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Rivista di storia economica. A.05 (1940) n.4, Dicembre

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(1)

RIVISTA

DI S T O R I A

ECONOMICA

D I R E T T A D A L U I G I E I N A U D I

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Direzione: Via lamarmora, 60 - Torino. Amministrazione: Giulio Einaudi editore. Via M ario Gioda, I - Torino — Abbonamento annuo per l'Italia L. 50. Estero L. 80. Un numero L. 15.

Anno V - Numer o 4 - Dicembre 1940 - XIX

Luigi Einaudi: Rileggendo Ferrara - A proposito di critiche recenti alla proprietà letteraria ed indu­

striale... Pag. 217

N O T E E RASSEG NE:

Giulio Capodaglio: A proposito del rendimento delle

azioni di Suez... » 257 F. A. Répaci: Le vicende del commercio internazio­

nale italiano dal 1871 al 1938... » 262 Luigi Einaudi: Corporazioni d'arti e mestieri, bilancio

del commercio e moneta negli economisti mila­

nesi della seconda metà del settecento . . . . » 267

REC EN SIO N I di : S. Golzio, G. Carano-Donvito, T., A. B., su libri di C. I. Roos ed altri, V. Ric- chioni, R. F. Harrod, A. Cowles, D. Black, M . C. Daviso di Charvensod, B. Paradisi, G. Donna,

I. M. Sacco, B. Dudan, F. C. Lane e G. Barbieri. » 276

TRA RIVISTE ED A R C H IV I:

(4)

sione di riflettere ancora una volta sulla perenne freschezza delle « intro­

duzioni » che il Ferrara premetteva alle pagine della « Biblioteca dell'eco­

nomista » ed agli insegnamenti che anche oggi se ne possono trarre.

L’articolo rianda la vecchia controversia sui beni immateriali e le illazioni che

l’autore traeva dalla sua teoria per negare la proprietà letteraria. La nega­

zione ferrariana trae rinforzo dai più recenti sviluppi della teoria econo­

mica e da quelli, non meno rilevanti, della tecnica moderna. La discussione

è fatta sovratutto servire ad illustrare in primo luogo la inesistenza, nel

passato e nel presente, di una cosidetta teoria liberistica pura, contraria

cioè all’intervento dello stato nelle cose economiche, ed in secondo luogo

la vera natura del contrasto, che non è fra intervento e non intervento, ma

fra intervento « giuridico » ed intervento « amministrativo ».

Dopo una breve nota nella quale il Capodaglio, ritornando sulle sue

indagini con nuovi sviluppi, illustra viemmeglio il rendimento delle azioni

del canale di Suez, il prof. Répaci illustra le vicende del commercio interna­

zionale italiano dalla costituzione del regno al 1938. Le statistiche rielaborate

e rese omogenee danno luogo a rilevazioni di straordinario interesse. I lettori

guardino in particolar modo all’ultima tabella. Salvo durante la grande guer­

ra, il cosidetto deficit della bilancia commerciale, intorno a cui si fa comu­

nemente tanto rumore, si riduce a cifre ben modeste. 1 massimi antebellici,

per se stessi assai moderati, si toccano dal 1906 al 1913, ossia nei periodi di

massima prosperità economica. Così pure, nel dopoguena, i massimi disa­

vanzi si hanno nel decennio 1921-930, che fu il più prospero, economicamen­

te, dopo il 1918. Luigi Einaudi riassume in seguito le impressioni che egli ri­

cevette dalla lettura di un gruppo di inediti recentemente messi in luce dal

prof. Vianello e di importanza eccezionale per la conoscenza dei problemi

corporativi, commerciali e monetari della Lombardia del secolo X V Ill e

del pensiero di uomini come Pietro Verri, G. C. Carli, Cesare Beccaria ed

altri minori, ma pur insigni economisti. Ragioni della decadenza delle

antiche corporazioni d’arti e mestieri, suggerimenti intorno alla discussione

dei problemi monetari, dubbi intorno al contributo scientifico degli eco­

nomisti italiani alla teoria degli scambi internazionali : ecco i principali punti

toccati nella nota.

Chiudono il fascicolo le consuete informative recensioni e riassunti di

riviste ed archivi.

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ATTILIO CABIATI

I L S I S T E M A A U R E O

E

IL FONDO DI CONGUAGLIO

DEI CAMBI

Un volume della « Biblioteca di Cultura Economica » di p. 324, L. 25.

Che posto avrà l’oro nella nuova

sistemazione europea e mondiale ?

Questo libro vi aiuta a comprenderlo.

BRUNO MINOLETTI

LA MARINA MERCANTILE

E LA SECONDA G UERR A MONDIALE

Un volume della collezione « Problemi Contemporanei » di p. 225, L. 18.

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(7)

Rileggendo Ferrara - a proposito di

critiche recenti alla proprietà let­

teraria ed industriale.

1

.

— Qui non si vuole riprendere la discussione intorno ai beni « im­

materiali ». Lo Jannaccone ne riassunse lapidariamente le tre fasi cosi :

« — nella prima, (i fisiocrati, Adamo Smith) la distinzione fra beni

materiali ed immateriali è posta, ed è affermato che soltanto cose ma­

teriali possono essere considerate come beni economici;

— nella seconda, (G. B. Say, Dunoyer) la distinzione è mantenuta,

ma viene affermato che anche prestazioni e rapporti, non concretati in

cose materiali, debbono comprendersi fra i beni economici;

— nella terza (Francesco Ferrara), la distinzione è negata e la op­

posizione fra le tesi della prima fase e l’antitesi della seconda è superata

e conciliata col sostenere che non esistono beni soltanto materiali e beni

soltanto immateriali, perché tutto ciò che promana da l’uomo ed è diretto

all’uomo è necessariamente un misto di materiale e d’immateriale: la sin­

tesi (in Lezioni di economia politica, p. 27) ».

La discussione, chiusa con le due « prefazioni » del Ferrara alle opere

dello Storch (Discussione sulla teoria dei prodotti immateriali, introduzione

del 1853 al voi. IV della prima serie della « Biblioteca dell’economista »)

e del Dunoyer (Teoria dei prodotti immateriali, introduzione del 1859 al

voi. VII della seconda serie della stessa « Biblioteca ») è qui ricordata sol­

tanto a cagione del profitto che ne trasse il Ferrara nella battaglia invano

sostenuta contro il principio della proprietà letteraria ed industriale (bre­

vetti od attestati di privativa per invenzioni industriali).

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2

. — La distinzione non esiste, esclama il Ferrara:

« H o detto che tutte le produzioni hanno i due stadii, di forma utile c di

effetto utile; e che noi siam liberi di riunire queste due fasi in un sol fenomeno complessivo, o separarli. Ma noi non possiamo, senza essere illogici, accorciare in un caso, ed elargare in un altro, i limiti del fenomeno, per inferire da questo modo arbitrario di determinarlo che alcuni prodotti sono materiali ed altri noi sono. Se noi poniamo per termine del fenomeno lo stadio del consumo, ne verrà ih e tutte indistintamente le produzioni si dovranno considerare come operanti sul­ l'uomo, ed apparterranno perciò alla classe delle immateriali. Se invece ci arre­ stiamo alla fase della generazione d'una forma utile, nessuna industria si potrà dire operante sull’uomo, tutte si troveranno limitate alla trasformazione della ma­ teria; e i prodotti immateriali finiranno di esistere.

« Il panattiere crea un pane, il professore crea una lezione. N e l sistema di Dunoyer si dirà che il panattiere ha dato un prodotto materiale, il professore ha dato un prodotto immateriale. Può ciò sostenersi ? N o , se la parola prodotto significa in ambi i casi la stessa cosa ; si, se la si fa significare due cose diverse.

« Se si vuole che prodotto significhi tutto il fenomeno, la creazione della forma utile e poi il consumo di questa forma; noi troveremo che la lezione modifica il cervello di chi l ’ascolta, e il pane modifica le viscere di chi lo mangia : tanto dunque può dirsi che lavora sull’uomo il professore che lo istruisce, quanto ciò dee dirsi del panattiere che lo nutre.

« Se si vuole che prodotto significhi soltanto la prima parte del fenomeno, la creazione della forma, senza tenersi alcun conto dell’effetto che verrà dal con­ sumo, si dee volerlo per ambi i casi. Allora, il pane, non per anco consumato, non accostato alla bocca d’un uomo, è un prodotto che non opera la modifica­ zione di un essere umano: io lo concedo benissimo a Dunoyer. Ma allora, come mai si dirà che la lezione, finché non fosse comunicata ad alcuno, sia qualche cosa diversa? qual modificazione avrà essa arrecato in alcun essere umano? Evi­ dentemente nessuna. Esiste a sé, come il pane; sarà adunque, come il pane, una produzione, che non agisce ancora sull’uomo, sarà un prodotto materiale.

« P e r introdurre una differenza fra la natura del prodotto pane e quella del prodotto lezione, bisogna ricorrere ad un sofisma; per l'uno si darà alla parola

prodotto il senso di mera produzione; per l ’altro le si darà il senso di produ­ zione e consumo » (pp. 59-60).

Che una qualche materia stia alla base dei prodotti immateriali è evi­

dente; la vediamo « appunto là dove si trova per ogni altro prodotto »:

« N e l momento medesimo in cui un prodotto immateriale si crea, in cui può dirsi creato, è necessità indeclinabile che sorga una forma, alla quale esso si leghi. N on occorre, veramente, cercare ove sia questa forma; io vorrei piuttosto che i so­ stenitori de’ prodotti immateriali ci sappiano indicare dove essa non sia, che ce ne mostrino un solo, l ’apparizione del quale sia affatto indipendente da una materia qualunque.

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RILEGGENDO FERRARA 219

« N ella maggior parte dei casi, essa palpabilmente si vede. La statua, il quadro, il libro, non sono dunque oggetti corporei quanto il pane, il tessuto, il martello? Talvolta, è vero, la materia si eclissa; ma basta allora un po' di riflessione per rintracciarla. In tali casi si riduce a de' suoni, a delle parole; sarà dunque un’aria, corpo non men reale di un altro, e che implica un apparecchio tutto cor­ poreo, nelle labbra che profferiscono la parola, ne' gesti che l'accompagnano, nelle orecchie che ascoltano, negli organi ¡che la trasmettono, nel cervello che la riceve e l'interpreta. G. B. Say fu m olto facile a dire che “ il medico vende l'utilità dell'arte sua senza che l ’abbia incorporata in alcuna materia „. Come mai conce­ pire che il pensiero del medico si riveli, divenga permutabile, si venda, si trasmetta, senza un mezzo di trasmissione, il quale, qualunque esso sia, piccolo o grande, semplice o complicato, sarà sempre materia? Io mi spingo anzi più in là: se anche non ci si parli che del puro pensiero concepito e rimasto dentro di noi, tostoché esso si consideri come un prodotto, sarà pur forza di riconoscere, come ho già detto di sopra, che non si potè formolarlo senza il concorso d'un apparecchio cerebrale e nervoso. A l di qua poi di una tale ipotesi estrema, sarà pur forza di ricono­ scere che, fra le numerose produzioni a cui il titolo d‘immateriale si è tanto pro­ fuso, non ve n'ha una sola, la cui esistenza non supponga un insieme di cose sensibili, molto più vasto e complicato di quello che a prima giunta si crederebbe. L’insegnamento, le arti, la commedia, il sermone, la difesa dell'avvocato, la cura del medico, la giustizia del magistrato, il pensiero del filosofo, al momento che prendano la qualità di prodotto e diventano godevoli utilità, bisognerà inevita­ bilmente che paghino il loro tributo alla materia: e scuole, scene, pulpiti, panche, strumenti, sale, prigioni, carta, inchiostro, torchi, voce, aria, gesto, luce, colori.... tutto ciò è indispensabile condizione senza cui la cosa prodotta non esisterà; ma tutto ciò che cos’è? nient'altro che pretta m ateria» (pp. 60-61).

Le due parole « materiale » ed « immateriale » possono essere usate

solo quando si sappia che esse segnalano un distacco di mero grado, non

di sostanza, un più od un meno di corporeo o di spirituale, ed un più od un

meno « empirico e temporaneo, mutabile secondo i punti di vista e le ten­

denze di chi adoperi quei vocaboli » :

(10)

3

. — Stupende e divinatorie sono le illazioni che il Ferrara trasse

dalla sua teoria-sintesi dei beni economici. Gran colpa fu quella di tanti

economisti i quali, sostenendo che la loro scienza avesse ad oggetto un

qualcosa di materiale, diedero la spinta alle vane discussioni sulla mate­

rialità ed immaterialità dei beni economci ed alla esclusione irrazionale dei

beni cosidetti immateriali dal campo di studio della scienza economica. Essi

diffusero così l’idea che oggetto di questa siano « cose », laddove invece

sono gli atti « coi quali la specie umana intende rivolgere al soddisfaci­

mento dei suoi bisogni l’iniinita varietà di materie che la circondano » (pa­

gina 82). Oggi Robbins, con altri, afferma che la scienza economica non

coltiva un territorio oggettivamente definito e distinto da altri territori

studiati da altre scienze, ma abbraccia tutti i fatti, in quanto possono essere

studiati dal punto di vista economico. Ma già il Ferrara nel 1859 aveva

scritto :

« N ella ricchezza, presa in sé, nulla havvi da studiare, nulla su cui un eco­ nomia politica possa elevarsi. Il pane, il tessuto, la moneta, sono corpi come tanti altri; e come tali possono offrire materia di osservazioni, analisi, e deduzioni, al chimico o al fisico, ma nulla ha da vedervi l’economista. Per lui, acquistano un'im­ portanza in quanto l'uomo sia intervenuto a creare quelle forme particolari della materia, e sia mosso dallo scopo economico. E la sua determinazione, il metodo da lui seguito nel combinarle, il m etodo che seguirà nell’accumularle o distruggerle, ciò che può divenire argomento delle ricerche dell'economista. Che importa allora se l'esercizio dell’umana attività, volta al fine della migliore esistenza, si riveli in cose più o meno materiali? L’economista potrà distinguere i casi in cui la ricchezza si tocchi o si accumuli prima di consumarsi, da quelli in cui si concepisca soltanto, c si consumi nell’atto con cui si produca; ma la distinzone sarà fatta al solo scopo di rilevarne la poca importanza, per concluderne che, ciò nonostante, è sempre una la legge da cui il lavoro produttivo dell’uomo vien governato; e i dotti allora, invece di decretare un embargo sulle ricchezze immateriali, si sentiranno costretti di confessare che egli può e deve, senza offendere punto l’enciclopedia, compren­ dere, dal suo punto di vista, nella sfera delle sue indagini, enti, fatti, fenomeni, che da altri aspetti rientrino in altri rami dell’umano sapere » (p. 82).

(11)

pas-RILEGGENDO FERRARA 221

sano agli occhi dell’empio volgo come adoratori del vitello d’oro, idealiz­

zato« del risparmio rivolto alla formazione del capitale materiale, stru­

mento di oppressione dei poveri, siano questi individui o siano popoli.

Leggasi come Ferrara chiarisca il vero carattere del processo economico e

distrugga le antitesi inesistenti fra capitale e lavoro, fra risparmio e

consumo :

« Certo, il più sorprendente fenomeno che si possa contemplare nella vita economica dell'umanità, è quello che io chiamo capitalizzazione, cioè la concatena­ zione perpetua con cui i prodotti si succedono, per via di continue trasformazioni, crescendo sempre le utilità ricavabili dall’uomo. Ma ordinariamente noi confondiam o la capitalizzazione, cioè l ’aumento continuo dell'utilità, colla immobilizzazione delle forme, cioè coll’aumento del capitale. La capitalizzazione, nel modo in cui io l’in­ tendo, è una serie, nella quale la produzione ottenuta in un primo ciclo dev’essere seguita da una capacità di generare una produzione maggiore. Ciò non si ottiene che per via di successivi consumi, cioè di trasformazioni della materia. Il ferro, sotto forma di minerale, diventa martello; e in questo stato può produrre una maggior somma d’utilità. La pietra e la calce divengono casa ; la carta e l ’inchiostro divengono libro. Sono tanti atti di consumo quelli che creano il capitale e quelli che dal capitale fan sorgere una nuova e maggiore ricchezza; ed è un malinteso il supporre, come comunemente si fa, che il grande interesse dell’uman genere consista o nel non-consumare (accumulazione, risparmio), o nel non-consumare per­ sonalmente (astinenza, nel linguaggio di Senior). Il risparmio non può essere mezzo di capitalizzare, per l’evidente ragione che per capitalizzare si dee produrre, e per produrre si dee consumare. Se la creazione del capitale sostanzialmente consistesse nel non-consumare, noi dovremmo logicamente ridurci alla immobilità; finirebbe la stessa produzione, o produrre sarebbe astenersi dal por mano ad un movimento qualunque, c l ’attività umana consisterebbe nel renderci vittime volontarie de' nostri dolori. Ciò che si dice della materia in generale, è ugualmente, e più, applicabile all’uomo. Si è troppo elevato in principio che il capitale esclusivamente si formi da tutto ciò che l ’uomo sottragga a’ suoi personali consumi. Ciò viene dal non avere riflettuto che una parte delle materie, per le quali il fenomeno della produ­ zione avviene, si trova nell’uomo medesimo, ne’ suoi organi, nelle sue forze, e perciò nelle sue facoltà. L’uomo, consumando per sé, modifica l ’essere proprio, e g li dà un’attitudine produttiva che senza di ciò non avrebbe. E consumando il suo cibo e i suoi vestiti d ie l'agricoltore può arare la terra; c quel cibo e quegli abiti si sarebbero virtualmente perduti, se invece di nutrirlo e vestirlo, si fossero posti in serbo, abbandonati all’azione della natura, la quale, in tal caso più capitalizzatrice di lui, li avrebbe convertiti in vermi, in sali ed in gas, e fattili entrare nella com­ posizione di altre forme corporee.

(12)

a lungo; e ancora, nel massimo numero dei casi, tutto ciò che sia un po' permanente non resisterebbe, se continuamente non si lavorasse per impedirne la decadenza e la distruzione. In generale ogni cosa che si produca perisce e spesso assai celeremente. Se si fa un paragone fra le produzioni accumulate e le consumate, si vedrà assai chia­ ramente che il fenomeno principale della vita umana non è l’accumulazione, ma sì bene il consumo.

« Il nostro vero interesse sta nel consumare in quel modo, che offra il van­ taggio di farci acquistare una maggior capacità produttiva. Fra le tante maniere, in cui si possa far uso del prodotto ottenuto, certamente ve n’ha qualcuna, che più direttamente conduca alla più felice riproduzione possibile, e da quest’una la capita­ lizzazione dipende, e da ogni altra ci conviene astenerci. In tal senso, l’astinenza e il

risparmio divengono una condizione indispensabile; ma lo sono, non in quanto non si consumi la ricchezza prodotta, in quanto bensì si eviti ogni altro consumo men produttivo. £ un astenersi dal consumare in un modo, ma per consumare in un altro. Cosicché gli uomini potrebbero non far altro che consumare, potrebbero non accumulare giammai la menoma porzione di ricchezza sensibile; e nondimeno, se lo facessero in modo che ogni forma distrutta dia la massima capacità pro­ duttiva che si poteva ottenere, si troverebbero ogni giorno arricchiti d u n a attitu­ dine sempre nuova e più fresca, avrebbero, nel vero senso della parola, un capitale sempre crescente.

« .... la capitalizzazione dipende non già dal non consumare, non già dal- l ’astenersi dal consumare in beneficio dell’umana persona, non già dal fare sor­ gere esclusivamente una data specie di forme materiali; ma dal sapere, appena una

produzione ottenuta, indovinare immediatamente qual fosse il genere di consumo, da cui la produttività deU'umano lavoro si trovi più rapidamente e costantemente accresciuta » (pp. 90-92 e 94).

Fra le tante maniere di distribuire il lavoro umano in modo da giun­

gere ai consumi più vantaggiosi all’uomo ha pur luogo, ma luogo razio­

nale, la capitalizzazione:

« Il capitale e l ’atto che lo forma — accumulazione, risparmio — non devono riguardarsi che come un minor male, non come un bene supremo. I vantaggi che esso reca son relativi; ciò che in senso assoluto è più vantaggioso, è il consumo ben fa tto ...

« Se noi potessimo sempre esaurire in un momento tutte le utilità possibili a ricavarsi da una data forma, accumulare, risparmiare, formar capitali, sarebbe paz­ zia; noi non dovremmo che fare e disfare continuamente le forme utili. Ciò in alcuni casi ci è anche prescritto dalla natura, in tutti quelli ne' quali, se il god i­ mento non è sollecito, le leggi della chimica sopravvengono a generare la putrefa­ zione, ad eliminare la forma utile. N o n sarebbe egli ridicolo il voler conservare ed accumulare frutta od erbe, per il solo principio dell 'astinenza e del risparmio? In moltissimi altri, la natura ci lascia liberi nella scelta tra una forma da distrug­ gersi prontamente, ed un’altra da rendersi durevole. N o i c’inganniamo soventj, ma

/

(13)

RILEGGENDO FERRARA 223

il principio che cì deve regolare, e che effettivamente ci regola, è uno: esaurire tutte le utilità di cui una data forma è capace. Se è possibile esaurirle prontamente, sarà più utile il pronto consumo; se si richiede del tempo, conviene prolungare 1’esistenza della forma utile, ridurla in capitale. Ordinariamente, esaurirle subito riesce difficile, ed in questo senso, tutto ciò che prolunga la durata di un prodotto giova relativamente al consumo rapido della stessa forma; ma m olto spesso avviene che riesca invece di nocumento, nel rapporto tra una forma consumabile pronta­ mente ed un’altra durevole. Così, una piramide egiziana, priva di ogni utile scopo, è una grande accumulazione di pietre, calce, mattoni, lavoro d’uomini, ecc. Tutti questi materiali si potevano prontamente consumare in modo anche più sterile get­ tandoli per esempio nel N ilo , e ;invece si son conservati; ecco un aspetto, dal quale l ’accumulazione fu utile. Ma i medesimi materiali potevano pure convertirsi in strade, opifici, scuole, ecc. ; si sarebbero logorati, non esisterebbero più come esi­ stono oggi sotto forma piramidale, ma avrebber prodotto utilità ben maggiori, che, vestendo successivamente m ille altre forme, avrebbero ingigantito le capacità pro­ duttive: ecco un altro aspetto, dal quale l’accumulazione è molto meno desidera­ bile che il pronto consumo. Or, questo principio può avere larghe e numerose e cotidiane applicazioni nel mondo. D a un lato, è evidente che sarebbe pazzia in molti casi accumulare, sotto forme durevoli di macchine, di edilizi e cose simili, valori che servano fugacemente come materie grezze, come cibo dell’uomo, come capitale circolante; e ciò dimostra perché, quando si commettono simili errori, quando si convertono in canali, o in strade ferrate, masse di valori che riescono colà infrutti­ feri, non tarda a manifestarsi il fenomeno della crisi, cioè una calamità dataci in ricompensa d’un grande sforzo produttivo; calamità che non dovrebbe venire se il risparmio e l’accumulazione costituissero tutto il segreto della prosperità umana. D a un altro lato, è evidente che avvi altrettanta pazzia nel dissipare in un giorno quella forma utile che, consumata in un secolo, darebbe il centuplo delle utilità, che ora può dare; quindi l'insania delle spese di lusso e delle guerre; e quindi il motivo di rendere sempre meno distruttibili que’ prodotti la cui utilità non può essere esaurita all’istante. Ecco tutta la ragione del capitale. Esso non ha importanza nel mondo se non in quanto la pronta utilizzazione della materia non sia possibile; e noi non tendiamo a crederlo, se non in quanto ci è ignota la via di utilizzarla pronta­ mente » (pp. 95 e 97-98).

5.

— Tutti i beni economici sono dunque materiali ed immateriali in­

sieme. Negli uni prepondera l’elemento materiale o corporeo, negli altri

quello immateriale o spirituale.

La accumulazione dei beni economici, la formazione della ricchezza

capitalizzata non è, razionalmente, un fine dell’uomo; bensì semplice mezzo

provvisorio e mutabile il quale può giovale a rendere più feconde le azioni

degli uomini rivolte al proprio perfezionamento fisico e spirituale.

(14)

af-fermata dei due elementi in ogni bene economico? Notabilissima è quella

relativa alla proprietà letteraria. Tutto ciò che egli osserva in proposito si

applica altresì alla proprietà delle invenzioni industriali. Ai suoi occhi gra­

vemente si contraddice Carlo Comte, il quale scrive due capitoli contro i

brevetti per le invenzioni industrali e cinque a favore della proprietà let­

teraria:

« “ Tra il diritto di esercitare un’industria che siasi scoperta e quella di im ­ pedire che altri l ’eserciti, la differenza è ben grande,, egli diceva. Ma se lo è quando trattasi di una macchina o di un processo industriale, perché non lo sarà quando si tratti di un libro? Se l’idea trasfusa nel libro appartiene all’autore, per­ ché il pensiero trasfuso nella macchina non apparterrà al suo inventore? Io com­ prendo coloro che vogliano, non solo i brevetti d'invenzione, ma la perpetuità dei brevetti, e poi la perpetuità della proprietà delle opere di arte o di scienza; ma negare per quella il principio che si deve far prevalere per questa, ecco una logica che non comprendo ed a cui trovo mezzo di non dar la mia adesione ».

6

. — Perché Ferrara, con diritta logica, avversa l’una e l’altra specie di

proprietà? Il suo discorso riguarda la proprietà letteraria, ma vale con

ugual forza per quella industriale. Chi non voglia confondere concetti di­

stinti, deve, discorrendo di proprietà letteraria, avere l’occhio della mente

rivolto a tre proposizioni separate: vuoisi cioè far diventare oggetto di

proprietà il puro pensiero, ovvero la cosa in cui il pensiero venne imme­

diatamente incorporato, ovvero ancora le cose in cui poscia sarebbe possi­

bile di esprimerlo.

7. — Nessuno contesta la proprietà del « puro pensiero ». Ma è pri­

vilegio privo di vantaggio economico, se non fosse di mera vanità. Ed è

privilegio pericoloso; che colui il quale

« rivendica la proprietà delle idee contenute in qualche suo libro è tenuto a render conto egli stesso di quelle che, prima che fossero da lui annunciate, appar­ tennero ad altri : liquidazione terribile, che farebbe probabilmente venir meno la voglia di insistere sulla proprietà del pensiero » (p. 101).

Ed è, infine, privilegio inattuabile. Non è concepibile proprietà senza

diritto ad occupare esclusivamente la cosa posseduta. Come può essere oc­

cupabile il pensiero che « è puramente immateriale », che « non ha dimen­

sioni nè parti», che «non è esauribile»?

« D io , creandola impalpabile [ l’idea], ha con ciò solo dichiarato che tutti possiamo goderne ed assimilarcela, senza mai esaurirla, senza che l’assimilazione

(15)

RILEGGENDO FERRARA 225

operatane nella mente d ’un uomo scemi la sua integrità nella mente di un altro. Il pensiero puro è affatto diverso dal pensiero concretato in un corpo; niuno può attribuirsene il monopolio » (p. 102).

Niuno, del pari, contesta la proprietà della cosa, nella quale il pen­

siero immediatamente si concreta:

«L'autore ha la proprietà del suo libro, Io scultore ha quella della sua statua; e il più grande avversario della proprietà letteraria non ha mai pensato di soste­ nere, né che tutte le copie di un’opera non appartengano a chi l’abbia fatta, né che un tipografo possa penetrare nel gabinetto di un autore e strappargli di mano il suo manoscritto.

« .... la legge non ci accorda alcun monopolio sulle nostre cognizioni agrarie, mineralogiche o mercantili; ma dichiara nostro il grano che abbiamo raccolto, il ferro che abbiano scavato, la droga che abbiamo portato dalle Indie » (pp. 102-103).

9. — Priva di fondamento è invece, la proprietà delle cose nelle

quali il pensiero può in seguito essere espresso. Si concederebbe, così fa­

cendo, ai cosidetti beni immateriali un privilegio eccezionale negato ai

beni materiali:

« Il pensiero, materializzato sul libro, sulla tela, sul marmo, ecc. si muta in

merce, precisamente come le cognizioni agricole quando si sieno già incorporate nel grano raccoltosi. Qualcuno compra il libro e ne diviene padrone; come qualcuno diviene padrone del grano vendutosi da chi lo produsse. II compratore del grano può convertirlo in semente, e cosi moltiplicarlo, per farne una più ampia raccolta, da porsi in vendita. Il compratore del libro riflette anch’egli che questa merce, utile e desiderata da tanti altri, potrebbesi riprodurre come del grano si fa; ma mentre niuno contrasta che sia lecito riseminare il grano legittimamente acquistato, ogni ulteriore edizione del libro si vuole che sia vietata a tutti, fuorché all’autore ed ai suoi aventi causa » (p. 103).

10

. — Quale il fondamento razionale del privilegio? Quale caratteri­

stica peculiare dei prodotti del pensiero ha la virtù di spiegare il privi­

legio?

(16)

do-vutagli; bisogna dunque che sia eccezionalmente protetto; vuoisi un regime in cui non sia lecito usurpare, colla materiale fatica di pochi giorni, tutto ciò che la società è disposta a pagare come prezzo della spirituale fatica di molti anni » (pp. 103-104).

Il Ferrara riconosce che l’argomento risponde a diffusi sentimenti

di equità:

« .... è doloroso il vedere soventi qual meschinissimo frutto coroni i più grandi e benefici lavori della mente umana ; cosi si spiega perché tanto concordemente la proprietà letteraria sia sostenuta e richiesta, e perché la riproduzione delle opere intellettuali si riprovi coi termini acerbi di contraffazione e pirateria » (p. 104).

11

. — Il ragionamento non suffraga però il consiglio sentimentale del­

l’equità. Perché questo fosse fondato farebbe d’uopo:

« Io che nel prodotto misto, nel libro, nel quadro, nella statua, ecc. siavi ve­ ramente un gran disquilibrio fra l’elemento incorporeo e l’elemento materiale; che l ’opera dell’ingegno sia economicamente molto superiore all’opera della mano ; 2° che questa preponderanza sia inestinguibile; che per compensare l’opera creata dall'in­ gegno non basti una prima vendita dell’oggetto creato, non basti l’avere ricevuto un primo prezzo del manoscritto, della statua, del quadro; ma sia necessario che ogni nuova riproduzione, fatta da altri, senza nuovo travaglio dell'autore, paghi a

lui una tassa di monopolio » (pp. 104-105).

Ferrara dimostra che nessuno dei due assunti è fondato. Natural­

mente, egli non vuol dimostrare che non esista una « incommensurabile

distanza tra il sapiente e l’artigiano, tra la mente divina di Vico e la

mano incallita del falegname ». Non è questo il problema discusso. Non

si paragonano meriti ideali; ma ricompense pecuniarie del lavoro com­

piuto, ricompense valutabili nei modi ordinari coi quali si fanno valu­

tazioni economiche.

12

. — Poiché di ciò si discute, dicasi subito che comunemente dai

difensori della proprietà letteraria si sopravaluta il lavoro dello scrittore

e si sottovaluta quello dell’esecutore materiale.

« Che cos’è, per esempio, ciò che noi vediamo in un libro? Vediamo un tipografo che, lavorando con pochi pezzetti di piombo, con qualche oncia d’inchio­ stro, con alcune risme di carta, ha prodotto in due mesi lo Spirito delle leggi,

l ’opera con cui un Montesquieu rivela al mondo vent’anni di ostinate e penose ri­ flessioni. Se la questione si dovesse porre tra individuo e individuo, sul terreno del lavoro che immediatamente abbia dato origine alle m ille copie prodottesi d ello

(17)

RILEGGENDO FERRARA 227

Spìrito delle leggi, sarebbe difficile il sostenere che gli sforzi sostenuti dall’editore, da' tipografi, da’ cartai, dal fonditore, dal fabbricante di torchi, sommati insieme, sieno qualche cosa di meno importante della fatica necessaria per rendere in buoni periodi i pensieri di Montesquieu e farne il manoscritto che è servito di guida alla stampa. Che facciamo noi adunque? A costui diamo il merito di tutto il lavoro pas­

sato, della sua educazione, della costanza che ha messo nel meditare sul soggetto delle sue ricerche, delle abnegazioni a cui si è condannato, della scoverta ed origi­

nalità de' concetti; e cosi il suo manoscritto diviene miracolo d'un genio e frutto di 20 anni di studio. Quanto all'editore, il suo passato non entra in conto. Anch'egli ha fatto il suo tirocinio, ha concentrato la sua attenzione suH’artc tipografica, ha passato la metà della sua vita stando dieci ore al giorno diritto avanti alla cassa de' suoi tipi; egli forse ha lottato colla povertà, colle crisi, col dispotismo; egli aveva una fortuna godibile, e l'ha convertita in piombi e legnami, in carta ed in­ chiostro, il cui consumo non g li rende soventi né anco il più meschino degli ordinari interessi del capitale; ma non importa: egli, secondo noi, non ha nella produzione del libro che il meschinissimo titolo di avervi meccanicamente lavorato due mesi » (pp. 105-106).

13. — Sul primo errore un secondo si innesta:

« N o i usiamo un altro artificio. N on teniamo alcun conto di tutta la parte, che l ’elemento materiale offre gratuitamente al produttore dell'elemento incorporeo; ed all’inverso, accordiamo a quest'ultimo il merito di tutto ciò, che la società gli ha gratuitamente apprestato per rendergli possibile la produzione, in cui sta la sua gloria.

(18)

ma diverrebbero affatto inverse: l’elemento materiale costerebbe tanto, acquiste­ rebbe un’importanza così colossale, riunirebbe in sé tanta massa di ricchezza incor­ porea, che qualunque attuale lavoro della mente per produrre una nuova ricchezza dell’ugual genere diventerebbe insignificante. Immaginiamo infatti, che sin dai tempi di Tubalcain si fosse pensato a stabilire la proprietà delle idee. Spingendola sino ai brevetti di invenzione, che cosa importerebbe oggi la manifattura di un chiodo? Sarebbero tanti diritti esclusivi quelli del preparare l ’incudine, il martello, il carbone, il mantice; ognuno di questi mezzi sarebbe tributario di altre fam iglie di produt­ tori; e ciascuna di queste lo sarebbe di altre; e da una serie indietreggiando verso di un’altra più antica, andrebbesi sino alla proprietà delle più semplici perce­ zioni dei primi uomini. La formazione odierna di un chiodo non potrebbe aver luogo senza il permesso di tutti coloro, che avrebbero ereditato le cogni­ zioni direttrici che occorrono per battere un po’ di ferro, senza comprare da spe­ ciali fam iglie tutte le menome parti di questa meschina manifattura, sino alla pietra focaia, da cui sprigionare una scintilla di fuoco. Tubalcain poteva, è vero, non accordare i brevetti di invenzione, limitandosi ad impedire la riproduzione delle identiche forme, con cui un prodotto immateriale si trasferisce; ma l’effetto sarebbe stato indirettamente lo stesso. Le varie cognizioni sarebbero divenute altrettanti mo- nopolii; si sarebber dovute comprare, invece di essere, come fortunatamente lo fu­ rono, diffuse, portate dai venti, dalla parola, dal traffico; si sarebbe perduto tutto quel fermento, che esse reciprocamente si fanno e da cui son nate tutte le arti, tutti i progressi, tutte le facilitazioni che oggi le industrie umane ci offrono. Ciò vuol dire che, se in passato la proprietà delle idee fosse esistita, oggi gli elementi corporei della produzione immateriale o costerebbero immensamente più cari, o non esisterebbero affatto, il che è il massimo dell’incarimento. Ma egli è chiaro che ogni cosa, la quale avesse renduto più difficile o più costoso l’elemento corporeo, equivarrebbe a diminuire l’importanza comparativa dell’elemento spirituale. Se a noi, dunque, è oggi possibile il giudicare che l ’opera dell’autore primeggia su quella del tipografo, una prima ragione evidentemente si è, perché noi siamo abituati a non considerare in quest’ultima tutta la parte, che più non siamo costretti di compe­ rare a danaro, tutta la ricchezza immateriale, che tacitamente e gratuitamente nel­ l ’arte tipografica si è trasfusa: fate che il tipografo debba pagarla, e l’azione mec­ canica della stampa d'un libro avrà allora un'importanza sterminatamente maggiore che 20 anni di studio consumati dall' autore nell' apparecchiare il suo mano­ scritto » (pp. 106-108).

14.

— Altro gravissimo errore di calcolo si commette nella valuta­

zione comparativa dell’elemento materiale e di quello spirituale nella

creazione del libro, dell’opera d’arte, dell’invenzione:

« Nessuno certamente dirà, ed io meno di ogni altro, che le opere della mente non costino sacrificii, enormi talvolta; ma immaginare che siano tante creazioni dal nulla, e dare ai loro autori il merito di aver prodotto tutto ciò che ci offrono, è un farsi erronei concetti e sull’uomo che studia, e sulla legge provvidenziale, a

(19)

RILEGGENDO FERRARA 229

cui lo svolgimento dell'umana ragione è soggetto. Ogni libro ordinariamente non è che una nuova espressione d ’idee già vecchie e divenute proprietà comune degli uomini. Ogni scrittore usa liberamente di un immenso patrimonio di cognizioni, per le quali niuno g li domanda il menomo prezzo, e che pure formano il gran fondo di ciò che egli pensa o scrive. Viaggiatori a migliaia, storici, filosofi, pubblicisti, romanzieri, poeti, matematici, gli hanno apparecchiato una immensa massa di fatti, g li han rivelato la cognizione del mondo e la successione degli avvenimenti, lo hanno abituato a' buoni metodi di osservare, ordinare, ragionare, calcolare, alla esatta maniera di esprimersi. Egli non si è mosso dal suo gabinetto; egli non vive che da pochi anni; egli non ha dedicato che poche ore a riflettere sulle sue facoltà; egli non ha cominciato dall'inventare un sistema di numerazione o dal tirare la prima linea retta; eppure, nel suo libro parla di tutti i paesi, cita avvenimenti di più secoli addietro, ragiona mirabilmente e convince i lettori, calcola le quantità; come mai quest’uomo potè tanto racchiudere nella sua intelligenza? i suoi anteces­ sori, l’umanità anonima, g li han profuso tanti tesori, egli non dovette che stender la mano per prenderne e profittarne....

« Prendete in mano l ’opera più originale che esista sul globo; toglietene tutto ciò che evidentemente è attinto dal fondo delle cognizioni comuni; separatene la parte geografica, storica, filosofica, grammaticale; limitatevi pure alla specialità di cui tratti, ed ivi fatevi ad esaminare di uno in uno i pensieri, con cui questo bello edificio si è architettato; voi sarete meravigliati a trovare che tutta la parte, su cui il plagio non riesca evidente e l'originalità resti dubbia, si potrà riassumere in qualche pagina, appena in qualche periodo talvolta » (pp. 108-109).

Ferrara inserisce a questo punto una pagina magnifica, che voglio

trascrivere ad ammonimento di coloro i quali menano fastidioso vanto

di piccolissime novità che essi presumono aver aggiunto al corpo della

scienza :

(20)

m inime dimensioni per potere in noi suscitare il più piccolo sentimento di orgoglio. Immaginando, per esempio, che la mia maniera di presentare l’indole de' prodotti immateriali meritasse l’approvazione degli economisti, io domanderei come mai sa­ rebbe ella nata, se la teoria di Dunoyer non l’avesse preceduta di molti anni? e Dunoyer avrebbe mai formolato la sua, senz’essere antivenuto da Say, da Storch, da Malthus? e Say avrebbe egli ideato i prodotti immateriali, se Smith non avesse parlato di lavori non-produttivi? E i lavori non-produttivi di Smith, che altro fu­ rono fuorché una semplice inflessione d elle industrie sterili di Quesnay? E rimon­ tando più in là, non sarebbe grandemente agevole risalire fino a Platone? Io non dico — intendiamolo bene — che i grandi scrittori non siano che impostori e plagiarii; ma son convinto che il merito loro reale sta, come quello d’ogni altro produttore, nella quantità di travaglio che adoprano, con successo più o meno felice. Quand’anche la nuova forma, che essi danno a’ materiali gratuiti di cui dispon­ gono, abbia una suprema importanza nell'interesse dell'uman genere, o per la difficoltà del pensiero, sempre riuscirà impercettibile la parte, che a ciascheduno possa dirsi esclusivamente competere: il caso lo aiuta talvolta, il caso di un pomo che cada, di un lampadare che oscilli, di una favilla che si sprigioni, di una ranocchia che si muova; tal’altra il suo gran concetto è dovuto ad una semplice reminiscenza fortuita; talvolta infine la sola presenza de’ materiali ecletticamente raccolti sul campo della scienza..., ci basta per ¡scoprire un nuovo rapporto ed ottenere che il mondo ci chiami inventori o genii. Ma il mondo si inganna. L’edificio dell’umano sapere è tutto costituito a minuto mosaico. A nessun uomo fu dato il poterne d’un sol pezzo formarne una parte di qualche rilievo. Facendo immateriale l’idea, la Provvidenza ha voluto che l'idea mai non fosse occupa­ bile; che niuno potesse mai apparire colla pretesa d ’imporla come un titolo prepon­ derante nell’opera della produzione: si direbbe che la Provvidenza abbia protestato

ab aeterno contro la proprietà letteraria» (pp. 109-110).

15. — Non è quindi lecito adoperare due pesi e due misure nella

valutazione dei due elementi, spirituale e corporeo, i quali concorsero alla

produzione del libro, dell’opera d’arte, della invenzione industriale.

« Se del passato dobbiamo tener conto, esso fu oneroso del pari ad en­ trambi; e non si può assegnare un colossale valore in vantaggio del sapiente, senza porre in bilancio con esso tutto ciò che è costato all’individuo o alla società presa in massa, l ’aver condotto l’artefice manuale al punto in cui possa, a basso prezzo, offerire il soccorso della sua industria a servizio del produttore d’idee. Se dobbiamo resecare dal calcolo tutto ciò che non entri nel ciclo dello sforzo immediato e personale de’ due produttori, la differenza, che pareva enorme, si attenua; e sarà forse difficile il sostenere che l’opera della mano non sia le tante volte più penosa e più meritoria di quella dell’in telletto» (p. 110)

16

. — V’ha di più. Se anche si voglia ammettere, contrariamente

alla osservazione del vero, che in sull’inizio prevalga nel prodotto « libro »

, \

f I

/

(21)

RILEGGENDO PERRARA 231

l’elemento spirituale su quello corporeo, la preponderanza scompare ben

presto. Troppo effimera è la prevalenza dell’elemento spirituale per po­

tervi fondar sopra un diritto di monopolio:

« I due elementi del prodotto sono di loro natura costituiti in condizioni affatto diverse. L’uno, la parte dell’intelletto, una volta creato, non ha più bisogno di rinnovarsi; è un fondo costante; è come una forma pronta a modellare una sembianza medesima con quante porzioni di metallo fuso vi si gettino. Ma l'altro esige un nuovo sforzo, impiega nuovi valori, ad ogni riproduzione. Montesquieu fece il suo Spirito delle leggi una volta, e bastò perché poi si potesse ristampare le m ille volte in cento parti del mondo incivilito; ma ogni nuova edizione è co­ stata uno sforzo nuovo di arte tipografica, senza che di alcun altro lavoro intel­ lettuale siasi avuto bisogno. Inoltre, l’elem ento materiale, ogni volta che si rinnovi, costituisce la creazione di una nuova utilità sociale; è un nuovo prodotto che la società non possedeva; è perciò un nuovo servigio che le si rende, ed ha in ciò un titolo per essere pagato. Ma l’elemento intellettuale è già esistente, è sparso fra g li uomini, la società lo ha acquistato, ciascuno ha la fisica possibilità di rin­ novarlo; e se si rinnova, vi ha bene un sociale servigio reso dal riproduttore, che crea nuovi mezzi di propagare l ’utilità ma non h a w e n e alcuno dalla parte di colui, che forni in origine l’elemento intellettuale » (p. 111).

17.

— Quel che Ferrara aggiunge al blocco granitico di argomen­

tazioni ora riassunte è di secondaria importanza. L’analisi serrata della

inscindibilità degli elementi spirituale e corporeo della produzione eco­

nomica, la dimostrazione della continuità della produzione, per cui il pro­

dotto attuale, sia spirituale che materiale, è il frutto in piccola parte di

azioni presenti ed in parte di gran lunga maggiore di azioni passate; la

riduzione dell’orgoglioso apporto individuale alle giuste dimensioni di pic­

cola aggiunta all’apporto dei mille e mille ignoti collaboratori morti

e viventi: ecco i caposaldi ai quali dovettero o avrebbero dovuto rife­

rirsi gli scrittori, i quali affrontarono ieri e affrontano nuovamente oggi

il problema della proprietà letteraria e industriale. Se ci rifacciamo, come

si deve, ai principii, bisogna risalire a Ferrara. Altri, forse, disse meglio

di lui che il privilegio degli autori o dei loro aventi causa consacra l’igno­

ranza ed impedisce, senza frutto per gli autori, la divulgazione delle idee

fra schiere di lettori, ai quali le edizioni privilegiate riescono inaccessi­

bili. Esponendo, senza indugiarvisi e senza rimarcarne l’importanza, la teoria

della rendita del consumatore, egli dichiara che

(22)

primitiva; costoro non sono che una schiera di consumatori tardivi, i quali sorgono dal buon mercato, e spariscono quando i libri sono cari » (p. 116).

Il monopolio è caro non agli scienziati, non ai filosofi, non agli stu­

diosi i quali rivelano nuovi veri; ma ai romanzieri ed ai facitori di libri

leggeri. La proprietà letteraria arricchisce Dumas; ma la Scienza nuova di

Vico abbisogna di due secoli per essere intesa e comprata.

Il monopolio, rincarendo i libri, vieta ai disagiati di istruirsi; «per

troppo occuparsi de’ sapienti già fatti, trascura quelli da farsi ». Col con­

sacrare il monopolio dei primi editori, la proprietà letteraria rende costoro

ignavi e fa che essi attendano « dal beneficio della legge ciò che l'ordine

sociale unicamente concede all'attività del produttore ». A torto, per lo

più, gli scrittori si lagnano di non essere remunerati abbastanza. Perché

non mettono essi in conto il rispetto, la reputazione guadagnata, gli onori

ricevuti, le cattedre universitarie conquistate, i lucri degli articoli inviati

ai giornali, le pensioni godute, l’asilo ad essi largito in contrade straniere?

Ricordando certo la propria esperienza di patriotta esule dalla Sicilia bor­

bonica ed onorato di cattedra a Torino, Francesco Ferrara scrive:

«L 'uom o di lettere non vende il suo libro, è vero; ma se viene il momento difficile per la sua patria, è sul frontespizio del libro che gli occhi de' suoi con­ cittadini si volgono. A lui talora non toccano che persecuzioni c miserie; ma spesso altresì, cacciato dalla sua patria, c il frontespizio di un libro che gli fa di guida e lo salva: va dove tant'altri più produttori di lui stentan la vita, ed egli in grazia d ’un libro, trova asilo, soccorso e rispetto, trova una nuova società pronta a pagare in danaro le sue parole » (p. 122).

Ferrara non nega, tuttavia, all’autore del libro ogni diritto:

« U n a proprietà, egli l’ha certamente: la cosa che ha prodotta è sua; la statua, il quadro, le copie d ’un libro appartengono a lui. La società in m olti casi s’incarica di custodire a' privati ciò che loro appartiene, e difendere le loro pro­ prietà dalle usurpazioni, cui possano andar soggette. N o n come rigoroso prin­ cipio di giustizia, ma come misura amministrativa, io non troverei gran fatto ri­ provevole che, per taluni prodotti immateriali, per esempio i libri, il diritto di riproduzione possa essere sospeso nel pubblico per quel tempo discreto, che sia necessario onde porre il produttore in grado di vendere la totalità del suo prodotto. In ciò si potrebbe anche scorgere una ragione di pubblico interesse. Se l ’autore dovesse trovarsi esposto a vedere ripubblicato il suo libro appena lo ponga in vendita, la pubblicazione delle opere di qualche importanza sarebbe così econo­ micamente rischiosa, da divenire impossibile. Io dunque non troverei così illogico che, mentre si rigetta il principio di una proprietà rigorosa e perpetua, si accordi

/

(23)

RILEGGENDO FERRARA 233

un limitatissimo termine, di cinque o dieci anni per esempio, durante il quale la ri­ stampa fosse ad altri vietata. M a la riflessione medesima che a ciò m'induce mi co­ stringerebbe a volere che, se avanti di spirare quel termine, la prima edizione sia già esaurita, se l'autore abbia già ricevuto il prezzo intero del suo prodotto, se si accinge a rinnovarlo, il diritto di riproduzione non più appartenga a lui solo, ma, in concorrenza con lui, a chiunque altro amasse di esercitarlo » (pp. 124-125).

18.

— L’analisi di Francesco Ferrara non ebbe eco nella dottrina

economica intorno alla proprietà letteraria ed industriale. I più degli ita­

liani accennarono di sfuggita alla logica ferrea del liberista, il quale, fon­

dando la proprietà in genere sul diritto di disporre del frutto del proprio la­

voro, negava perciò la proprietà letteraria come quella che era invece fon­

data sul privilegio esclusivo dell’uso della invenzione già comunicata al

pubblico o della ristampa dell'opera già pubblicata. Il Ferrara non negava

cioè il diritto di proprietà dell’inventore sull’invenzione o dello scrittore sul

libro, ma non lo voleva esteso, con particolare privilegio, a conseguenze

ignote alle altre specie del diritto di proprietà.

Gli scrittori stranieri ignorarono semplicemente Ferrara, non ricor­

dandolo mai tra i preclari, seppure non numerosi scrittori (Carey, Farrer,

Thorold Rogers, Chevalier, Mallet), i quali si elevarono contro il ricono­

scimento della proprietà letteraria ed industriale. La difficoltà della lingua,

la collocazione insolita delle idee ferrariane nelle introduzioni ai grossi vo­

lumi della « Biblioteca degli economisti », la scarsissima divulgazione fat­

tane dagli economisti italiani spiegano il ritardo col quale i cultori della

scienza economica conobbero, fuor del nostro paese, le teorie maggiori

del Ferrara, ed a maggior ragione spiegano la mancata conoscenza della

battaglia da lui vigorosamente sostenuta, or son ottant’anni e più, contro

il riconoscimento di questa particolare forma di proprietà.

19.

— La battaglia non era stata da lui combattuta in nome di quello •

che oggi viene descritto come la premessa od il preconcetto liberisti«».

1

brani essenziali dianzi citati consentono di ricostruire altrimenti il pen­

siero ferrariano. Partendo dalla sintesi fra l’aspetto corporeo o materiale

e quello spirituale od immateriale dei beni economici, Ferrara giunge alla

conseguenza che il libro è un prodotto misto di materia e di spirito, inscin­

dibili l’una da l’altro, sicché non è possibile assegnare ad uno solo dei col-

laboratori, il tipografo e l’autore, un merito particolare e maggiore che

all’altro. Amendue hanno tratto dall’eredità delle generazioni passate, dal

cumulo di esperienze e di insegnamenti venuti sino a noi i mezzi per

(24)

durre il bene economico, da essi offerto al pubblico. Perché all'uno deb­

bono essere concessi maggiori diritti che all’altro? Perché il compratore

di un libro, di una macchina, di un preparato chimico non dovrebbe avere

diritto di riprodurre la cosa comperata, così come il compratore di un sacco

di grano ha il diritto di seminarlo nel suo campo e di moltiplicare la se­

mente le dieci o le venti volte? Perché il privilegio negato all'uno si do­

vrebbe concedere all'altro? A Ferrara parve che nessuno avesse spiegato il

perché di una risposta affermativa.

20

. — Dopo tanti anni, voci recenti hanno riproposto la domanda e

nuovamente veggono la difficoltà di una risposta affermativa (

1

). Oggi,

come allora, i difensori della proprietà letteraria e industriale si trovano

dinanzi al quesito: se il «monopolio» è una situazione d’eccezione, se

esso è dannoso a quello che si considera l’interesse collettivo o, per par­

lare un po’ meno vagamente, se esso è contrario alla migliore utilizzazione

degli scarsi mezzi economici posti a disposizione degli uomini, se perciò i

legislatori di tutti i tempi e di tutti i paesi hanno iscritto nelle raccolte delle

loro leggi norme intese a combatterlo, perché nel caso particolare delle

opere dell'ingegno e delle invenzioni industriali si vuole consacrare quel

medesimo monopolio?

21. — Che il monopolio concesso agli autori ed agli inventori signi­

fichi « limitazione » è contraddetto dalla opinione corrente, secondo la

quale le privative per le invenzioni industriali ed il diritto esclusivo alla

ripubblicazione dei libri sarebbero invece spedienti opportuni ad incorag­

giare inventori e scrittori. Il monopolio, dicesi, q in questo campo innocuo.

Esso incoraggia la produzione di beni economici — invenzioni e libri —

che senza di esso non sarebbero prodotti. Il monopolio del fabbricante di

scarpe è dannoso al pubblico, perché, se in regime di piena concorrenza si

produrrebbero dai parecchi calzolai concorrenti, in una data unità di tempo

e in un dato luogo,

100

paia di scarpe al prezzo di 80 lire bastevoli a co­

prire il costo di produzione ed a soddisfare la domanda attiva al prezzo

di 80 lire, ove un solo calzolaio sia monopolista, questi produrrà solo

80 paia di scarpe e le venderà al prezzo di

100

lire, se

100

lire sia il prezzo

di massimo utile per lui. Nel caso delle invenzioni industriali, e dei libri,

( l ) Ricordo, per il singolare rilievo in essi dato alla teoria economica, i due saggi di

Arnold Pla n t: The Economic Theory concerning Patents for Inventions e The Economie Aspects

of Copyright in Eooks pubblicati rispettivamente nei quaderni del febbraio e del maggio 1934

della rivista « Economica » di Londra. In essi è ricordata la bibliografia essenziale. \

(25)

RILEGGENDO FERRARA 235

nulla di ciò: l’invenzione non sarebbe esistita ed il libro non sarebbe stato

scritto se inventori e scrittori non fossero stati incoraggiati ad inventare

ed a scrivere dalla promessa di avere per un più o meno lungo periodo di

tempo la proprietà esclusiva della utilizzazione dell’invenzione o della di­

vulgazione del libro. Il privilegio legale ha messo semplicemente il favore

del pubblico al luogo del favore dei potenti. Invece di mendicare sussidi

ed ospitalità nelle corti dei sovrani o nelle anticamere dei ricchi, inventori

e scrittori possono oggi guardare con sicurezza, come ogni altro lavoratore,

all’avvenire. Se la loro invenzione è veramente utile, se il libro si fa leggere,

il pubblico, coll’acquistare il libro o col chiedere i prodotti dell’invenzione,

rimunererà il merito, consentendo ad inventori e scrittori i mezzi di una

vita indipendente e largendo ad essi talvolta ricchezza non mendicata. Il

pubblico nulla perde ad assicurare i mezzi di vita a coloro i quali gli of­

frono beni altrimenti non disponibili. Il monopolio è nel caso specifico, non

uno strumento di limitazione, sì invece di moltiplicazione dei beni economici.

22

.

— È il monopolio davvero condizione necessaria alla produzione

delle invenzioni industriali e dei libri?

(26)

più il libro è riprodotto e tradotto, tanto più costui gioisce. Il procaccia­

mento dei mezzi di vita fu fattore tutt’affatto secondario dell'opera crea­

tiva. Gli onori, le cariche, le cattedre furono stimolo e mezzo per nuove

indagini, per nuovi ozi letterari, non sempre così fecondi come i primi. Il

privilegio legale non ha dunque alcuna parte nella produzione di questa

prima e più alta categoria di invenzioni e di libri.

Scrittori di capolavori letterari o di memorie scientifiche memorande

non pensano per lo più a vendere le produzioni del loro ingegno. Lo

scienziato tipico è ansioso invece di collocare, senza spesa, la sua memoria

in qualche raccolta accademica o in qualche rivista speciale. Egli chiede ed

insiste per avere un certo numero, il massimo possibile, di « estratti » ; non

per farne commercio, ma per divulgarli a sue spese in omaggio e ricordo

ai cultori della sua medesima disciplina. Spesso è disposto a pagare qual-

checosa per vedersi stampato; e gran parte della produzione letteraria, in

mezzo alla quale si scopre talvolta anche il capolavoro, viene alla luce

a spese dell’autore, senza speranza veruna di recupero.

23. — Altre invenzioni sono dovute al caso fortuito. Un ragazzo,

stanco di star fermo tutto il giorno attorno ad una macchina, la quale

senza un suo intervento periodico non funzionerebbe e desideroso di gio­

care coi coetanei, inventa lo spediente necessario a che la macchina lavori

da sola, senza uopo della sua cooperazione. Che cosa ha che fare la spe­

ranza del guadagno derivante dal privilegio quindicennale con questo se­

condo tipo di invenzioni?

(27)

RILEGGENDO EERRARA 237

corrente qualsiasi potesse immediatamente riprodurre quello tra i libri che

essi pagati, e con grande dispendio stampati, se essi non possedessero il

diritto di esclusività sul libro stesso? Come potrebbero le imprese indu­

striali erigere e mantenere laboratori sperimentali costosissimi, guidati da

tecnici specializzati e da assistenti peritissimi, se essi non godessero del

privilegio esclusivo dell'utilizzazione per un certo tempo delle invenzioni,

pochissime fra le molte tentate ed abbandonate, atte a dare un risultato eco­

nomico profittevole?

25.

— L’osservazione, notabile, non dimostra la necessità del mono­

polio. Fatta l'ipotesi della piena concorrenza, gli imprenditori sarebbero

interessati a remunerare ricercatori stipendiati nei loro laboratori speri­

mentali od a compensare invenzioni offerte da inventori isolati entro i li­

miti consentiti dal vantaggio di usare per i primi le invenzioni così acqui­

state, innanzi che i concorrenti le abbiano conosciute e, conosciutele,

abbiano ritenuto opportuno di imitarle. Vi sono campi, nei quali non sono

concesse privative per invenzioni industriali, nei quali perciò la « pirateria »

è legalmente consentita; e nei quali tuttavia Io spirito inventivo opera con

successo. Le grandi case di moda lanciano ad ogni stagione modelli nuovi

di vestiti, di cappelli, di scarpe, di guanti, sopportano per inventarli dise­

gnarli e lanciarli spese cospicue e traggono compenso sufficiente dal mero

giungere prime sul mercato. I contraffatori ed i copisti sono numerosi; le

copie sono più numerose degli originali; ma i modelli originali venduti

dalle case produttrici spuntano sul mercato prezzi più alti, i quali remu­

nerano a bastanza l’organizzazione inventiva. Forseché i medicinali sono

tutelati da privative? Ma il buon nome e il marchio di fabbrica delle case

originali produttrici basta ad accreditarne i prodotti ed a consentire com­

pensi sufficienti agli inventori di specialità sin troppo moltiplicantisi sul

mercato. Nessun privilegio protegge le semenze elette di frumento, le nuove

varietà di fiori, gli incroci di volatili; eppure rari ingegni applicano lavoro

non piccolo e non ordinario alla invenzione di nuovi prodotti agricoli o

di nuovi sistemi di coltivazione, con vantaggio grande della produzione

della terra.

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