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Rivista di storia economica. A.06 (1941) n.2, Giugno

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(1)

RIVISTA

DI S T O R I A

ECONOMICA

D I R E T T A DA LUIGI E I N A U D I

G I U L I O E I N A U D I E D I T O R E • T O R I N O

(2)

Sono in programma per ora quattro serie, i cui volumi compariranno man

mano che saranno pronti :

I. - SCRITTI D I ECONOMIA E D I FINANZA

1. Saggi sul risparmio e l'imposta (in corso di stampa).

2. La terra e l'imposta.

3. L’ottima imposta.

4. Miti e paradossi della giustizia tributaria (pubblicato: L. 21).

3-6. Saggi teorici diversi.

II. - SCRITTI STORICI

Saranno raccolti in questa serie scritti, sparsi in riviste e pubblicazioni acca­

demiche, intorno alla storia della scienza e dei fatti economici.

III. - LE CRONACHE ECONOMICHE ITALIANE

Saranno raccolti in questa serie, distribuiti per ordine cronologico di mate­

ria, gli articoli pubblicati in riviste e in giornali (principalmente nel «Corriere

della Sera», dal 1900 al 1923) su problemi di attualità. Sarà quasi una storia

ed un commento giorno per giorno dei principali avvenimenti economici italiani

per un lungo tratto di tempo. Non essendo pensabile, a causa della gran mole,

una pubblicazione compiuta, saranno esclusi gli articoli di mero riassunto o dove

si ripetano cose già dette attrove.

IV. - VARIA

(3)

RIVISTA DI STORIA ECONOMICA

DIRETTA DA LUIGI EINAUDI

Direzione: Via Lamarmora, 60 - Torino. Amministrazione: Giulio Einaudi editore, Via Mario

Giada, 1 • TorinoAbbonamento annuo per l'Italia L. 50. Estero L. 80. Un numero L. 15.

SOMMARIO DEI, X. 1S - GIUGNO 1941

Lu i g i Ei n a u d i:

Alba e tramonto delle corporazioni d’ arti e

m e s t i e r i ... Pag.

81

Note e rassegne.

At t i l i o Ca b i a t i:

Gli insegnamenti dell’inflazione tedesca post­

bellica ...

»

112

Lu i g i Ei n a u d i:

Delle utopie: a proposito della Città del sole .

»

124

--- Sismondi, economista appassionato...

»

127

Ma r io De Be r n a r d i:

Appunti, dalle mie schede bibliografiche .

»

134

Recensioni.

R. U. F., F. M., L. E., A. B., su libri di E. Wood, H. Laufenbur-

ger, 1. R. Hicks, I. Kovero, A. Cabiati, C. De Biase, G. Bi-

nello, E. Passerin d’Entrèves, G. Durando, G. Pivato, G.

Silva, G. Pietranera, de Bernouville...

»

139

Tra riviste ed archivi.

(4)

d ’arti e mestieri nella Firenze dal ’200 al ’400 ed alla loro decadenza ed

abolizione tra il ’700 e l’800 dà occasione al direttore della rivista di deli­

neare le caratteristiche essenziali di quel fiorire e di quel decadere. La fiori­

tura era collegata, frutto e causa nel tempo stesso, con lo spirito di libertà

vivissimo nei comuni italiani, con la ricca varietà dei tipi di impresa e di

lavoro, con la coesistenza di piccole medie e grandi, talvolta grandissime

imprese, con l’assenza di rigidi chiusi ordinamenti professionali, con la pos­

sibilità ai volenterosi di salire senza impacci obbligatori di numero e di

passaggi gerarchici. La decadenza consiste nella trasformazione delle li­

bere associazioni medievali in meri strumenti di governo nelle monarchie

burocratiche moderne. I corpi da sciolti si irrigidiscono; da mezzi di difesa

degli associati in strumenti di disciplina delle carriere e di assicurazione

contro l’ingresso di nuovi venuti nel mestiere, lai regolamentazione disci­

plinata si osserva al termine della vita, non alla nascita delle corporazioni.

Alla morte di fatto segue la dichiarazione legale di morte da parte del

legislatore.

Attilio Cabiati paragona sulla scorta della nuova edizione del classico

libro del Bresciani, la finanza di guerra in Germania durante e dopo la pas­

sata guerra mondiale e ad occasione della preparazione alla guerra attuale,-

mettendo in luce il profitto che i governanti attuali hanno saputo trarre

dalla infausta esperienza passata.

Curiosi appunti sceglie di tra le sue erudite schede bibliografiche Mario

De 3ernardi. Piccole cose, sulle quali si deve insistere per inculcare ai recal­

citranti il vantaggio della esattezza nella presentazione delle scritture eco­

nomiche.

Emanuele Sella inserisce, nella discussione sul comuniSmo, liberalismo,.

interventismo, una sua nota collaterale: bisogna, tra le premesse del di­

scorso, tener conto anche degli andazzi, dell’andazzo del correre e di quello'

dello star fermi?

Una recente edizione critica della Città del sole di Campanella, la

stampa delle lettere del Si smondi, il nuovo libro di Hicks, danno modo al

direttore della rivista ed al Ferrante di dettare larghe recensioni; e recen­

sioni più brevi sono contenute nell’apposita rubrica. Quella Tra riviste ed

archivi fornisce notizie sugli studi di storia economica recente contenuti nelle

riviste italiane ed in quelle estere che ancora giungono in Italia.

•t

(5)

N O V I T À E I N A U D I

A T T I L I O C A B I A T I

IL FINANZIAMENTO DI UNA GRANDE GUERRA

L . 18

G A B R I E L E P E P E

IL M E D I O E V O B A R B A R I C O D ’I T A L I A

l i . 2 5

A N G E L A V A L E N T E

GIOACCHINO MURAT E L’ITALIA MERIDIONALE

li. so

CARLO J. BURCKHARDT

FJODOR DOSTOJEVSKIJ

R I C H E L I E U

L ’ I D I O T A

L . 3 5 ! .. ¡15

A D O L F O O M O D E O

VINCENZO GIOBERTI E LA SUA EVOLUZIONE POLITICA

(6)

Olivetti M,40

Lo Olivelli M. 40 per olitelo è Io macchino che meglio >1 pre­ sta dove il lavoro i gravoso e continuo come nel Ministeri, nei Pubblici Oiiici, nella Banche, negli Oiiicl Professionali.

PICA - ELITE - I T A L I C O -ITALICO GRANDE

MEDIO ROMANO-ROMANO G R A N D E - CROATO

n t o n O 'M /U 'v t 't o- e l i t e i m p e r i a l e- perù*

MIKRON — IMPERIAL - STA M PA TELLO P I C CO L O

PERFORANTE

-

avvisi

-

G I G A N T E

Ti S11E P E PER TUTTE LE LINGUE E CARÀTTERI DI OGNI SI LE

(7)

-ALBA E TRAMONTO DELLE COR­

PORAZIONI D ARTI E MESTIERI

Al f r e d o Do r e n:

Le arti fiorentine, traduzione di B. Klein. Le Monnier,

Firenze, 1940. 2 voi. in 8°, voi. I, XVIII-412 pp.; voi. II,. XIII-298 pp.

Prezzo L. 70.

Statuto dell’arte della lana di Firenze (1317-1319), a cura di Anna Maria

E. Agnoletti. Le Monnier, Firenze, 1940. I voi. in

XII-242-I c. s. n.

Prezzo L. 25.

Statuti dell’arte dei rigattieri e linaioli di Firenze (1189-1340), a cura di

Ferdinando Sartini, Le Monnier, Firenze, 1940. I voi. in 8U, IX-265

I c. s. n. Prezzo L. 25.

Ar m a n d o Sa p o r i:

Studi di storia economica medievale. Sansoni, Firenze,

1940. I voi. in 8’, XVII-662 pp. Prezzo L. 70.

Lu i g i De l Pa n e:

Il tramonto delle corporazioni in Italia (secoli XVIII

e XI X) . Istituto per gli studi di politica internazionale, Milano, 1940.

I voi. in 10", 354 pp. Prezzo L. 21.

1.

— La Deputazione di storia patria per la Toscana ha preso l'ini­

ziativa di dare alLItalia una raccolta organica di fonti e di studi sulle cor­

porazioni; e ad attuarla è stata incoraggiata dalla munificenza del compianto

principe Piero Ginori Conti, al quale sono dedicati i quattro volumi ora

venuti alla luce, due nella serie delle « fonti » e due in quella degli « studi ».

La serie delle fonti prende cominciamento dall’edizione dei primi statuti

delle arti della lana e dei rigattieri e linaioli, ambe di Firenze. Proposito

della Deputazione è di pubblicare di ogni arte, maggiore o minore, lo

statuto più antico, generalmente redatto verso la fine del secolo XIII od

II, 6.

(8)

il principio del XIV, si da dare un quadro compiuto del primo ordinamento

statutario fiorentino; aggiungendo, ove paia opportuno, a quella degli sta­

tuti la pubblica2Ìone di matricole e documenti vari, possibilmente nel loro

testo integrale. Giova augurare che al proposito egregio si dia termine e

si possa poscia compiere il piano, pubblicando per ogni arte gli statuti e

le riforme successive sino alla loro abolizione. Qui lo scrupolo di dare solo

il testo dello statuto originario ha consigliato, a giusta ragione, al Santini

di non tener conto delle aggiunte e correzioni agli statuti primi, anche

quando risultavano da annotazione a margine dei codici riprodotti.

La seconda serie, di « studi », si apre con la traduzione dell'opera di

Alfredo Doren su « Le arti fiorentine », meritamente celebrata e resa cosi

meglio accessibile agli studiosi italiani. I direttori della collezione, Nicolò

Rodolico ed Antonio Panella, dichiarando fondamentale l’opera del Doren,

« anche se in qualche parte possa essere o sembrare meritevole di revisione »,

augurano « che siano studiosi nostri a rivolgere la loro attenzione a questo

trascurato e non abbastanza curato campo di studi, che per il passato è stato

di preferenza trattato dagli stranieri ».

Il volume del Sapori è una prima silloge dei saggi che questo infa­

ticabile studioso è venuto pubblicando dal 1921 al 1939 in atti accademici,

volumi in onore e riviste storiche. Due — su « La cultura del mercante

medievale italiano » e « Case e botteghe a Firenze nel trecento » — sono

certamente ricordati dai lettori di questa rivista, nei quaderni della quale

primamente comparvero. Gli altri attengono altresì per lo più alla storia

mercantesca fiorentina del due e trecento e così quelli su « La beneficenza

delle compagnie mercantili del trecento », su una « Lettera di Niccolò Ae­

riamoli a Niccolò Soderini (1363)», su « I mutui dei mercanti fiorentini

del trecento e l’incremento della proprietà fondiaria», su <(Un bilancio

domestico a Firenze alla fine del dugento », su « L’interesse del denaro a

Firenze nel trecento », su « Un fiorentino bizzarro alla corte di Borgogna :

Scaglia Tifi », su « Il taccamento dei panni franceschi », su « Firenze e

Castruccio : tentativi di guerra economica », su la « Storia interna della

compagnia mercantile dei Peruzzi », su « Le compagnie mercantili toscane

del dugento e dei primi del trecento: la responsabilità dei compagni verso

i terzi » e su « Il personale delle compagnie mercantili nel medioevo ».

(9)

ALBA E TRAM ONTO DELLE CORPORAZIONI D ’ARTI E MESTIERI 83

cronistiche dell’economia medievale », « L’usura nel dugento a Pistoia »,

« I precedenti della previdenza sociale nel medio evo », pur trattando ge­

neralmente problemi generali, sono ravvivati da testimonianze lucchesi e

veneziane, da riferimenti precisi calzanti alla pratica mercantile fiorentina

dei secoli dall’autore prediletti.

L’ultimo volume sovra elencato ci trasporta ad epoca più vicina a noi.

L’Istituto per gli studi di politica internazionale incaricò il prof. Luigi Dal

Pane di raccogliere i documenti più importanti sul tramonto delle corpora­

zioni in Italia nella seconda metà del secolo XVIII e nella prima del XIX.

Ne è uscito un volumetto maneggevole, consigliabile anche ad uso scola­

stico, nel quale, dopo una succinta introduzione del Dal Pane, sono rac­

colti, in una parte prima, estratti da atti legislativi e relazioni ufficiali,

venete, toscane, milanesi, pontificie, napoletane e piemontesi, che prelusero

o sancirono l’abolizione dei corpi di arti e mestieri ed in una seconda parte,

estratti da scritti contemporanei di critica alle corporazioni redatti da eco­

nomisti come G. A. Costantini, Cesare Beccaria, A. N. Talier, Pietro Verri,

A. G. B. Paolini, G. B. Vasco.

I due volumi su « Le arti fiorentine » sono provveduti di accurati indici

alfabetici. Quello del Sapori, com’è uso mirando dell’autore, sono arricchiti

da una scelta compiuta — uso a bella posta i due aggettivi complemen­

tari — bibliografia e da un indice dei nomi e delle materie (pp. 597-657)

che più bello e vantaggioso non si potrebbe dire.

2. — Il nuovo interesse per la storia delle corporazioni d’arti e me­

stieri — ma nel tempo in cui queste furono vive la parola corporazione era

poco usata e si parlava piuttosto di « arti », « corpi », « università », « col­

legi » — ha avuto origine dal moderno ordinamento amministrativo-poli-

tico dei ceti economici italiani. La deputazione storica toscana appare lieta

che per siffatta ragione sia meglio apprezzato il valore storico delle corpo-

razioni artigiane dei nostri comuni medievali; ed anche nella raccoltina del

Dal Pane è chiaro il proposito di offrire materia di meditazione ai costruttori

odierni. Ma, salvo forse la silloge del Dal Pane, nessuna delle pubblica­

zioni qui recensite ha indole occasionale; e tutte intendono, come è dovere

dello storico, alla sola conoscenza della verità.

(10)

Sapori. Spesso l’importanza di uno scritto, teorico o storico, non è tanto

nella tesi propugnata o nella dimostrazione offerta, quanto nel contrasto

che tesi e dimostrazione suscitano nei lettori studiosi. Sovratutto per il

Sombart questo si può affermare: che i suoi volumi ebbero il grande me­

rito di essere, quando furono sottoposti al sottile vaglio della critica, dagli

storici giudicati frettolosi nella generalizzazione all’intiera Europa di fatti

vicende istituti proprii di talune particolari regioni germaniche, ed indul­

genti ad accesi contrasti fra tempo e tempo, fra un medioevo immaginato

rigidamente immoto ed un rinascimento concepito improvvisamente rivo­

luzionario, invece che delicatamente volti a chiarire il graduale lento sfu­

mare dall’uno nell’altro tempo; e di venire ripudiati dagli economisti, i

quali videro nelle sue pagine attribuita indole di tesi economiche a quelle

che erano invece spunti di polemica politica classista. Frattanto, quei libri

suscitarono ricerche nuove, fecero riandare fonti e furono stimolo a scritti

memorandi. Nessun maggiore compiacimento avrebbe egli potuto (fa d’uopo,

scrivendo, adoperare il tempo passato per il valoroso uomo mancato or ora ai

vivi) provare del leggere, nelle primissime linee della prefazione del Sapori :

« Gli scritti che qui raccolgo si inquadrano, nel loro inizio, nell’interessamento

per i problemi di storia economica, acuito dal primo apparire de II moderno

capitalismo di Werner Sombart nel 1896, ed accresciuto dalla pubblicazione

della seconda edizione nel 1916-917 e dalla sua traduzione in lingua ita­

liana nel 1925, da quando appunto cominciarono i miei lavori ». Forse il

Sapori si fa troppo umile quando attribuisce al Sombart quell’interessa­

mento per gli studi di storia economica, dovuto sovratutto al demone suo,

il quale attendeva solo la occasione per rivelarsi; certo è che, se filiazione

idea.’e vi fu, i figli italiani — e mettasi accanto al Sapori anche il tradut­

tore di Sombart Gino Luzzatto — si palesarono subito di gran lunga mag­

giori del maestro tedesco.

4.

— Direi, sebbene qui più non si possa parlare di maggior dignità

scientifica, che tra le due opere sovra annunciate, del Doren e del Sapori,

le mie predilezioni vanno per quest’ultima. La indagine del Doren su « Le

Arti fiorentine » è ammiranda e davvero fondamentale, secondo dichiara

la deputazione storica toscana: di bella, quasi artistica tessitura — nascita

dell’arte, il singolo artigiano e l’arte, la interna struttura, gli organi della

volontà, l’amministrazione finanziaria, la giurisdizione civile, la polizia eco­

nomica e il diritto penale, come nascevano gli statuti, le arti ed i loro

compiti militari, caritativi e amministrativi; lo stato e le arti — l’opera dql

/ r

(11)

ALBA B TRAM ONTO DELLE CORPORAZIONI D ’ARTI E MESTIERI 85

Doren è compiuta in sé e ad uno ad uno e nei loro vicendevoli rapporti

sviscera tutti gli aspetti della vita delle arti fiorentine. £ destinata, come

tutte le opere di scienza, ad essere, poco o molto, integrata nei particolari

e corretta nelle vedute generali; e nel tempo stesso a rimanere come pietra

miliare nel faticoso cammino della scienza storica.

(12)

che doveva essere e sono quindi utilissimi ai giuristi, laddove i libri di com­

mercio ci offrono la notizia di quel che veramente accadde e sono perciò pre­

diletti dagli economisti. I quali, è risaputo, hanno debolissimo il senso del

rispetto per le leggi scritte, per i comandi del legislatore, per i consigli del

predicatore e vogliono sapere invece quel che fu pensato, operato e conse­

guito dagli uomini vivi. Se il Doren ha acquistato così gran luogo nella

storia delle arti fiorentine si fu perché egli seppe vedere, attraverso la let­

tera dello statuto e della norma scritta, quel che in verità gli artigiani fio­

rentini di fatto operavano. Al Doren giova a tal uopo l'intuito del reale;

ma al sottile senso critico del Sapori è squadernata ampia messe di fatti

da analizzare e far rivivere in quei libri, nei quali i contabili delle grandi

case mercantesche fiorentine del dugento e del trecento quotidianamente

registravano le transazioni, grosse e minute, dei soci e dei fattori di esse.

Quella era una massa meravigliosa di dati e di fatti, esplorata prima quasi

solo a fini di indagini di storia politica o artistica o anedottica. Se il Sapori

vi si gittò dentro a capo fitto e ne trasse tanta messe di scoperte di storia

economica, giuocoforza è affermare che egli possedeva spontaneamente quel

che fa difetto ai nove decimi di coloro che attendono a scrivere di cose

nostre, e cioè il sesto senso economico.

5.

— Debbo — per la impossibilità di dare anche una rapida impres­

sione della ricchezza di notizie, di interpretazioni e di ricostruzioni profusa

a piene mani nei libri di Doren e di Sapori — limitarmi ad estrarre da

essi qualcosa rispetto alle corporazioni fiorentine del due e trecento. Poiché

è mio proposito offrire al lettore sovratutto larghi estratti della silloge del

Dal Pane intorno alle ragioni della abolizione delle corporazioni avvenuta

alla fine del secolo XVIII, giova prima dire quanto fosse varia e viva la

struttura dei corpi d’arti intorno al 1300 in confronto dell’irrigidimento a

cui essa era giunta alla fine del XVIII secolo.

Già il Doren aveva messo in chiaro come nel quadro generale europeo

delle mutazioni storiche delle arti, Firenze introducesse tocchi originali e

sfumature suggestive. La visione dell’istituto muta profondamente di tempo

in tempo ed i tempi paiono tre. In quello della grande fioritura (secoli

XIII e XIV) domina la libertà più ampia per ognuno di esercire quel me­

stiere che a lui meglio piaccia e nel modo che più gli talenti. La distin­

zione tra discepoli (apprendisti) e lavoranti (garzoni) non è netta; non si

richiede un tempo fisso obbligatorio di noviziato; né v’è obbligo di pas­

sare attraverso al primo stadio per giungere al secondo. La qualità ^di

/

(13)

ALBA E TRAMONTO DELLE CORPORAZIONI D’ARTI E MESTIERI 87

maestro non è giuridica, sibbene meramente sociale; e la subordinazione

dei discepoli e dei garzoni al maestro ha indole più disciplinare, famigliare

e quasi d’ordine pubblico educativo che economico-privata. Sovrasta il bi­

sogno di non ostacolare l’entrata nell’arte con esigenze e richieste esagerate.

Nel tempo della tendenza ad un regolamento uniforme e nettamente

formulato delle arti (1400-1550) si accentua la costrizione; i tre gradi di

discepolo, garzone e maestro si irrigidiscono sia per la esigenza del passag­

gio successivo dall’uno all’altro, sia per la determinazione degli anni obbli­

gatori di permanenza in ognuno dei due primi gradi. L’assunzione al ma­

gistero è resa ardua dalla esigenza di requisiti morali e tecnici e da quella

della confezione del capo d’opera. I rapporti patriarcali famigliari fra

garzoni e maestri si allentano ed il ceto dei garzoni si distingue viemmeglio

socialmente da quello dei maestri. Si tende a limitare il numero dei di­

scepoli ed a negare l’accesso all’arte ai sopravvenienti estranei.

Nel terzo periodo (1550-1850) l’abisso fra garzoni e maestri diventa

sempre più profondo ed a poco a poco non è più colmabile; la speranza

di giungere al magistero e di raggiungere l’indipendenza economica viene

meno. Il ceto dei lavoranti garzoni si organizza ed inizia la lotta con il

ceto dei maestri, ognor più chiuso nel suo monopolio di mestiere e perciò,

dinanzi alla concorrenza di industrie nuove e libere forestiere e nazionali,

ognora più decadente. (Doren, I, 220-22).

(14)

alcun mestiere, dilettanti di studi e di poesia, capitalisti soci di compagnie

mercantili o bancarie — ; dall’esclusione dai contributi e dalle cariche per

gli artefici minori, non immatricolati, sia che essi fossero suppositi ossia

dipendenti dai maestri, come garzoni o discepoli, ovvero venditori ambu­

lanti od artigiani di contado, più o meno sciolti dai vincoli cittadini, alla

varietà dei sottoposti, che potevano essere tirocinanti o garzoni o membri

della famiglia collaboranti col maestro. Malagevole è trovare, nella tra­

dizionale tripartizione in apprendisti, garzoni e maestri, luogo adatto al

ceto particolare dei « fattori » che il Doren paragona (I, 223) ai diri­

genti dei grandi istituti bancari moderni. Avevano costoro emolumenti su­

periori ai guadagni di molti commercianti ed industriali indipendenti; eppure

rimanevano per lo più per tutta la loro vita procuratori, cassieri, tenitori

di libri, pur riuscendo talvolta ad elevarsi a soci della compagnia di cui

erano prima impiegati (I, 224).

i

7.

— Sapori, giustamente, non è soddisfatto e per rifare il quadro fa

« passare in seconda linea i testi giuridici, dai quali è stato tratto ormai

tutto il possibile » e, come già dissi, si giova « a preferenza di un’altra

fonte da poco acquisita alla storia economica, i libri di commercio » (p. 438).

Nei libri delle due grandi compagnie fiorentine dei Bardi e dei Peruzzi

egli segue tra il 1310 ed il 1345 la carriera e le paghe di 346 impiegati

dei Bardi e fra il 1331 ed il 1343 di 133 impiegati dei Peruzzi. In media

ogni anno le persone a stipendio dei Bardi oscillavano fra 100 e 120 e la

loro permanenza media nell’impiego durò dagli 11 ai 12 anni. Quanto

varii i loro uffici! In basso i fattorini, sorta di avventizi, incaricati del re­

capito di merci e dei piccoli pagamenti. Non sempre l'incarico riusciva a

buon fine. Un «Andrea di ser Michele de’ Rinucci nostro (de’ Peruzzi)

garzone il 30 ottobre 1337 ebbe lire 34 soldi 12 e 6 denari.... i 20 fiorini

.... portossene i denari e non tornò con essi, e i fiorini 3 d’oro, s. 25 d. 6 gli

rimasero, di denari ch’aveva avuti per pagare terzi di panni e spesegli per

sé propio ». Più ricca la categoria degli impiegati di concetto, conosciuti

genericamente negli statuti sotto il nome di fattori.

I « discepoli », i quali avessero superato soddisfacentemente il tempo

di prova, potevano diventare:

— fattori-scrivani o fattori-chiavai, oggi si direbbero contabili e cas­

sieri, veri impiegati diretti da « scrivani », o « segretari » ossia capi-contabili

posti nella gerarchia subito dopo il capo e direttore generale della com­

pagnia;

■f

(15)

ALBA E TRAMONTO DELLE CORPORAZIONI D ’ARTI E MESTIERI 89

— notai, iscritti nei libri tra i fattori, con l’appellativo di « procuratore

e notaio ». Come le grandi banche e società per azioni odierne, le compa­

gnie mercantili fiorentine, oltre a ricorrere a notai e consulenti professio­

nisti, retribuiti per le singole prestazioni, avevano costituito quello che oggi

si direbbe un proprio ufficio legale, alcuni membri dei quali, stipulavano,

come notai, i contratti ed in genere redigevano le « carte » ed altri, che oggi

si chiamerebbero avvocati, « piativano » ossia patrocinavano in giudizio.

— funzionari, o « fattori » senz’altra aggiunta, soggetti agli ispettori

inviati dalla sede centrale od ai direttori delle varie sedi della compagnia.

L’ufficio di « direttore » non era tuttavia permanente, accadendo spesso

che chi « aveva tenuto fuori di Firenze una ragione » fosse richiamato in

Firenze con le semplici funzioni di « fattore », per essere poi inviato a

reggere un’altra sede. Si voleva un avvicendamento tra i fattori e li si

voleva, ogni tanto, tenere vicini al capo della compagnia. Lo stipendio ri­

maneva, nonostante le mutazioni di carica, immutato, se si eccettua tal­

volta un aumento all’estero sia a causa dell’importanza dell’incarico, sia a

titolo di indennità per spese: come accadde per Bencivenni Tornaquinci

Bonsostegni, de’ Bardi, il quale ricevè fuori di Firenze lire 290 all’anno e

145 lire soltanto quando rimase in sede. I fattori erano di solito muniti

di procura speciale per un dato negozio o una data zona o di procura gene­

rale con amplissime facoltà entro determinati limiti di tempo. Gli affari

iniziati dall’un fattore potevano essere proseguiti e terminati dall’altro e

l’operato suo impegnava, se tenuto entro i limiti del mandato, la respon­

sabilità della compagnia e dei compagni, solidalmente ed illimitatamente

tenuti per gli affari sociali. Il fattore non era responsabile personalmente

per i negozi conchiusi a nome della compagnia; doveva renderne conto

e versare alla compagnia od alla massa fallimentare tutto ciò che tenesse

di loro spettanza. Vivendo del loro stipendio, e non partecipando agli utili

sociali, raramente accadeva che il fattore divenisse socio o compagno. Dei

fattori dei Peruzzi nessuno divenne socio; di quelli dei Bardi se ne co­

noscono cinque^ nessuno dei quali aveva partecipato agli utili di bilancio

né ricevuto doni di sorta : Filippo di messer Bartolo di messer Jacopo Bardi,

compagno dopo dieci anni di impiego, dal 1309 al 1319, durante i quali

era passato gradualmente dallo stipendio di 15 a quello di 160 lire (l),

Gherardino Gianni, fattore dal dicembre 1319 con lo stipendio di lire 200

(16)

e compagno dal primo luglio 1320; Giovanni Gherardini fattore dal 3 gen­

naio 1317 con lire 250 e compagno dal luglio 1320; Lapo Niccoli fattore

dal primo di febbraio 1323 con lire 290 e compagno dal luglio 1326; Taldo

di Valore Orlandi, già fattore disonesto e licenziato nel 1316 «parendoci

che non si fosse bene portato in Inghilterra », poi riassunto dopo quattro

mesi (« ci rifermammo chollui») e mandato a Rodi e ad Avignone, socio

dal 1320.

8.

— Ai fattorini o garzoni assunti a tempo o per piccoli incarichi si

dava stipendio ad arbitrio della compagnia, in denaro e, talvolta, in panni

per vestire ed alimenti. Se la occupazione durava, anche senza contratto,

si usava assegnare stipendio ad anno; come si fece con Bindo Tommaso dei

Peruzzi, rimasto a guardia di un fondaco dal 15 luglio 1338 al 1 luglio 1343,

il quale ricevette 43 lire e 10 soldi l’anno. I fattori erano invece sempre

assunti ' con contratto scritto, nel quale si elencavano sovratutto gli ob­

blighi ad essi assegnati da vecchie consuetudini. Fino a quando rimanevano

« discepoli » in prova, l’uso era quello della gratuità. Il Sapori conosce

solo il caso di Gagliardo di Neri Bonciani, al quale, probabilmente perché

servì dal 17 novembre 1336 al 1° luglio 1343 a Napoli, fu assegnato un sa­

lario di 30 lire l’anno per i primi due anni, 40 lire i due seguenti e 50 lire

gli altri. Tra la fine del discepolato e la nomina a fattore, si usava dare

qualche salario, fissato, a guisa di dono, a libito della compagnia: Jacopo

di Stoldo Angiolini « discepolo nostro che cominciò a tenere la chiave della

cassa nostra de’ contanti per Gherardino di Tano Baroncelli chiavaio »

il r aprile 1336 e la tenne fino al 1° luglio 1337 « che la lasciò » (come

discepolo non ebbe in consegna la cassaforte, ma la cassetta degli spiccioli),

ricevette « panno per vestirsi quando andò a studiare a Parigi, e oltracciò

scrivemmo a’ nostri compagni di Parigi che gli dessero fiorini venti

d’oro ».

Gli stipendi erano pagati od accreditati di solito il 1° luglio d’ogni

anno, salvo prelievi e versamenti in conto corrente ad interesse. Il contratto

di impiego era per lo più a tempo indeterminato e il licenziamento poteva

avvenire in ogni momento, ad iniziativa del personale : « Domenico di

Francesco Imbusi (de’ Bardi) disse di voler intendere a’ fatti suoi e noi

lire a fiorini, trattasi di quella lira di cui bastavano 29 soldi (1 lira e 9 soldi) a compiere il fiorino d'oro, moneta effettiva. Quando invece si discorre in lire di piccoli, occorrevano 62 soldi (tre lire e 2 soldi) a compiere lo stesso fiorino. Il soldo grosso e le corrispondenti lire equivalevano perciò a 2,1379 volte il soldo piccolo e la lira di piccoli.

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(17)

ALBA E TRAMONTO DELLE CORPORAZIONI D ’ARTI E MESTIERI 91

ne fummo contenti », o della compagnia : « li diciemmo [a Donato di

Guido Donati] che intendesse a fare altri suoi fatti, e non ¡stesse a spe­

ranza d ’avere da noi salario ». Se l’impiegato dava scarso rendimento,

gli si riduceva o sospendeva il salario; se malato, lo si sospendeva durante

la malattia, e cosi se egli si assentava per incarico' pubblico: a Fran­

cesco di Lapo Mangioni, de’ Peruzzi, nel dare il salario dal 15 giugno 1338

al 15 settembre 1342 in ragione di 217 lire e soldi 10 l’anno « d i tale

tempo rabattemmo per mesi quindici, che in fra '1 detto tempo stette

per più volte a Pisa per gli ufficiali sopra il grano per lo Comune di

Firenze ». Se l’impiegato era distratto da altre faccende, gli si diminuiva

il salario, come a Bencivenni Tornaquinci Bonsostegni al quale, nei tre

anni che rimase a Firenze, il compenso fu ridotto da 145 a 77 lire l’anno

perché « curò assai i fatti suoi », o addirittura lo si licenziava, come ac­

cadde ad Antonio di Bindaccio del Bene, dei Bardi, « perché intese più

a’ fatti suoi che a’ nostri ».

La disonestà era severamente punita col licenziamento, con la richiesta

di indennizzo e la denuncia criminale. Dando ragione di certe spese i

Peruzzi annotano:

« I detti denari si spesono in fare pigliare e mettere nelle Stinche [prigioni] Jacopo di Tuccio Ferrucci nostro fattore, il quale ci avea fatto molto danno stando a Napoli e a Vingnone [Avignone] : che le lire 34 d. 8 a fiorini spesono Aitavano di messer Amideo e Giottino di Donato di Giotto ch’andarono a Pisa a farlo pigliare là e menarlono a Firenze; e le lire 8 s. 17 a fiorini per lire 40 piccoli che si pagharono a l’Oficiale de la Merchatantia per lo diritto de[l] richiamo che si fece d’Jacopo; e le lire 11 s. 4 a fiorini sono per danari dati a’ messi e famiglie de l’Oficiale e della Podestà e per più scritture fatte e per mandare le famiglie insino a Empoli e altre spese ».

A Vieri del Verre i Bardi addebitano otto fiorini per interesse di

certi denari che egli avrebbe dovuto versare e invece trattenne per un bel

po’ di tempo:

« Gli otto fiorini gli si ritenghono per chagione di ciento venti fiorini d'oro che aoperò in suoi fatti propi di quelli della compagnia, e poi gli vi rimise pocho anzi che morisse, che rachattò da altrui e non ne sapemmo noi niente, se non dopo la sua morte molto in segreto, e non sapemmo se gli tenne uno anno, o più o meno ; senonché arbitrammo che fosse uno anno ».

(18)

Gul-terotto di messer Jacopo, morto il 1" febbraio 1331, accogliendo in casa

due ragazze da lui lasciate, calcolarono che la spesa annua per il loro

mantenimento, escluso il « vestire e calzare » si aggirasse per ognuna da

20 a 25 lire di piccoli, equivalenti all’incirca in media a 10 lire e 10 soldi

di lire in fiorini. Perciò egli giudica che lo stipendio medio dei fattori

in 50 lire a fiorini l’anno non fosse troppo tenue; e reputa buoni i molti

stipendi sulle 100 lire l’anno, assai elevati i non pochi superiori sino

alle 200 lire ed altissimi quelli di 435 e 450 lire con cui furono retribuiti

i fattori-segretari Fatto Libertini e Ciro del Migliore, capi-contabili dei

Bardi. Gli stipendi erano cresciuti frequentemente, a volte persino ad ogni

anno, come accadde ad Arrigo di Filippo Boninsegna, dei Peruzzi, assunto

nel 1335 con lire 80 a fiorini l’anno, cresciuto nel 1337 a 100 lire, nel

1338 a lire 120 ed a lire 145 nel 1340. Allo stipendio si aggiungevano

non di rado gratifiche straordinarie. I Peruzzi donano a Giovanni Bonducci

Cambi « di nostra buona volontà 40 lire perch’egli avesse materia e cha-

gione di fare bene i fatti della compagnia quando andò in Puglia » e

lire 100 a Michele Bottaccini « perché gl’avesse migliore volere di fare

i fatti della Compagnia ». I Bardi regalarono spontaneamente lire 300 a

Bencivenni Tornaquinci Bonsostegni «p er lo faticare che

fe d e

per raqui-

stare il debito verso il Re Roberto» fra il 1335 e il 1337; lire 641 a

Buono Filippi « per buoni portamenti negli affari della compagnia », lire

300 a Cino del Migliore Ridolfi per aver chiuso la contabilità per i due

anni dal luglio 1316 al luglio 1318 « trovandola molto grassa ». Il dono

può essere fatto in seguito a richiesta del fattore: i Peruzzi donano 40 lire

a Bindo di Bindaccio Guasconi « non parendogli essere ben provveduto » ;

i Bardi lire 80 ad Andrea Portinari « che gli parea essere istato mal pro­

veduto in questo tempo ch’era istato in Fiandra siché per lo meglio ci

parve di fargli questo aroto [aggiunta] in questi tre anni ». Talvolta il

dono ha l’aspetto di provvigione: Piero di Bino di ser Tinaccio riceve

nel 1341 lire 1450

« parendo ch’egli avese fatto buon portamento intorno a' fatti de’ compagni d’Inghilterra e per cierti doni di moneta che il Re d’Inghilterra gli fece, i quali doni e quanti altri gli fossero fatti in Inghilterra, tutti con suo volere rimangono e debono essere de la nostra compagnia ».

Accadeva che le compagnie trattenessero denari dei soci e fattori. Alla

morte del socio dei Bardi, Filippo Aldobrandini, la compagnia non de­

nunziò un deposito di 9000 lire, « quali celammo ai suoi figli per la loro

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ALBA E TRAM ONTO DELLE CORPORAZIONI D ARTI E MESTIERI 93

migliore acciocché non si disordinassero troppo»; alla morte dell’altro

socio, Bocchino di Chiaro Ulivieri, la compagnia, che amministrava le

cose dei pupilli, dimenticò nel rendiconto a costoro divenuti maggiorenni,

4058 lire, « per più loro benefizio, perché sì come giovani non fossero

troppo larghi a spendere oltragiosamente » ; a Geri, erede nel 1336 di

Gino di Boninsegna Angiolini, la compagnia occultò 8546 lire, « e’ quali

e’ non sa che gli debia avere, e ciò abiamo fatto perché sia più tem­

perato nelle sue spese, ch’è troppo grande spenditore ». Gli Aldobrandini

e gli Ulivieri riebbero il loro, ma l’Angiolini fu pagato, dopo il disastro

della compagnia, in moneta di fallimento.

9.

— Il quadro che balza fuori dalle pagine del Sapori non è certo

quello di un mondo ad imprese piccole e medie, costrette a mediocrità uni­

forme dall’ordinamento corporativo. « In ogni campo dell’economia si eb­

bero, in ogni momento, aziende piccole, medie, grandi e grandissime, le

quali ultime controllarono le minori, quando non le assorbirono e le tra­

scinarono con loro al fallimento, quando i colossi crollarono » (p. 546).

Il contrasto fra la legge canonica, la quale vietava il prestito ad in­

teresse e la realtà, nella quale i saggi di interesse dall’8 al 15 % erano

reputati normali e gli stessi ecclesiastici inventavano ragionamenti per sal­

vare dalla taccia di usura saggi di interesse che in altre epoche, prima e poi,

sarebbero parsi altissimi; fra la legislazione, la quale voleva mantenere, in­

sieme alla uguaglianza sociale, la stabilità nelle famiglie e nelle classi e

fu poi idealizzata quasi fosse stata realtà e questa realtà medesima, che

era di un’economia rigogliosa e di fortune ingenti rapidamente formatesi,

è siffatto da far esclamare al Sapori : « Dovremo riconoscere, almeno, che

quegli stessi uomini che ebbero la sagacia di fare la legge, idonea per una

larga situazione caratterizzata dalla massa degli artigiani, ebbero anche la

forza e la spregiudicatezza di violarla » (p. 548). Fra i tantissimi esempi

di grandi fortune il Sapori ricorda alcuni pochi: l’eredità di Bartolo di

Jacopo Bardi, che, ai primi del trecento, era di 17.240 fiorini liquidi e di

8.400 fiorini in immobili e nel 1345 era stata cresciuta dai figli a 129.142

fiorini. Fortuna grandiosa lasciò morendo nel 1268 il doge Rinieri Zeno,

valutata a 50.000 lire di piccoli, equivalenti, in peso d’oro fino, a 300.000

lire del 1914: immobili 10.000 lire, denaro contante 3.388, preziosi 3.761,

crediti vari 2.264, crediti derivanti da 132 colleganze 22.935, prestiti pub­

blici 6.500.

(20)

stipendi di 50 lire l’anno, ed i più alti funzionari, direttori-contabili, giun­

gevano a 300 fiorini l’anno, Giotto ed Arnoldo Peruzzi spesero nel 1309

per le loro famiglie una somma in fiorini equivalente, in oro fino, a 7.680

lire antebelliche (1914) e nel 1313-15 a ben 24.000; ed il solo Giotto, se­

paratosi dal fratello, nel ,1319-20 spese 14.400 lire antebelliche.

10. — Il tipo tradizionale del « maestro » il quale lavora insieme col

« garzone » e cura, con opportune correzioni manuali, la istruzione del

ragazzo tirocinante è in parte vero; ma non raffigura la realtà varia ricca

e viva della società del ’200 e del ’300.

« Al di là della minuscola apoteca del piccolo artigiano c’era il fondaco grandioso, come, a lato della povera azienda cittadina e addirittura rionale, c’era la grande impresa del traffico internazionale; e in quei fondaci doviziosi e in quelle ricchissime imprese si muovevano persone profondamente diverse, che avevano diverso portamento e diverso vestito, e diversa mentalità, che parlano quasi una lingua diversa, e si appellavano persino con nomi agli altri non uguali. Si possono forse chiamare maestri i capi e i compagni delle compagnie di Calimala, della Lana, del Cambio? Lungi dal lavorare con le proprie braccia, costoro davano ordini a una folla di impiegati sparsi per tutto il mondo, prendevano parte ai consigli di ammi­ nistrazione, partecipavano tante volte alle aziende soltanto con l'apporto di capitali accumulati con i dividendi o con il reddito di beni fondiari. Ed erano veri maestri i « fattori » di quelle compagnie? Uomini altrettanto esperti nella tecnica del com­ mercio di ogni paese, quanto il maestro falegname lo era nella tecnica del suo la­ voro concluso con semplici strumenti tra quattro squallide pareti, non erano però come lui indipendenti, non come lui arbitri di sé e del loro ingegno; ma erano sottoposti al volere del capo della compagnia e dei « compagni », stipendiati per accrescere la loro ricchezza, minacciati di licenziamento se esorbitavano dai limiti di azione fissati in una carta notarile. E neppure i « discepoli » delle compagnie si potevano confondere con gli altri apprendisti dal medesimo nome. Invece di ap­ prendere tutto il mestiere, essi potevano stare chiusi per anni e forse per tutta la vita dinnanzi a un libro, e intenti a guardia di un forziere, e se il mestiere impa­

ravano appieno conquistandosi la maturità e le forze economiche necessarie per una attività indipendente, dovevano rinunziare alla comodità del fondaco cittadino vicino alla casa o alla famiglia, e affrontare in terra straniera il disagio ed il pericolo dei viaggi e la malafede degli uomini : per loro imparare il mestiere non era giungere a fare, in un momento d’ispirazione, il capolavoro, ma invece, completa, la battaglia della vita. Infine anche i « garzoni » delle società mercantili, adibiti a mansioni che nulla avevano a che vedere con l'apprendimento di un mestiere, erano tutt’altre figure che quelle stilizzate dei giovani avviantisi, dopo il discepolato, alla suprema gerarchia dell'arte » (pp. 455-6).

11. — Nel saggio pubblicato in questa rivista e riprodotto nel volume

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ALBA E TRAMONTO DELLE CORPORAZIONI D ’ARTI E MESTIERI 95

ora recensito, il Sapori ha detto quale fosse la cultura del mercante me­

dievale italiano. La tesi diffamatoria del Sombart:

« chiunque si è occupato dei conti del medioevo sa che, dal riesame delle somme in essi calcolate, risultano molto spesso delle cifre sbagliate, e che lo spostamento delle cifre in una partita di conti, forma, si potrebbe dire, la regola.... [Erano] eccessi­ vamente grandi le difficoltà che incontravano quegli uomini per tenersi in testa delle cifre anche per poco tempo, come avviene oggi per i bambini.... Ciò che dà a questi notiziari dei mercanti medievali l'importanza di un segno distintivo particolarmente chiaro dell'impresa completamente artigianesca, è il loro carattere spiccatamente personale; essi non possono in alcun modo essere separati dalla persona che li tiene; nessun altro può e deve orientarsi in questo labirinto di annotazioni » (p. 294).

— è, al solito, di maniera. Sapori, il quale ha studiato sul serio i libri dei

mercanti fiorentini del due e trecento, dimostra che tutto ciò è pura fantasia:

«Preso a studiare un gruppo di libri (non un libro solo!) superstiti di una modesta compagnia di Calimala dei primi anni del trecento, ripercorrendo, registra­ zione per registrazione, la strada del vecchio ‘ scrivano ', giunsi agli stessi suoi ri­ sultati finali, nel determinare la misura degli utili a fine degli esercizi e le attività e le passività al momento della messa in liquidazione dell’azienda, (p. 295)... Ai primi del trecento, e naturalmente la pratica può e deve essere alquanto retrodatata, si calcolarono gli interessi col sistema della capitalizzazione a fine d'anno (l’espres­ sione era ‘ fare capo d’anno ‘) ; si calcolò con ogni scrupolo l’adeguato di scadenza

(l’espressione era 1 eguagliare in uno dì ») ; si calcolò lo sconto non col metodo attualmente in uso dello sconto detto commerciale, ma con quello più rispondente allo scopo, che vien chiamato sconto razionale.... La pubblicazione integrale dei libri di commercio dei Peruzzi.... ha permesso anche di stabilire, con la possibilità di riscontrare una quantità enorme di operazioni, eseguite nel corso di più anni da più contabili, che costoro, lungi dall'accontentarsi di risultati approssimativi, evitarono costantemente quegli stessi arrotondamenti dei denari, in operazioni importanti mi­ gliaia e centinaia di migliaia di lire, che attualmente non disdegnano i ragionieri delle grandi banche, e spinsero costantemente le divisioni a più decimali, per trovare le frazioni di denaro adatte a stabilire, con precisione assoluta, l'equivalenza di ingenti somme in valute diverse » (pp. 296-9).

(22)

« Nella parte più in luce, come volevano gli statuti, ad evitare la frode, si svolgevano le trattative con i clienti; in un angolo, al desco, stava appartato lo scrivano, ché non tutti gli occhi indiscreti dovevano potersi posare sulle cifre che egli andava scrivendo ; nel fondo fervevano le discussioni di un gruppo, sempre vario, di uomini di affari, che commentavano le disposizioni governative, o discutevano degli avvenimenti politici in rapporto ai loro traffici, e ricercavano intanto l'un l’altro, con fare semplice e con animo intento, notizie commerciali, gruppo più folto alla partenza ed all'arrivo dei corrieri, ché a quelli che partivano tutti affidavano le lettere da recare ai compagni lontani, e attorno a quelli che giungevano tutti si affollavano per ricevere le missive degli agenti e dei fattori fuori di sede: missive ricche, come giornali, di informazioni, dal corso dei cambi e dal prezzo delle merci in fiera all'esito di una battaglia, alle voci di minacciati sequestri o di previsti favori da parte di principi e signori. Riunioni quotidiane, quelle per la corri­ spondenza, ché ogni giorno i corrieri convenivano da località diverse e muovevano in diverse direzioni, oggi ad iniziativa di una compagnia, domani di un'altra, con la scarsella sempre piena della corrispondenza di tutti : con un tale ordinato av­ vicendamento che si può quasi parlare di un servizio regolare di posta, dovuto alla solidarietà dell'intiera classe dei mercanti » (p. 302).

13.

— Che cos’era dunque quella che oggi si usa chiamare l’ordina­

mento corporativo delle città medievali italiane? Se qui ristringiamo lo

sguardo alla Firenze degli anni fra il 1250 ed il 1350, noi non vediamo

caste chiuse, corpi d’arte nettamente costituiti, con gerarchie sociali e pro­

fessionali disciplinate uniformemente, attraverso i gradi di apprendisti, gar­

zoni, maestri, consoli, gonfalonieri o podestà. Una società cotanto ordinata

sarebbe stata un convento, non una città nella quale si lottava nelle piazze

e nei palazzi fra grandi e popolani, fra popolani grassi e popolani minuti,

fra guelfi e ghibellini, si armavano eserciti contro le città rivali, si allargava

lo stato dalla cerchia cittadina al lontano contado, e si mandavano fattori

a negoziare prestiti e traffici con re cristiani ed infedeli. Esistono i corpi

d’arte; ma sono aperti ai nuovi venuti, in basso ed in alto: ai figli dei

grandi, che non esercitano alcuna arte, ma tentano di prendere ancora qual­

che parte al governo della città, ed ai « discepoli » venuti dal contado e

dalle classi umili. Accanto all’artigiano ed al bottegaio orgoglioso di far

parte di un corpo d’arte e di partecipare coi i suoi consoli alla ammini­

strazione cittadina, si affollano i venditori ambulanti, i manovali, gli operai

proletari, viventi accanto all’arte e da questa tenuti a segno. Ma vivono

anche le medie e le grosse compagnie commerciali e bancarie, provviste

di grandiosi capitali, proprii ed altrui, di sedi sparse in tutta Europa, a con­

tatto di principi di re e di papi, ordinatrici del lavoro di decine e di cen­

tinaia di impiegati, dai fattorini avventizi di fondaco, ai cassieri, a^

(23)

ALBA E TRAMONTO DELLE CORPORAZIONI D ’ARTI E MESTIERI 97

tabili, ai direttori di sede, agli ispettori viaggianti ed ai direttori generali,

remunerati con salari diversi e mobilissimi. Non è un mondo queto, idil­

lico; anzi in continuo travaglio di mutamento, e le ascese sono rapide e le

rovine clamorose. La lotta, il tumulto, le inimicizie, le cacciate e l’esilio

sono i segni distintivi di quell'epoca che poi fu voluta idealizzare come

tesa verso la pace sociale. Ma, perché lottava, amava ed odiava, quell’epoca

partorì credenti artisti e poeti grandi; ma perché era un’epoca di rivol­

gimenti politici economici e sociali, essa creò ricchezza potenza arte e poesia.

14.

— Passano cinque secoli; e l’ordinamento corporativo, il quale,

quando vigoreggiava ed era frutto e fattore di ricchezza e potenza, era

mobile e vario e consentiva ribellioni di malcontenti e grandezza di intra­

prendenti avventurosi, si è irrigidito disciplinato. Creava e abbatteva go­

verni; ed ora è divenuto strumento di governo. Legislatori ed economisti

hanno sul finire del secolo XVIII dimenticato le ragioni per le quali i

corpi d’arte erano sorti ed avevano fiorito. Le lettere patenti del 14 ago­

sto 1844, con le quali Carlo Alberto aboliva le università e corporazioni

di arti e mestieri, cosi si iniziano:

« Col lodevole intendimento di favorire lo sviluppo dell’industria nazionale, e di promuovere l'introduzione e lo stabilimento in questi stati di fabbriche e ma­ nifatture d’ogni maniera, li Reali nostri predecessori ravvisarono conveniente di per­ mettere nei passati tempi l’erezione di parecchie Università e Corporazioni d'arti e mestieri, e di approvarne li rispettivi regolamenti, i quali segnavano le discipline da osservarsi dagli aspiranti all’esercizio di esse arti e mestieri, ed imponevano loro varii obblighi per essere ammessi ad esercitarle, fra i quali quelli segnatamente di un regolare tirocinio, e di dar quindi prova deU'acquistarne perizia per mezzo di un esame verbale e della formazione del così detto capo d’opera. Siffatti provvedi­ menti consigliati dalle circostanze particolari di quei tempi, in cui molte arti e manifatture erano presso di Noi appena nascenti, ed abbisognavano perciò di una speciale tutela che ne dirigesse passo passo lo sviluppo e l’avanzamento, partorirono i più vantaggiosi effetti, ed ebbero tutto quel favorevole risultamento, cui mirava la saggezza dei Legislatori : ma li rapidi progressi che fecero d’allora in poi, e vanno tuttavìa facendo le arti, il gran numero d’ingegnose macchine che suppliscono ora all’opera dell’uomo, ed i mirabili perfezionamenti introdotti in pressoché tutti i rami dell’umana industria, hanno mutata affatto la condizione delle cose, e ci hanno persuasi, che, se furono quei regolamenti necessari o sommamente giovevoli al con­ seguimento dell’utile scopo, cui erano diretti, producono di presente un effetto del tutto contrario allo stesso scopo, coll’inceppare l’industria medesima, anziché porgerle aiuto e fomento » (pp. 262-63) (2).

(24)

Il sorgere delle corporazioni, che anche in Piemonte fu spontaneo

frutto delle esigenze di vita delle città medievali è da Carlo Alberto inge­

nuamente scambiato con il regolamento di esse avvenuto a distanza di se­

coli ad opera di principi nel nuovo stato burocratico moderno, e si espone

una non meno ingenua teoria dei corpi d’arte come strumento di tutela di

industrie nascenti. Di quest’ultima aveva già fatto giustizia Cesare Beccaria

nelle lezioni di economia pubblica iniziate a fine del 1768 nelle scuole pa­

latine di Milano, discutendo le privative che gli introduttori di una nuova

branca d'industria usavano nel secolo XVIII chiedere a proprio favore. La

critica del Beccaria ben si addice alla giustificazione storica carlalbertina dei

corpi d’arte i quali avrebbero avuto il merito di incoraggiare il sorgere di

nuove industrie concedendo il privilegio del loro esercizio ad un numero

chiuso di maestri:

« .... chi richiede il privilegio esclusivo fa ragionevolmente sospettare, anzi lascia con ogni sicurezza presumere, che egli voglia o debba essere un cattivo manifattore : ogni arte nuova, che da qualcheduno venga introdotta, dà sempre per se stessa un vantaggio in favore dell'introduttore, a preferenza di quelli che vengono dopo di lui. £ sempre più grande presso gli uomini il credito degli introduttori, che degrimitatori. Chi introduce un’arte nuova, oltreché può chiamarsi inventore relativamente alla nazione priva di queH'arte, già la conosce prima e più di ogni altro è già prevenuto contro gli ostacoli, ha già disposto i mezzi e preparate le corrispondenze. Chi vien dopo non potrà procurarsi simili vantaggi, se non molto tempo dopo l'introduzione dell’arte per mezzo del primo, cioè se non dopo avviato l’esito dell’introduttore, onde questo avrà sopra tutti gli altri maggior credito e forza per non temere discapito al capitale da esso impiegato. Chi dunque dimanda privative, dimanda di poter in­ gannare impunemente, e all’ombra delle leggi tiranneggiare il compratore. Chi do­ manda privative è un uomo non sicuro di se stesso, il quale cerca di coprire quel rischio che una mal’intesa avidità gli fa azzardare, e poco appoggiato alla probabilità di riuscire, cerca non nella propria attività e diligenza, ma nell’altrui dipendenza e servitù un reddito ed un profitto. Dippiù non ho difficoltà di qui ripetere, perché importante, ciò che altrove ho accennato, cioè che la concorrenza dei manifattori abbassando il prezzo della manifattura e perfezionandone l’opera, aumenta di più la ricerca e Io spaccio, di quello che non scemi alla lunga il profitto di ciascheduno in particolare, supposto che questi avesse il privilegio esclusivo, il quale se esclude gli altri dall’esercitare un’arte simile, esclude anche ed aliena una parte dei com­ pratori dal procacciarsi le produzioni di quella. A qual fine sono state dunque con­ cesse talvolta tali privative, che fanno dell’industria un esclusivo patrimonio? Ca­ gione più frequente d’un simile errore è la trepida ed improvvisa voglia d’in­ trodurre a qualunque costo e forzatamente alcune arti nella nazione. Questa fa ascoltare e aderire ai subdoli progetti, che mettono in vista un vantaggio momentaneo, sotto del quale celasi un danno lungo e rovinoso. £ assai meglio, secondo la sana politica, di restar privo di un’arte qualunque, che l’accordare simili privative^ è

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ALBA E TRAM ONTO DELLE CORPORAZIONI D'ARTI E MESTIERI 99

meglio fissar premi e gratificazioni al primo che avrà il coraggio di arrischiare un’in- trapresa, che estinguere o vendere la sorgente delle azioni industriose, per cui la riproduzione e l’esito delle materie prime e la circolazione delle opere illanguidisce e si arena. Alle privative si avvicinano le riduzioni delle arti in cosi dette badìe e università, che fanno contribuire gli artigiani e per conseguenza allontanano molti di quelli che potrebbero accrescerne il numero; che escludono i forastieri in para­ gone dei nazionali, credendo di favorir la patria col resistere a quelli che vorrebbono aumentare le forze e la ricchezza, quasi che la stessa cosa non fosse il nascervi o stabilirvisi » (pp. 279-80).

15.

— Non tutti i corpi d'arte erano, pur nell’epoca della decadenza,

chiusi. A Venezia i deputati del commercio e cinque savi della mercanzia

nella relazione del 5 gennaio 1719 per la riforma delle arti distinguevano

le arti aperte da quelle serrate:

«N elle aperte può essere admesso ognuno, previa una stabilita recognitione che viene nominata pagamento di ben intrada e con l'obligo riservato in alcune di farsi prima le prove. Nelle serrate conviene haversi un tempo consumato di garzone e mancando di questo requisito non si può ottenere l’ingresso » (p. 65).

Ser Prospero Valmarana, ser Andrea Memmo e ser Gerolamo Diedo

deputati estraordinari sopra la regolazione delle arti riconoscono nella re­

lazione delli 6 settembre 1773 che al tempo del massimo rigoglio non esi­

stevano regolamenti di corpi d’arte:

« Mentre il popolo veneziano era impiegato sulle pubbliche flotte e nella mer- cantil marina, gli artefici che qui in folla pervenivano dagli esteri stati, sicuri di esitare in pace e facilmente nella ricchissima città e nell’ampio suo commercievol territorio le proprie manifatture, accolti e protetti, come un prezioso aumento di nuova suddita popolazione, non erano regolati da discipline e da leggi » (p. 131).

Solo dopo la metà del secolo XII i corpi d’arte a Venezia

« non più liberi ed aperti li mestieri, ma parziali e ristretti, cominciarono a prender figura di corpi regolari, diretti da leggi di filiazione, di garzonato, di la- voranzia, e di capo-maestranza.

(26)

Le arti più nobili d’industria, confluenti in commercio, furono decorate con titoli di uffizi, camere, collegi, università, distinguendone alcune con prerogative di giudicatura civile e criminale.

La configurazione di arti in corpi portò con sé la convocazione dei capitoli per l'annuale elezione delle cariche e per trattar dei propri affari, subordinati però nel tempo stesso a diverse magistrature, qua per disciplina, là per esazione; qua per dazi, là per rapporti di commercio.

Un lodevole spirito di pietà fece che ognuno di questi corpi erigesse una particolare scuola di devozione sotto gli auspizi di un santo protettore; dal che si sono introdotte le tante festività, oltre le votive e di precetto, che distraggono dal lavoro, fomentando l'ozio e la crapula e aumentando di necessità la mano di opera.

Da questa forma di governo ebbero origine le loro riflessibili spese verso i cancelli ministeriali, e per le opere di devozione.

Nella semplicità delle prime leggi, lasciato ancora l'adito aperto a chi non aveva ancora i requisiti del garzonato mediante una qualche discreta differenza nelle benintrade, non si erano ancora introdotti que’ disordini e mali che s’introdussero in progresso. La trascendente facoltà lasciata a questi corpi, contro il tenor di antiche leggi, di prender parti senza la cognizione dell'eccellentissimo Senato fomentò i disordini, adulterando la loro prima forma ed istituto. Ognun cercò di restringersi nel numero coll’accrescere i periodi del garzonato e della lavorenzia, coll’aumen- tare gli esborsi delle benintrade, onde tener chi non era figlio di capo mastro il più possibilmente lontano.

La mala fede di alcuni capi manomise le loro rendite, e per più utilmente espilarle s’imposero di tratto in tratto nuovi aggravi, studiossi di render amico il ministero con contribuzioni che una volta introdotte passarono poi in consuetudine, e consecrate dalle tariffe, divennero poscia un prezzo negli acquisti degli esercenti.

Ai mali interni, e di corrotta disciplina si aggiunsero gli esterni, mentre l’avan­ zamento dell'industria forestiera ed in particolar dei confinanti, portò una sov­ versione decisiva nelle arti nostre più nobili.

A tutto ciò devesi aggiungere l’interno sconcerto di queste arti per la massa dei capitali passivi presi a livello, con pubblico permesso, da’ particolari. Alcuni furono impiegati nella fabbrica delle scuole, altri per quella degli altari ed adorna­ menti di essi, la maggior parte per sottrarsi dalla gravezza del galiotto sostituendovi l'esborso del contante o per pagare una parte dei debiti loro di tansa e taglion. Questi capitali sussistono a peso dei corpi ed il difetto de’ prò’ [interessi] in alcuni sormonta o si avvicina ad eguagliare i capitali medesimi. Si getta ogni anno una tansa, intitolata prò’ di livelli, e si carica sulle vittuarie, sulle materie inservienti ai lavori, sulle manifatture, sulle mercedi degli operai; ma la esazione rare volte arriva a saziare l’intiero annuale bisogno per le spese sicure della esazione e per la impotenza degli individui, e se in apparenza sembrano aggravati li corpi, in sostanza tutto cade a peso di chi possiede la terra, e nonostante la Cassa milizia ogni anno va scoperta di grosse partite.

I debiti vecchi diventano una nuova disgrazia negli individui poiché, battuti essi nel pagamento, la massima parte del riscosso sfuma, ed è assorto a titolo di pene, continuando il difetto nelle annate correnti, (pp. 133-136). \

(27)

ALBA E TRAMONTO DELLE CORPORAZIONI D 'ARTI E MESTIERI 101

Assai più che il preambolo carlarbertino, i relatori veneti vanno a

fondo delle reali cause che storicamente spiegano i corpi d'arte non quale

libero spontaneo frutto delle esigenze della vita industriale nel due e tre­

cento all’epoca studiata dal Doren e dal Sapori; ma quale strumento di go­

verno da parte di una aristocrazia avviata, dopo la chiusura del Maggior

Consiglio (1297) a divenire una oligarchia chiusa ed assoluta. Strumento

variamente atteggiato: ad offrire un simulacro di autogoverno ai popolani

esclusi dal maneggio della cosa pubblica, a consentire più facile esazione

delle imposte, a garantire panern et circenses, pane per quanto è possibile

distribuito a tutti con uguaglianza e feste creatrici di rivalità fra arte ed arte.

Ma la mancanza di libertà nell’entrare e nell’uscire dalle arti dava

occasione ai maneggioni di assicurare a sé guadagni illeciti ed ai parenti pri­

vilegi esclusivi.

16.

— Antonio da Mula, Zan Benedetto Giovanelli, Andrea Memmo,

procuratori sopra la giustizia vecchia, Valerio Longo, Nicolò Valia e Zan

Battista Benzon giustizieri vecchi avevano li 18 aprile 1772 candidamente

spiegata l’indole dei corpi d’arte come strumenti di governo:

« Forse poi che quella permanente quiete, nella quale restò fin dal suo prin­ cipio la Veneta aristocrazia, quiete per il corso di cinque secoli tanto ammirata da tutti quelli che rifletterono sulla prudente costituzione del governo nostro, derivò in gran parte dal lasciarsi o dal procurarsi al popolo una qualche immagine di governo; oggetto sempre di somma conseguenza in uno stato aristocratico e che fu pur celebrato da nazionali non meno che dagli oltramontani scrittori. Infatti quel- l’unirsi in assemblea, quell’elegger capi, quel destinar cariche, quel proponer parti, quel disputar liberamente tra membri delle medesime arti, sono tutti quasi certi ca­ ratteri, che introducono nel popolo una forma di piccole repubbliche, che con esse s’appaga nella propria ambizione, con che crede di aver parte negli affari, con che si affeziona al governo de' nobili, contento di tramandar queste sue idee, quasi come un’eredità, ne’ suoi figli » (p. 99).

Gli stessi provveditori e giustizieri vecchi descrivono vivacemente a

che di fatto s’era ridotto l’autogoverno dei corpi d’arte:

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