questa ribellione, con le sue relative svariate ideologie.

Si potrebbe aggiungere altresì che le guerre, insite nel sistema ca­ pitalistico, impoverendo i popoli, eccitando il nazionalismo antiliberale, preparando conflitti, operano già a loro volta una redistribuzione delle ric­ chezze fra profittatori e spogliati, che creano, per mantenere l’ordine esteriore, dei regimi contrari ad ogni libertà: il che riaggrava, acuendole, le differenze fra le varie classi sociali e prepara guerre interne ed estere.

Tale è la fotografia esposta dallo scrittore giapponese. Il quale os­ serva per conto suo che la transizione dal libero scambio al controllo mo­ nopolistico fu dai più interpretata come un atto di follia economica, ossia non venne capita dagli economisti « borghesi ». Così pure la rivalità im­ perialistica delle potenze capitaliste venne spiegata in termini puramente politici, e non si afferrò a fondo la connessione fra tale rivalità impe­ rialista ed il controllo economico monopolista. Solo Marx, afferma l’A., malgrado i suoi errori e la unilateralità della sua visione storica, intuì l’elemento che stava a fondo del rivolgimento quale lentamente si andava elaljorando.

L’A., a questo proposito, propone un interessante e curioso quesito. « Immaginiamo — egli si chiede — due persone : una che ha imparato l’economia solo dalla scuola austriaca, da Pareto e da Marshall, senza mai avere udito o letto una sentenza di Marx (o dei suoi discendenti); l’altra che, al contrario, conosce l’economia soltanto da Marx e dai marxisti, e non sospetta neppure che vi possano essere stati degli econo­ misti al di fuori della scuola marxista. Chi dei due sarà in grado di discutere in modo migliore sulle tendenze fondamentali della evoluzione del capitalismo? Porre la domanda — egli conclude — equivale a ri­ spondervi » (art. cit. p. 191).

(5) O. Lange, Mancia» Economia and Modem Economie Theory in « T h e Review

of Economie Studies », Yo!. II, n. 3, june 1935, p. 189 e sgg.

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Per lo scrittore, « la superiorità di Marx è soltanto parziale ». Sembra allo scrivente che la domanda stessa sia male impostata. Di fronte a questa domanda, la risposta è che il primo lettore si trova in una situazione infinitamente superiore al secondo; perchè se capisce bene Pareto e Marshall, conosce bene la scienza economica e, sopratutto, il metodo per ragionare economicamente.

Marx servi moltissimo « à rebours », al progresso della scienza eco­ nomica, e sopratutto servì ad eliminare la pseudo-scienza ottimistica dei Bastiat ed altri scrittori del genere. Ma ambo le dottrine non costitui­ vano la dottrina economica.

Gli operai, conquistando la libertà di organizzazione, tradussero in atto da sè, fra il digrignare dei denti del capitalismo protetto dai dazi e dalle forze armate, le leggi del loro progresso, risolvendo, in pratica e coi fatti, alcune delle più interessanti leggi scientifiche dell’economia e dei rapporti pacifici fra le varie classi sociali.

Nè vale l’obiettare, come sembra faccia il nostro A., che « l’economia classica è statica, non dinamica »; il che è un vero sproposito.

Sinora, certamente si è potuto concludere poco in materia dinamica: studi elementari, scarse formole matematiche poco utili: il che si com­ prende, data la difficoltà di seguire le variazioni nei valori delle elasticità delle domande-offerte; delle reazioni sulle produzioni; della possibilità o meno dei trasferimenti dei capitali da un impiego all’altro; della lunghezza dei periodi di trasformazione; delle reazioni degli altri mercati, ecc.

Ciò che può fare — e che fa — l’economista, è di seguire le tra­ sformazioni del mondo economico, e vedere se esse ne modificano definiti­ vamente l’equilibrio; e, finora, si è constatato che, ad equilibrio ritornato in ordine, si ritrovano esattamente le medesime condizioni dello stato di cose precedenti. Ed è questa convinzione, poggiata sui dati statistici, che rende scettici gli economisti sulle trasformazioni sociali, considerate dal punto di vista economico. £ lo sviluppo dei metodi di produzione e sono i perfezionamenti di questi e degli scambi, gli elementi che determinano il progresso e l’allargarsi del benessere: una volta sviluppata così la si­ tuazione economica, la redistribuzione delle ricchezze ritorna ad essere determinata dalie eterne leggi del valore.

In fondo, a ben riguardare, tali altresì sono le ultime conclusioni dei magistrali studi dello Schùmpeter (6) in questa materia.

(6) Theorie der winschaf ¡lichen Enlwicklnng (1931), D ritte Auflage, Duncker und

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92 ATTILIO CABIATI

23. — È perciò che mi sembrano inaccettabili alcune osservazioni del dott. Lange. Ad esempio, egli afferma (art. cit. p. 193): « L ’economista il cui orizzonte non si estende oltre i limiti di una teoria puramente statica dell’equilibrio, nega di solito la possibilità di una teoria dell’evoluzione economica ( ! ) » .

Così pure dicasi della dimostrazione del Marx, che « il profitto del­ l’imprenditore capitalista, da cui deriva anche l’interesse (sic!) è spiegato da esso come dovuto alla differenza fra il valore della potenza produttiva dell’operaio ed il valore di mercato del prodotto creato dal lavoratore stesso.

Ora, secondo la teoria del valore in termini di lavoro, il valore della potenza del lavoro è determinato dal suo costo di riproduzione. Siccome in una società civilizzata — osserva l’A. — un lavoratore è in grado di produrre più di quanto gli occorre per la sua sussistenza, egli crea un so­ vrappiù, che forma la base del profitto dell’imprenditore. La quale afferma­ zione, come è noto da un pezzo, è completamente sbagliata.

« Tuttavia — osserva l’A. — il punto cruciale della teoria marxista è la applicazione della teoria del valore dipendente dal lavoro alla determi­ nazione dei salari. Se il prezzo di mercato del tessuto di cotone eccede il suo “ prezzo naturale ", capitale e lavoro affluiscono nell’industria dei tes­ suti di cotone, finché, attraverso al crescere dell’offerta di tale prodotto, il suo prezzo di mercato si eguaglia al suo “ prezzo naturale” ».

« Ma questo meccanismo riequilibratore, che costituisce la base della teoria del valore dipendente dal lavoro, non si può applicare al mercato del lavoro stesso », continua l’A. « Se i salari salgono al di sopra del “ prezzo naturale ” del lavoro, in guisa da minacciare di annullare i pro­ fitti dell’imprenditore, non vi è la possibilità di trasferire capitale e lavoro da altre industrie alla produzione di una offerta più larga di potenza lavo­ rativa. Sotto questo rispetto, la potenza del lavoro differisce fondamental­ mente dagli altri beni. Quindi, per mostrare che i salari non possono ecce­ dere un certo massimo e quindi annullare i profitti, bisogna introdurre un principio diverso dal meccanismo ordinario, il quale fa sì che i prezzi di mercato tendano verso i “ prezzi naturali ” ».

A questo punto il Dr. Lange perde del tutto la bussola. Che i salari non possano annullare i profitti è cosa evidente, perchè in tal caso gli altri fattori della produzione non entrerebbero coi capitali nell’azione produttiva e lascerebbero gli operai a sbrigarsela da sé. L’A. invece trova che l’econo­ mia capitalistica, per impedire l’aumento dei salari, trovò « il principio della

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teoria della popolazione! ». Il che, oltre ad essere un errore strano, non spiega niente! Se il capitale superasse l'assorbimento della popolazione, l'in­ teresse ribasserebbe ed aumenterebbero i salari. Evidentemente l’A. non ha studiato la teoria dei prezzi dei beni congiunti e composti. Ed è evidente quindi che dopo di ciò appaia insostenibile la conclusione del dr. Lange, che mette conto di esporre integralmente : « Dal nostro resoconto della teo­ ria marxista della evoluzione economica, diventa evidente che la necessità di tale evoluzione non risulta dal processo dello scambio e dei prezzi, ma dallo speciale sistema istituzionale, in forza del quale questo procedimento sbocca nel sistema capitalistico. La specificazione dei dati istituzionali della teoria economica borghese (sic) è troppo ampia, dal momento che non offre nulla più che gli elementi istituzionali comuni ad un qualsiasi tipo di eco­ nomia di scambio. Ma poiché questa specificazione dà dei risultati troppo generali per potersi poi applicare a dei problemi specifici (sic), essa di solito sovrappone una specificazione molto stretta dei dati fondamentali riguar­ danti il sistema monetario e bancario (quali, ad esempio l’esistenza o meno del gold standard, oppure se il sistema bancario permette o no una in­ flazione del credito ecc.) ».

E qui l’A. mette in un fascio la tesi liberista e quella intervenzionista, il nazionalismo economico e le rivalità imperialiste, ecc. dimostrando sol­ tanto: 1° che egli non possiede una idea molto precisa dei fenomeni eco­ nomici e della evoluzione economica, e che non si è fatto un’idea che l’eco­ nomia è una scienza molto precisa, dentro cui possono interferire interventi politici, ma portando ad una distruzione di ricchezze, con relativo rallen­ tamento del benessere di tutte le classi, quelle proletarie comprese. Sicché anche sotto questo punto di vista non sembra — salvo dimostrazione in con­ trario — che un interventismo statale al 100 % , come è il socialismo, possa guarire i mali degli interventismi parziali.

Conviene seguire ancora le opinioni che il Dr. Lange manifesta in un altro lavoro dal titolo On thè Economie Theory of Socialista (7); anche per­ chè ciò permette di rilevare le obbiezioni sollevate contro la sua tesi da un altro scrittore importante in materia, il signor Lerner.

In questo studio, il Dr. Lange prende come punto di partenza la ne­ gazione del von Mises, che una economia socialista non è in grado di ri­ solvere il problema dell’impiego razionale delle risorse disponibili in regime socialista. Il Dr. Lange afferma che la tesi dell’illustre economista austriaco

(7) On thè Economie Theory of Socialism in « The Review of Economie Studies »,

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I

si fonda su una confusione che riguarda la natura dei prezzi. Come Wick- steed ha posto in rilievo — osserva il Lange — il termine « prezzo » pre­ senta due significati. Esso può voler dire il rapporto di scambio di due merci sul mercato; oppure può avere il significato più generico, di termine in cui sono offerte delle alternative. Il prezzo allora, nel senso più ristretto di mo­ neta contro cui si può ottenere un oggetto materiale od un servizio, è sem­ plicemente un caso speciale di « prezzo » nel senso più ampio di « termini in cui ci si offrono delle alternative ».

II problema economico è in fondo appunto un problema di « scelta » fra una varietà di opzioni. Per risolvere il problema del come si distribuirà un mezzo di pagamento fra tali alternative, occorre risolvere tre incognite: 1° una scala di preferenza, che guida la scelta; 2° la conoscenza dei termini a cui sono offerte le alternative; 3° conoscere l'ammontare delle risorse di­ sponibili. Dati per ogni individuo questi tre elementi, il problema resta determinato.

Ora, ragiona il Lange, è ovvio che un’economia socialista può consi­ derare come dati gli elementi primo e terzo, almeno nello stesso grado fornito dall’economia capitalista. Il dato 1° può venire fornito o dalle schede di domanda degli individui, oppure venire stabilito dal giudizio delle auto­ rità che amministrano il sistema economico.

Rimane la questione se i dati sotto il numero 2° sono accessibili agli amministratori di un’economia socialistica. Il von Mises lo nega. Tuttavia, osserva il signor Lange, appare evidente che uno studio accurato della teo­ ria dei prezzi e di quella della produzione convince che, dati gli elementi sotto i numeri (1 e 3), i termini in cui le alternative sono impostate ven­ gono determinati in ultima analisi dalle possibilità tecniche di trasforma­ zione fisica od economica di una merce in un’altra, ossia dalle funzioni produttive. Gli amministratori di un’economia socialistica avranno la stessa capacità degli imprenditori capitalisti. Ma, osserva sempre il Dr. Lange, il von Mises sembra che abbia confuso i prezzi nel senso stretto, ossia rap­ porti di scambio fra merci sul mercato, con prezzi nel senso più ampio, di termini ai quali vengono offerte delle alternative. Siccome, in conseguenza della proprietà pubblica dei mezzi di produzione, nella economia colletti- vista non vi è nessun mercato su cui i capitali vengono permutati, è ovvio che non esistono nemmeno dei prezzi di questi beni capitali, nel senso di un rapporto di scambio. E quindi, il von Mises arguisce, non si ha nessun indice di alternative disponibili nella sfera dei beni capitali.

Ora, conclude e ripete il Dr. Lange, questa deduzione è basata su una / \ / ; •

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confusione di « prezzo », nel senso più ristretto della parola, con « prezzo » nel senso più largo di indice di alternative. Ed è in quest’ultimo caso che i « prezzi » sono indispensabili per una concessione delle risorse e, sulla base delle possibilità tecniche di trasformazione di una merce in un'altra, essi sono dati anche in una economia socialista.

24. — Traducendo ora in forma più piana e meno nebulosa il ragiona­ mento del Dr. Lange, si può esporre il problema così.

Il von Mises sostiene che la proprietà privata dei mezzi di produ­ zione è indispensabile per una ripartizione razionale delle risorse disponi­ bili. Siccome, secondo la sua tesi, senza la proprietà privata dei mezzi di produzione non esiste un indice preciso per determinare la ripartizione più economica dei mezzi di produzione, in quanto vengono a mancare gli in­ dici economici della scelta fra le diverse alternative di impieghi dei mezzi di produzione stessi, ne deriva l’impossibilità, in un sistema socialista, di un qualsiasi calcolo economico. Ragionamento questo, che venne più tardi esposto in forma più raffinata dai professori von Hayek e Robbins: i quali però non negano affatto la possibilità teorica di una soluzione socialistica, ma avanzano dei dubbi sulla sua realizzazione pratica.

La critica del Dr. Lange però convince solo in quantp ridimostra il ra­ gionamento dei matematici, che anche in regime non liberista il problema teorico resta perfettamente determinato. E neppure si può negare a priori che, dal punto di vista pratico, il problema non possa venire risolto razio­ nalmente: è questione di assaggi, quali precisamente avvengono anche in regime di economia normale (l).

Qui però sorgono altre obbiezioni.

Dobbiamo cioè tenere conto del fatto che, quando si parla in teoria pura della « utilità massima », raggiunta autorqaticamente dall’insieme so­ ciale in regime di libera concorrenza, si parte da ipotesi esatte « pro tan­ tum ». Si suppongono, cioè, dei perfetti « homines oeconomici », i quali esi­ stono solo in teoria pura. Si ipotetizzano dei contraenti di uguale forza, il che non è in pratica. Si prescinde dall’elemento del tempo, decisivo a favore degli « have », ed a sfavore degli « have not » ; per cui i contraenti non sono affatto quantità omogenee. Sicché, in via di fatto, per fronteggiarsi, le

(1) Mentre rivedo le bozze di questo studio, mi giunge il recentissimo nuovo volume del prof, von Mises, Nationalökonomie. Theorie des Handelns und Wirtschaf lens (Editions

Union, Genf, 1940). Mi riservo, sulla base di esso, di ritornare su alcuni punti nuovi posti

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% ATTILIO CABIATl

varie categorie di permutanti si sono costituite, le une di fronte alle altre, in sindacati, sostituendo così dei « duopoli », di fronte al caso ipotetico della libera concorrenza.

Questo stato di cose è quello che, in fondo, rappresenta la causa e la ragione delle dottrine socialiste, le quali, sotto l’aspetto teorico, rappresen­ tano indiscutibilmente un errore; non già sotto l’aspetto delle impossi­ bilità economiche ipotetizzate dal von Mises e così vigorosamente combat­ tute dal Dr. Lange, ma bensì da punti di vista che riguardano la teoria del- l’equilibrio dei mercati, studiati in una seconda approssimazione.

25. — In un discorso presidenziale alla Associazione economica ame­ ricana (8) il prof. Fred. U. Taylor pone bene in luce il fatto che uno stato socialista, nei suoi piani, si organizza e si premunisce così come fa un privato.

Si esaminano, cioè, i bisogni, in rapporto ai costi e alle entrate e si determinano in tal guisa le curve di domanda-offerta, correggendole sino a quando i fatti dimostrano che si è raggiunto un equilibrio. Una famiglia che si formasse e che determinasse il proprio fabbisogno, date le entrate presumibili, procede precisamente per « tatónnements », nè più nè meno di come deve fare uno stato di nuova creazione, tenendo conto con una certa larghezza dei possibili attriti.

Si deve tenere presente che anche in regime socialistico la spesa del privato costituisce un’entrata dello stato, il quale copre con essa le spese di produzione, di esercizio e di vendita, tenendo conto dei rischi. E, se il costo è tenuto alto «comparativamente », il consumo diventa minore; ossia lo stato riceve meno beni o servizi dal privato. Il problema chiave, quindi, resta il costo, precisamente come nell’economia dell’individuo.

Data poi tecnicamente, l’odierna struttura produttiva, basata sulla eco­ nomia a produttività crescente (costi decrescenti), torna evidente che lo stato non avrebbe interesse, in generale, a vendere ad un prezzo di molto superiore al costo, poiché il consumo diminuirebbe, rendendo generalmente cara la produzione e la vendita, raro il risparmio, ridotti al minimo neces­ sario i consumi.

In regime socialista, ripete il signor Taylor, gli interessi dello stato e dei consumatori e risparmiatori sono strettamente coincidenti. Lo stato, per

(8) The Cuidance of Production in a Socialist State nel fascicolo del marzo 1929 di

« The American Economie Review », p. 1 e sgg.

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di più, non produrrebbe quei beni e servizi la cui domanda fosse così scarsa e a prezzi bassi, da non coprire i costi di produzione.

26. — Continuiamo per conto nostro la via tracciata dal Taylor. Il costo, anche in regime liberista, si determina sulla base dello sforzo che i consumatori dimostrano di essere disposti a sostenere per acquistare la quantità q del bene B. Qui pure, come insegnava Walras, si procede per « tatónnements ». Ogni consumatore fa la lista delle sue domande, ai prezzi fissati dal ministro della produzione : e questi varia la produzione, a seconda dei gusti dei consumatori-produttori. Se per taluni generi la domanda è meno acuta, varia la produzione: questa è come un mare: le onde rappre­ sentano gli attriti che sorgono nella superficie piana delle acque.

Teoricamente, non è indispensabile alla riuscita del piano socialista che tutti i redditi dei cittadini si avvicinino. In uno stato progredito di ricchezza, il cittadino che accumula capitali rende un servizio alla collettività; nè egli può normalmente jugularla, perchè la sua ricchezza, per vasta che sia, è inferiore a quella della collettività: e se, per piegare lo stato, il privato la­ sciasse inoperoso il capitale, perderebbe per primo i benefici derivanti dal­ l’utile impiego di esso.

27. — Vicino a questo ordine di idee è lo studio già citato (nel § 13) del signor H. D. Dickinson sulla formazione dei prezzi in una società so­ cialistica. In questo studio l’A. mostra come il potere centrale socialista potrebbe organizzare la produzione e la vendita. Riprendendo il problema di cui già abbiamo ivi parlato, l’A. per altra via conclude che tutto il pro­ blema si può risolvere con un gruppo di equazioni simultanee, oppure in un problema di calcolo delle variazioni.

Così impostato, si può ritenere risolto il problema dell’equilibrio? A me sembra che il prezzo varierà altresì: 1" in funzione del tempo impiegato per la produzione; 2° per i rischi di ogni genere, che normalmente qual­ siasi produzione presenta.

28. — È esattissimo invece quanto afferma (p. 246), l’A. che il calcolo socialista del costo prenderà forzatamente in esame la differenza fra il prezzo d’offerta ed il prezzo « dell’offerta marginale », secondo il calcolo stabilito dal prof. Pigou (9). I rischi normali verranno cioè calcolati coi

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