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L'utilizzo dei derivati sui tassi di cambio da parte delle imprese venete

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(1)

Corso di Laurea magistrale

in Amministrazione, finanza e controllo

Tesi di Laurea

L’utilizzo dei derivati sui tassi

di cambio da parte delle

imprese venete

Relatore

Ch. Prof. Giorgio Stefano Bertinetti

Laureando

Alessandro Baccarin 852387

Anno Accademico

(2)

Indice

INTRODUZIONE 4

I - IL RISK MANAGEMENT 5

I.I - L’ERM, PROCESSO DI GESTIONE DEI RISCHI AZIENDALI 6 I.II - I RISCHI AZIENDALI E LA LORO NEUTRALIZZAZIONE 14

I.II.I. - Rischio di tasso 15

I.II.II. - Rischio di cambio 15

I.II.III - Rischio di prezzo 17

I.II.IV - Rischio sistematico 17

I.II.V. - Rischio di credito 18

I.III - I DERIVATI 19

I.IV - LE TIPOLOGIE DI DERIVATI 22

I.IV.I - Future e Forward 22

I.IV.II - Gli Swap 24

I.IV.III - Le Opzioni 26

I.V - LE ORIGINI DEI DERIVATI 31

I.VI - LA DIFFUSIONE DEI DERIVATI 39

II - LA CONTABILIZZAZIONE DEI DERIVATI E LA DISCLOSURE DI BILANCIO 45

II.I - LE TAPPE CHE HANNO PORTATO ALLA NORMATIVA VIGENTE 45

II.II - L’OIC 32 E IL CONCETTO DI “FAIR VALUE” 50

II.III - IL FAIR VALUE, LA SUA GERARCHIA E LE DIFFICOLTÀ NEL PROCESSO DI

VALUTAZIONE 53

II.IV - L’APPLICABILITÀ DELL’HEDGE ACCOUNTING ED I SUOI REQUISITI 59 II.V - LA CONTABILIZZAZIONE DEGLI STRUMENTI FINANZIARI DERIVATI NON

DI COPERTURA SECONDO I PRINCIPI CONTABILI NAZIONALI 69

(3)

II.VI - LA CONTABILIZZAZIONE DEGLI STRUMENTI FINANZIARI DERIVATI DI COPERTURA DI FAIR VALUE SECONDO I PRINCIPI CONTABILI NAZIONALI 74 II.VII - LA CONTABILIZZAZIONE DEGLI STRUMENTI FINANZIARI DERIVATI DI COPERTURA DI CASH FLOW SECONDO I PRINCIPI CONTABILI NAZIONALI 77

II.VII.I - Esempio di contabilizzazione di un forward di copertura di cash flow. 80

II.VIII - LE RELAZIONI DI COPERTURA SEMPLICE 83

III - L’UTILIZZO DEI DERIVATI DI CAMBIO DA PARTE DELLE IMPRESE VENETE 86

III.I - INTRODUZIONE ALL’ANALISI SVOLTA 86

III.II - LA SELEZIONE DEL CAMPIONE 88

III.III - LE ANALISI SVOLTE E I DATI RACCOLTI 92

III.III.I - Prima fase di analisi 92

III.III.II - Seconda fase di analisi 99

CONCLUSIONI 112

(4)

INTRODUZIONE

La letteratura economica definisce l’individuo come “avverso al rischio” per natura, dimostrando empiricamente come sia solito preferire nella quasi totalità dei casi un profitto certo ad uno incerto anche se di maggiore entità.

La diffusione esponenziale di strumenti finanziari derivati, registrata negli ultimi decenni, può essere quindi ricondotta alla volontà degli operatori economici di coprirsi dalla crescente volatilità dei mercati, neutralizzandone possibile variazioni indesiderate.

E’ altrettanto vero però che la crescente finanziarizzazione dell’economia, provocata dal rientro nei circuiti della finanza occidentale dei capitali precedentemente investiti all’estero, può aver contribuito alla loro affermazione su larga scala, spingendo gli investitori a sottoscriverli al solo fine di ottenerne un profitto.

Il presente elaborato nasce pertanto dalla volontà di indagare le modalità di utilizzo degli strumenti finanziari derivati da parte delle imprese venete e la loro effettiva utilità nella stabilizzazione dei flussi reddituali societari.

La loro duplice funzione, di copertura e di speculazione, ha fin da subito suscitato in me interesse e curiosità in quanto assolutamente unica rispetto a quella di altri strumenti finanziari contrattati quotidianamente nei mercati globali.

Più precisamente, durante il mio percorso universitario, ho potuto avvicinarmi a questo mondo, scoprendone aspetti e peculiarità affascinanti che mi hanno spinto, in un secondo momento, a scegliere questi strumenti finanziari come main focus della mia tesi di laurea.

La struttura dell’elaborato si compone di tre capitoli e desidera ripercorrere idealmente, con lo scorrere delle pagine, il naturale ciclo di vita di tali strumenti all’interno di qualsiasi realtà imprenditoriale.

Il primo capitolo potrebbe essere infatti assimilato alla fase di selezione e sottoscrizione del derivato.

In questa fase la società, coerentemente con le strategie di Risk Management adottate, procede alla valutazione dei rischi a cui è sottoposta e, dopo una

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valutazione strategica in merito alle diverse tipologie di derivati presenti sul mercato, procede con la scelta dello strumento di copertura più adatto alle proprie esigenze. Allo stesso modo, il primo capitolo tratterà inizialmente il tema del Risk Management e successivamente sposterà il focus sulle varie categorie esistenti di strumenti finanziari derivati, esponendone peculiarità e strategie di utilizzo.

Il capitolo seguente invece tratterà il tema della contabilizzazione vera e propria di questi strumenti, aspetto da non sottovalutare se rapportato alla grande varietà e complessità dei derivati presenti in circolazione.

Questo capitolo vuole ripercorrere idealmente le scelte operative che il management societario può intraprendere nella fase di esposizione in bilancio di questi strumenti finanziari e le difficoltà che può trovarsi a dover affrontare nel garantirne una rappresentazione chiara, veritiera e corretta.

L’ultimo capitolo infine esporrà un’analisi sia qualitativa che quantitativa effettuata su un campione di 50 imprese venete al fine di conoscere le motivazioni che spingono queste realtà all’utilizzo o meno dei derivati.

Ulteriore scopo dell’analisi risulta essere l’individuazione di possibili trend di utilizzo in base alla dimensione aziendale oppure alla tipologia stessa di derivato presa in considerazione.

Questo capitolo può essere assimilato alla fase post-chiusura del contratto, in cui il

management procede con la valutazione degli effetti economici registrati cioè l’output

ottenuto attraverso l’utilizzo di tali strumenti.

Questa analisi risulta indispensabile per conoscere l’efficacia della strategia perseguita e garantire che eventuali criticità e inefficienze vengano rintracciate e comprese attraverso consapevolezza e implementazione di nuove procedure e conoscenze nel processo di Risk Management, facendo ripartire il ciclo descritto nuovamente dall’inizio.

I - IL RISK MANAGEMENT

Capitolo 1 - Step 1 Capitolo 2 - Step 2 Capitolo 3 - Step 3

Scelta del derivato Contabilizzazione del derivato Analisi del derivato

(6)

I.I - L’ERM, PROCESSO DI GESTIONE DEI RISCHI AZIENDALI

L’attività d’impresa è sempre stata affiancata al concetto di “rischio”, inteso come la probabilità che una variabile aleatoria si presenti diversamente rispetto al suo valore atteso. 1

In particolare questo legame è evidente nella definizione stessa di “imprenditore” fornita dal Codice Civile all’art. 2082, in cui si fa riferimento ad un soggetto che esercita un’attività economica di produzione e scambio di beni e servizi finalizzata alla massimizzazione del profitto.

Dato che un imprenditore deve dirigere e organizzare la produzione, egli è conseguentemente esposto ai rendimenti variabili che ne derivano e questa volatilità è l’origine stessa della rischiosità intrinseca della figura imprenditoriale.

Questa stretta connessione tra rischio e attività d’impresa si manifesta, seppur in diversi gradi e forme, indipendentemente dal tipo e dalla grandezza della realtà di riferimento.

Ad esempio, un imprenditore agricolo può essere particolarmente esposto al rischio metereologico, che può provocargli un’annata scarsa del raccolto sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo; un imprenditore commerciale che ottiene dall’estero la maggior parte del suo fatturato totale, invece, può risentire durante l’anno delle variazioni dei cambi valutari.

Questi sono solo due semplici esempi che dimostrano come, seppur le attività imprenditoriali possano essere le più disparate, nessuna è esente dalla presenza di rischi interni (controllabili) o esterni (non controllabili) che ne possono influenzare la redditività e quindi la performance aziendale. 2

Proprio per questo motivo, lo studio, il monitoraggio ed il controllo dei rischi risultano essere dei processi fondamentali all’interno di ogni organizzazione.

Rigo S. (a cura di) (2019), “Gli strumenti finanziari derivati: aspetti di risk management,

1

valutazione e contabilizzazione”, inserto ne “Il commercialista veneto” n.247-2019

Riviezzo C. (2010), “L’impresa in tempo di crisi”, Giuffré editore, Milano.

(7)

Il crescente interesse verso questo aspetto aziendale ha fatto in modo che le attività sopracitate venissero analizzate da un gran numero di studiosi, rientrando nel concetto di “Risk Management”.

Questa branca dell’economia si prefigge, in prima istanza, di analizzare tutti i potenziali fattori di rischio che le imprese si possono trovare a dover fronteggiare durante la quotidiana attività e, successivamente, di trovare delle soluzioni efficaci ed efficienti per azzerare, o quantomeno ridurre significativamente, le conseguenze negative che questi possono avere sui risultati aziendali. 3

Negli anni le varie imprese hanno assistito ad un cambiamento continuo del contesto sociale ed ambientale che le circonda e si è passati da un background più stabile e prevedibile ad uno più instabile e dinamico. 4

Di conseguenza i rischi, tradizionalmente concepiti come statici, lineari e prevedibili, hanno assunto sempre più una natura “borderless”: non si tratta più di minacce isolate e facilmente prevedibili ma piuttosto di eventi totalmente differenti rispetto al passato, in grado di trascendere confini fisici e artificiali quali ad esempio quelli geografici e legislativi.

Questo cambiamento trova le sue origini nello sviluppo di Internet, nei nuovi modi di fare business e nella sempre più importante globalizzazione che permea i mercati. 5

Conseguentemente anche il livello di rischio sopportato dalle imprese è aumentato e proprio per questo motivo, con il passare del tempo, il processo di ERM (Enterprise Risk Management) è diventato uno strumento imprescindibile per la gestione dei rischi all’interno delle aziende.

Borghesi A. (1985), “La gestione dei rischi in azienda. Economia e organizzazione, teoria e

3

pratica”, Padova, Cedam.

Chapman R.J. (2011), “Simple Tools and Techniques for Enterprise Risk Management”,

4

Wiley Finance.

“Globalization is cited as one of the factors contributing to the materially different nature of

5

post-modern risk, which represents a conceptual point of departure from antecedent, traditional notions of risk”.

Locklear K. (2012), “Toward a theory of everything? Exploring at the edges of the ERM

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A livello accademico non esiste un unico tipo di rischio, ma se ne possono individuare due che presentano differenze significative l’uno dall’altra: i rischi economico finanziari ed i rischi puri. 6

La principale differenza tra le due possibili tipologie sta nell’evento scatenante. Un rischio puro si origina da un evento che, se nel caso in cui si verifichi, comporterebbe solamente un effetto negativo (ad esempio un ritardo nella fornitura di materie prime). Un rischio economico-finanziario, invece, è legato ad una situazione di incertezza, da cui si può generare sia una situazione positiva (upside risk) sia una negativa (downside risk). 7

Ad esempio rientrano in questa categoria i rischi relativi all’andamento dei tassi di interesse o dei tassi di cambio valutario oppure quelli relativi ai prezzi di commodities caratterizzati da un andamento aleatorio.

In particolare, facendo riferimento al tasso di interesse, nel caso un operatore stipuli un finanziamento a tasso variabile con un istituto di credito, il pagamento periodico degli interessi sarà chiaramente legato all’andamento dei tassi.

In questo modo il soggetto sarà direttamente esposto alle relative fluttuazioni e di conseguenza al pagamento di interessi passivi maggiori in caso di variazioni avverse e minori nella situazione opposta.

Il processo di gestione e neutralizzazione di questi rischi, prende il nome di l’Enterprise Risk Management e può essere esemplificato come una sequenza di 4 fasi successive l’una all’altra ma correlate tra loro.

Il primo step del processo consiste nella “Definizione degli obiettivi operativi”.

Ciò viene effettuato attraverso piani strategici e di budget coerenti sia con la mission aziendale sia con i livelli di rischio tollerabile e risk appetite. 8

Ferrari A. (a cura di) (2017), Strumenti e prodotti finanziari: bisogni d'investimento,

6

finanziamento, pagamento e gestione dei rischi, seconda edizione, Giappichelli Editore

Tarallo P. (2000), La gestione integrata dei rischi puri e speculativi, F. Angeli Milano

7

Il rischio tollerabile è la quantità di rischio limite che consente di evitare il dissesto aziendale

8

mentre il risk appetite è la quantità di rischio limite che il management aziendale decide di sopportare (dovrebbe logicamente essere inferiore al rischio tollerabile per non

compromettere la sostenibilità economica dell’impresa).

Lam J. (2014), Enterprise risk management: from incentives to controls, second edition, Wiley Finance

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Questa fase di goal setting è particolarmente significativa in quanto vengono gettate le basi per poter procedere con i passaggi successivi: senza un’accurata definizione degli obiettivi che si intende raggiungere, sia qualitativa che quantitativa, sarà infatti impossibile in un secondo momento mappare i rischi ad essi correlati.

Dopo aver definito gli obiettivi si procede con il “Risk Assessment”, vale a dire l’individuazione e alla stima de rischi.

A livello pratico nella maggior parte dei casi questa attività viene svolta attraverso una matrice “Probabilità-Impatto”. , in base alla quale per ciascun rischio viene 9

individuato uno “score” frutto del prodotto tra la probabilità che esso si manifesti e l’impatto generato. Assumendo questo ammontare come valore di riferimento innanzitutto diventa possibile classificare i rischi distinguendoli tra loro e stabilendo quali sono quelli caratterizzati da un grado di pericolo maggiore.

A tal proposito, per le imprese i rischi maggiormente pericolosi sono quelli peri quali lo “score” risulta essere particolarmente elevato, il che si verifica se le conseguenze che si generano sono gravi e se c’è un’alta probabilità di manifestarsi.

Utilizzare la matrice “Probabilità-Impatto” è utile anche perché dà la possibilità alle imprese di reagire a ciò che accade nel migliore dei modi, prendendo le contromisure più adeguate.

In particolare, confrontando lo “score” originato dal rischio analizzato con quello fissato dal management per il risk appetite, se il primo supera il secondo ne consegue la necessità di intraprendere misure di contenimento del rischio.

Per individuare il gradi di pericolosità di un rischio e quindi determinare se sussiste o meno la necessità di un intervento, in alternativa al metodo “numerico” descritto (secondo cui si procede con un semplice confronto tra i valori), è possibile utilizzare anche un metodo “grafico”: la matrice “Probabilità-Impatto” viene rappresentata graficamente, ponendo la Probabilità sull’asse delle ascisse e l’Impatto su quella delle ordinate, e vengono tracciate le soglie di indifferenza e di risk appetite.

Utilizzando questo metodo la decisione non viene presa in base al punteggio ottenuto dal rischio ma piuttosto alla sua posizione nel grafico.

Dumbravá V. (a cura di) (2013), “Using Probability – Impact Matrix in Analysis and Risk

9

(10)

Se un rischio è collocato al di sopra della soglia di tollerabilità dal management dovrà necessariamente essere mitigato; se invece si colloca al di sotto necessiterà solamente di un periodico e puntuale monitoraggio.

In sostanza, grazie all’utilizzo della matrice “Probabilità-Impatto”, indipendentemente dalla veste utilizzata, è possibile andare a differenziare tra loro i rischi in base alla pericolosità percepita dall’azienda, garantendo così una maggiore efficienza delle contromisure adottate per il trattamento di ognuno di essi.

Grafico n.1 10

Metodo Grafico

Grafico n.2 11

Metodo Numerico - Risk Rating Matrix

Personale elaborazione;

10

Cfr: Livatino M., Tagliavini P. (s.d.), I sistemi per la gestione del rischio, modelli operativi, ruoli

e responsabilità, Lab ERM - SDA Bocconi, deloitte.com

Personale elaborazione

11

Risk Rating Matrix

Likelihood

Rare Unlikely Possible Likely Almost

Certain

Impact

Catastrophic Moderate Moderate High Critical Critical

Major Low Moderate Moderate High Critical

Moderate Low Moderate Moderate Moderate High

Minor Very Low Low Moderate Moderate Moderate

Insignificant Very Low Very Low Low Low Moderate

Attenzione Monitorare Evitare / Ridurre

Insieme di rischi con combinazioni

di impatto / probabilità tali per

cui l’azienda non ritiene di dover attuare misure di controllo ulteriori Insieme di rischi con combinazioni di impatto / probabilità tali da richiedere un costante monitoraggio / gestione da parte dell’azienda Insieme di rischi con combinazioni di impatto / probabilità che superano la soglia di accettabilità (Risk Appetite) dell’azienda

(11)

La terza fase dell’Enterprise Risk Management consiste nel “Risk Treatment” ovvero l’insieme di decisioni che possono essere prese al fine di fronteggiare o meno i rischi individuati. Le possibili iniziative intraprese dalle aziende non sono tutte uguali ma differenziano a seconda delle considerazioni fatte negli step precedenti. Tra queste ci sono, ad esempio, il risk avoidance, il risk retention, il risk mitigation ed il risk

transfer. 12

-

Risk Avoidance: Questa prima possibile strategia viene intrapresa dalle aziende il

cui fine è quello di evitare completamente il rischio e quindi di eliminare alla radice l’evento che lo genera. Una strategia di questo tipo viene presa in considerazione ad esempio quando il rischio analizzato potrebbe provocare, nel caso l’evento che lo genera si verificasse, degli effetti troppo onerosi per l’impresa. Più precisamente, ciò si verifica quando il management aziendale realizza che non è possibile mitigare il rischio in maniera efficace oppure quando i costi per il suo contenimento superano i potenziali benefici. In linea con questa prima iniziativa di contenimento dei rischi potrebbe capitare che un’impresa decida di non accettare una commessa oppure di disfarsi di unità operative o linee produttive pur di non doversi confrontare in seguito con dei rischi potenzialmente incontrollabili.

-

Risk Retention: Quando il livello di rischio di un’azienda si posiziona al di sotto del risk appetite solitamente si decide di non intraprendere azioni di contenimento a

riguardo. Questa eventualità si verifica quando si ritiene molto probabile che gli eventi si possano compensare naturalmente neutralizzando così il rischio oppure quando l’incidenza economico-finanziaria di questi rischi è trascurabile, tanto da permettere al management di adottare una strategia passiva.

-

Risk Mitigation e Risk Transfer: Quando ci si trova nella situazione in cui il livello di

rischio aziendale è superiore rispetto al Risk Appetite per l’azienda nasce la necessità di adottare misure di contenimento. Essa quindi pone in essere delle iniziative per mitigare oppure trasferire i rischi facendoli rientrare nella soglia di accettabilità. Nel caso particolare in cui il rischio risulti essere troppo elevato rispetto alle aspettative societarie, allora avviene la valutazione di tutta una serie di

Crouhy M. (a cura di) (2006), The essentials of risk management, McGraw-Hill

(12)

strumenti finanziari che possono rivelarsi utili per abbassarne la rischiosità. (Per

quanto riguarda questi strumenti finanziari si rimanda al prossimo paragrafo, in cui se ne tratterà in maniera dettagliata)

La quarta e ultima fase è rappresentata dal “Risk Monitoring”.

In questo step viene effettuata una revisione dei risultati ottenuti in seguito alle decisioni prese nelle fasi precedenti. Affinchè queste valutazioni possano essere utili, esse devono necessariamente essere caratterizzate da continuità e periodicità, in quanto, essendo i rischi mutevoli nel tempo, lo devono essere anche i sistemi di gestione e monitoraggio che li hanno ad oggetto, altrimenti si incorrerebbe in situazioni di inefficienza ed inefficacia.

Infatti, solamente il continuo monitoraggio da parte degli organi societari preposti può garantire che i rischi non vengano né sottovalutati né sovrastimati in base a precedenti valutazioni e che si possa reagire in modo tempestivo al loro mutamento, evitando situazioni di tensione e quindi di pericolo per il benessere aziendale.

Se al contrario il management dovesse vedere il sistema di ERM come un processo statico, si creerebbero situazioni di sfasamento temporale e verrebbero poste in essere contromisure valide nel passato ma non altrettanto nel presente.

Dovendo rispondere a sempre maggiori situazioni di incertezza, l’ERM, si è trovato, come già accennato in precedenza, a dover rivestire un ruolo fondamentale all’interno delle imprese e questo lo ha portato necessariamente ad avere una diretta incidenza su un gran numero di aspetti, tra cui anche la modifica degli assetti societari per poter fronteggiare in maniera migliore le situazioni di difficoltà.

È proprio in questo background che il tradizionale “controllo interno” con funzionalità meramente tecnico/contabili si è trasformato in una sua più moderna accezione, l’ Enterprise Risk Management. Quest’ultimo consiste in un processo aziendale integrato in grado di salvaguardare la continuità societaria e portare valore a tutti gli

stakeholders. 13

Recenti episodi di dissesto di grandi imprese quotate sono stati da più fronti attribuiti a specifiche mancanze o inefficienze di forme di controllo ed a ciò ha fatto seguito

Segal S. (2011), Corporate value of Enterprise Risk Management : the next step in business

13

(13)

l’adozione di una serie di disposizioni in materia di corporate governance con significativi riflessi proprio nella delineazione della fisionomia dei controlli interni nelle società quotate. 14

A tal proposito, a partire dal 1999 con la stesura del “Codice Preda”, l’Italia si è dotata del suo primo codice di autodisciplina di corporate governance. Si tratta di un documento formale che ha lo scopo di raccogliere ed illustrare le regole di best

practice in merito appunto alla gestione aziendale.

Il codice è stato redatto da un comitato costituito su iniziativa di Borsa Italiana e del suo presidente, da cui è mutuato il nome, che ne è stato il coordinatore durante la fase di redazione.

Nonostante le continue modifiche ricevute durante il corso degli anni, il codice ha mantenuto nel tempo le sue caratteristiche fondamentali, con lo scopo di rassicurare possibili investitori internazionali riguardo l’adozione da parte delle società quotate italiane di un sistema di governance all’altezza di quello di paesi finanziariamente più evoluti.

Grazie a questo documento, anche in Italia si è dunque giunti alla strutturazione del plenum consiliare in comitati interni di carattere tecnico-specifico composti da amministratori non esecutivi e per lo più indipendenti.

Più in particolare, il codice di autodisciplina, suggerisce l’istituzione di tre comitati differenti specificandone composizione, caratteristiche e competenze: il comitato per le nomine (art. 5), il comitato per la remunerazione (art. 6) ed infine un comitato controllo e rischi (art. 7).

Proprio quest’ultimo, realizzando un’attività di supporto al consiglio di amministrazione in merito alle questioni di risk management, oltre ad occuparsi della valutazione del corretto utilizzo dei principi contabili nel bilancio d’esercizio, esprime pareri sull’identificazione dei principali rischi aziendali, vigila sull’operato della funzione di internal audit e riferisce periodicamente al consiglio sull’attività svolta. Pur non essendo obbligatoria l’adozione di questo codice di Autodisciplina da parte delle società quotate italiane, la sua implementazione ha portato in primo luogo ad

Gaparri G. (2013), I controlli interni nelle società quotate, Gli assetti della disciplina italiana

14

(14)

una maggiore efficienza nella gestione aziendale ed in secondo luogo alla conquista di una posizione competitiva privilegiata rispetto ai competitors.

Come accade per l’adozione volontaria delle norme tecniche emanate dalla ISO (International Organization for Standardization) , anche per quanto riguarda il codice 15

di Autodisciplina è possibile sfruttare questo corpus normativo come certificato d’eccellenza nei confronti della totalità degli stakeholders.

Secondo questa visione strategica dunque il documento si trova a ricoprire sia una funzione di garanzia nei confronti di tutti quei finanziatori, investitori, clienti e fornitori con cui quotidianamente le imprese si relazionano, sia un funzione di distinzione rispetto alle realtà che decidono di non applicarlo.

I.II - I RISCHI AZIENDALI E LA LORO NEUTRALIZZAZIONE

Come è già stato visto in precedenza, ogni realtà aziendale è interessata dalla presenza di rischi, che possono avere natura differente (rischi puri o rischi economico finanziari) e un grado di pericolo più o meno elevato, che la gestione aziendale sottopone regolarmente a valutazioni e analisi per individuare la strategia di neutralizzazione più adatta a seconda del proprio grado di risk appetite aziendale. Relativamente alla neutralizzazione dei rischi aziendali, si possono individuare due specifiche tipologie a cui le imprese scelgono di dare copertura attraverso l’utilizzo di strumenti finanziari: i rischi finanziari ed i rischi di credito.

I primi, suddivisibili in rischi di tasso, di cambio, di prezzo e sistematico, sono rischi connessi alle potenziali variazioni delle attività sottostanti mentre i secondi riguardano la solvibilità di una determinata controparte.

ad esempio ISO 9000 per la gestione della qualità aziendale.

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I.II.I. - Rischio di tasso

Questo particolare rischio è collegato alla possibile fluttuazione dei tassi di interesse e quindi all’incidenza che questi possono avere sul valore di determinate attività e passività possedute dall’impresa.

Una variazione avversa dei tassi di interesse può causare all’operatore sia perdite in conto capitale, riguardanti il valore delle attività e passività sottostanti, sia in conto interessi, in merito ai flussi di interessi generati da quelle poste.

Il rischio di tasso è sicuramente la tipologia più diffusa nelle realtà imprenditoriali. Ciò è dovuto al fatto che le aziende nel corso della loro attività devono necessariamente ricorrere a fonti di finanziamento esterne, in quanto il capitale versato dai soci non risulta essere sufficiente a coprire tutti gli impieghi aziendali.

Un aumento degli oneri finanziari legati alle passività detenute (ad esempio mutui e leasing), a causa delle variazioni in rialzo dei tassi di interesse a cui sono soggette, può minare la marginalità e sottrarre risorse utili a possibili investimenti. Pertanto, maggiore sarà il ricorso all’indebitamento di una determinata società, conseguentemente maggiore sarà la probabilità che questa valuti il ricorso a strumenti finanziari in grado di proteggerla da fluttuazioni negative indesiderate.

I.II.II. - Rischio di cambio

Questa particolare fattispecie riguarda la possibile variazione di valore di un’attività o di una passività a causa della sua natura valutaria.

Più precisamente può essere definito come la “possibilità per un operatore in valuta estera, di incassare o di pagare, a fronte di una transazione, un ammontare in euro diverso da quello pianificato al momento della decisione di operare”. 16

Come per il rischio di tasso di interesse, anche questa tipologia non colpisce in egual modo le imprese ma avrà un impatto direttamente proporzionale al volume d’affari generato in valuta estera.

Bertinetti G. (2006), “Finanza aziendale internazionale, verso un approccio manageriale per

16

(16)

Una variazione anche moderata ma rapportata ad un volume ingente può determinare un rischio elevato per l’operatore ed il case study di Lufthansa ne è un 17 perfetto esempio.

Nel Gennaio del 1985 infatti, la compagnia aerea tedesca si trovò di fronte ad una decisione chiave per il proprio futuro.

La società, sotto la direzione del suo CEO, Herr Heinz Ruhnau, decise di aumentare la propria flotta aerea andando ad acquistare un totale di venti Boeing 737 (U.S.). Il prezzo totale pattuito fu di 500 milioni di dollari cioè di 25 milioni di dollari per ogni singolo velivolo acquistato da dover pagare a Boeing nel corso del mese di gennaio dell’anno successivo.

Al momento dell’acquisto, il cambio marco tedesco-dollaro americano si attestava intorno a 3.2DM/$, il che, se fosse rimasto inalterato, ipotesi del tutto irrealistica, avrebbe comportato un esborso futuro di 1.6 miliardi di marchi tedeschi.

A causa del valore ingente dell’investimento effettuato e del differimento del pagamento al momento della consegna degli aeromobili, si resero indispensabili processi di analisi, valutazione e controllo dei rischi tipici della funzione di Risk Management.

Nel decidere con quali modalità effettuare l’acquisto, Ruhnau poteva dare per assodato/certo il fatto che dal 1980 il dollaro americano stava subendo un incremento costante, ma non aveva alcuna certezza relativamente al suo corso futuro. Egli era fermamente convinto che con il passare del tempo la valuta statunitense si sarebbe notevolmente deprezzata, ma essendo questa solamente una sua supposizione, decise di coprire metà dell’esborso finanziario tramite strumenti derivati.

La scelta effettuata, pur non potendo risultare efficiente dal punto di vista finanziario a causa della sua natura “parziale” di copertura dell’esposizione, fu il risultato di un processo corretto e razionale effettuato dal manager (nonostante l’effettivo calo del dollaro verificatosi durante il corso del 1985) in quanto una variazione in aumento dei

Moffett M. (1999), “Lufthansa”, case study, Harvard Business Publishing Education.

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tassi di cambio, legata ad un’esposizione così ingente, avrebbe potuto essere fatale per la società tedesca.

Il rischio di cambio è la fattispecie su cui si focalizzerà l’intera analisi del campione di aziende che verrà presentata nel capitolo successivo.

I.II.III - Rischio di prezzo

E’ denominato rischio di prezzo, il rischio riguardante la fluttuazione del valore (prezzo) di un’attività sottostante come può essere ad esempio un titolo di capitale o una materia prima.

In particolare, le imprese manifatturiere che, per eseguire le proprie produzioni devono continuamente approvvigionarsi di specifiche materie prime, subiscono un impatto diretto sia se la variazione di presso è positiva, sia se risulta essere negativa. Un aumento dei costi delle materie prime da acquisire, se non prontamente “ricaricato” sui prezzi praticati ai consumatori finali, può portare infatti ad un peggioramento della redditività aziendale.

Sono altrettanto esposte a queste variazioni di valore, ma nel verso opposto, tutte quelle realtà che basano il proprio core business aziendale sulla produzione o raccolta delle materie prime e sulla loro rivendita in un secondo momento.

I.II.IV - Rischio sistematico

Questa tipologia di rischio riguarda il generale andamento aleatorio che caratterizza i mercati dei titoli di capitale.

Esso risulta quindi legato a variabili macroeconomiche e/o finanziarie quali l’inflazione, l’andamento dei tassi di interesse di mercato e l’andamento del PIL non controllabili dall’impresa. 18

Floreani Alberto (2005), “Introduzione al risk management. un approccio integrato alla

18

(18)

A differenza del rischio “specifico”, che è relativo alla volatilità di un singolo titolo presente sul mercato, questo rischio sistematico non può essere immunizzato tramite il riscorso alla diversificazione del portafoglio .19

I.II.V. - Rischio di credito

È chiamato rischio di credito quel rischio che attiene alla solvibilità di una determinata controparte e si presenta ogni qualvolta un soggetto non riesca a far fronte alle obbligazioni a suo carico e quindi richieda un prestito ottenendo di conseguenza un anticipo di denaro.

Più sarà elevato questo rischio, ovvero più sarà elevata la probabilità che l’operatore non sia in grado di sopperire ai propri obblighi, e maggiore sarà sia il tasso di interesse applicatogli dall’altro contraente sia la sua propensione all’utilizzo di strumenti finanziari di copertura.

Il rischio di credito viene influenzato da fattori “specifici” e quindi legati alla situazione economico-finanziaria della controparte finanziata ma anche da fattori generali legati al mercato ovvero al ciclo economico .20

Analizzando in particolare il rapporto che incorre tra questa tipologia di rischio e il ciclo economico, si può affermare che sussiste un andamento inversamente proporzionale, in quanto il rischio di credito tende a diminuire in periodi storici

La diversificazione è il processo attraverso cui un investitore può ridurre il rischio totale del

19

proprio portafoglio, investendo in azioni e/o obbligazioni diverse tra loro, al fine di sfruttare l’andamento non perfettamente concorde dei prezzi.

Brealey R., Myers S., Allen F., Sandri S., (2014), Principi di finanza aziendale, pp. 201, McGraw Hill

«I cicli economici sono delle particolari fluttuazioni tipiche dell’attività economica aggregata

20

delle nazioni che organizzano il loro lavoro principalmente attraverso l’imprenditoria: un ciclo consiste nelle espansioni che avvengono nello stesso momento in molte attività economiche, seguite da speculari recessioni, contrazioni, e ripristini che si mescolano nella fase espansiva del successivo ciclo; questa sequenza di cambiamenti è ricorrente ma non periodica; in durata i cicli economici variano da più di un anno a dieci o dodici anni; non sono divisibili in cicli più corti con forma simile.»

(19)

caratterizzati da espansione economica e ad aumentare invece in periodi di recessione.

Per ciascun tipo di rischio sopra citato, negli ultimi anni sono stati progettati strumenti finanziari ad hoc che, se utilizzati correttamente, riescono a neutralizzare gli effetti negativi che potenzialmente possono scaturire; questi strumenti finanziari sono denominati strumenti finanziari “derivati”.

I.III - I DERIVATI

I derivati sono una particolare fattispecie contrattuale, che si caratterizza per il fatto che sono privi di un valore intrinseco ma “derivano” (da questo prendono il loro nome) dall’andamento di una attività sottostante definita come “underlying asset”. 21

Questa attività può avere diverse nature, sia finanziarie (un indice, un prezzo di un titolo, un tasso di interesse o di cambio) sia reale (il valore di una “commodity” come il petrolio, il rame, il ferro e via dicendo).

Partendo dal presupposto che i derivati sono veri e propri contratti, essi possono distinguersi tra loro per una gran varietà di caratteristiche ma generalmente vengono suddivisi in due macro categorie: i derivati forward based e i derivati option based. I primi vengono anche definiti come “derivati simmetrici” in quanto, dal momento in cui ha luogo la stipula del contratto, obbligano simmetricamente i due contraenti ad effettuare una determinata prestazione alla data di scadenza.

I secondi invece sono caratterizzati da asimmetria in quanto da un lato l’acquirente del contratto derivato, pagando un certo premio, si garantisce la possibilità di effettuare o meno la compravendita dell’attività sottostante, mentre dall’altro lato il venditore è obbligato a soddisfare la volontà della controparte.

Pertanto la dicitura di “simmetrici o asimmetrici” viene utilizzata per fare riferimento alla natura delle obbligazioni che sorgono dal contratto, le quali possono essere caratterizzate da parità o disparità; nei derivati simmetrici c’è parità di obbligazioni in

Glossario Finanziario - Derivati, borsaitaliana.it

(20)

quanto entrambe le parti del contratto sono vincolate mentre in quelli asimmetrici, poiché il vincolo ricade solamente su uno dei due contraenti, c’è disparità di obbligazioni.

Prendendo in considerazione nel dettaglio la categoria dei derivati simmetrici, al suo interno si possono individuare alcune sottocategorie, come i futures, i forward e gli

swap. Analizzando invece i derivati asimmetrici, essi sono principalmente

rappresentati dalle opzioni.

La decisione imprenditoriale di stipulare questi strumenti finanziari può essere presa al fine di raggiungere tre diversi obiettivi.

1. La prima e più importante motivazione che spinge un’impresa a stipulare un contratto di derivati è l’intento di Copertura (Hedging). Esso, infatti, viene redatto in quanto, assumendo una posizione uguale e contraria a quella dell’underlying asset, permette di neutralizzare il rischio intrinseco. In particolare, l’operatore va a coprire i guadagni o le perdite generati dall’attività sottostante rispettivamente mediante i guadagni o le perdite sul derivato, riuscendo pertanto a costruire un gioco a somma zero in grado di eliminare il rischio intrinseco posseduto dal’asset sottostante.

Ad esempio, qualora un imprenditore non voglia che il bene da lui venduto si deprezzi, potrà ricorrere alla vendita a termine tramite contratti forward o future.

In questo modo, nel caso in cui il valore del bene oggetto della vendita diminuisca nel tempo causando una perdita, la stessa potrà essere coperta mediante i guadagni derivanti dal contratto; se invece il valore del bene dovesse subire un incremento, questo andrebbe a compensare la perdita sul derivato.

Gli operatori che utilizzano i derivati con la finalità di copertura del rischio vengono definiti “hedgers”.

2. La seconda possibile finalità è costituita dalla Speculazione. In questo caso la volontà degli operatori non è quella di mitigare o eliminare i rischi ma bensì quella di generare un profitto dalla compravendita di questi strumenti basandosi su aspettative relativamente all’attività sottostante.

(21)

A differenza dell’esempio visto precedentemente (in cui per neutralizzare il rischio di un decremento di valore, un’opzione può essere la stipula di contratti forward o

future) se un soggetto, agisce in qualità di trader, e quindi non ha l’obiettivo di coprire

la perdita del valore ipotizzata, ma bensì quello di trarne un certo profitto, egli potrà decidere di effettuare una vendita allo scoperto del bene .22

3. Il terzo e ultimo obiettivo è costituito dall’Arbitraggio. Questa strategia si basa sullo sfruttamento da parte dell’operatore di possibili asimmetrie tra prezzi a pronti e prezzi a termine. In questo caso si riesce a generare un profitto privo di rischio dall’acquisto (o vendita) del derivato e dalla simultanea vendita (o acquisto) del sottostante oppure dalla compravendita di attività su mercati diversi. 23

Qualsiasi tipologia di derivato può essere utilizzata per tutte e tre le finalità sopraesposte, anche se ognuna di esse è dotata di caratteristiche peculiari uniche, che possono far si che un operatore sia orientato a preferire una o l’altra a seconda della situazione in cui si trova.

Con vendita allo scoperto si configura una determinata strategia speculativa che consiste

22

nel vendere al tempo 0 un determinato strumento finanziario o bene (ad esempio il petrolio) senza però prima possederlo fisicamente per poi andare a riacquistare lo stesso solo in un secondo momento ovvero in vista della restituzione del sottostante al prestatore iniziale. Questa particolare strategia viene posta in essere da operatori che, caratterizzati da previsioni ribassiste in merito al valore di un bene, decidono di trarne un profitto. La vendita allo scoperto ribalta le normali logiche di mercato, secondo le quali prima si ottiene la proprietà di un bene tramite l’acquisto e poi si procede alla sua futura rivendita ad un prezzo maggiore.

op.cit. Rigo S. (2019), n.247-2019

(22)

I.IV - LE TIPOLOGIE DI DERIVATI

I.IV.I - Future e Forward

Le prime due tipologie di derivati sono i contratti future e i contratto forward. Essi, per avendo caratteristiche particolari, che li distinguono uno dall’altro, sono accomunati dal fatto che entrambi rientrano nella categoria “contratti a termine”, cioè accordi in cui viene esplicitato che una determinata attività verrà scambiata ad una data futura applicando però un prezzo concordato al momento della stipula (delivery price). Tra le due tipologie contrattuali sussiste un’unica e importante differenza: i contratti forward sono contratti OTC ovvero scambiati in mercati Over The Counter mentre i contratti future sono contratti negoziati in mercati regolamentati e, di conseguenza, oltre ad essere sottoposti al controllo della Clearing House ,che assicura la solvibilità 24

delle parti, possiedono caratteristiche standardizzate.

Analizzando questi derivati dal punto di vista strategico, si può affermare che, dal momento in cui ha luogo la stipula del contratto, si generano due posizioni contrapposte, che vengono assunte dai due operatori coinvolti, cioè il venditore del derivato e il suo acquirente.

Più specificatamente, l’acquirente assume una posizione lunga (long position), in quanto acquistando il derivato si impegna di fatto ad acquistare a scadenza una determinata quantità di sottostante al prezzo fissato. Egli perciò conseguirà un guadagno nel momento in cui, a scadenza, il prezzo di mercato del sottostante (prezzo spot) sia superiore al delivery price.

Si può affermare che l’operatore sta guadagnando solamente se tale differenza risulta essere positiva (spot price > delivery price), cioè solamente se l’acquirente acquisterà un’attività pagando un prezzo inferiore al suo valore reale.

Partendo dal presupposto che queste tipologie contrattuali presentano una struttura simmetrica, specularmente rispetto all’acquirente, il venditore assume una posizione

Le Casse di Compensazione (Clearing House) sono organismi che agiscono come

24

mediatori delle transazioni e che assicurano la solvibilità delle parti coinvolte e l’integrità del mercato. In Italia è istituita la Cassa di Compensazione e Garanzia (CCG).

(23)

corta (short position), in quanto si impegna a vendere a scadenza la quantità pattuita di sottostante ad un determinato prezzo.

Come per l’acquirente, anche per quanto riguarda il venditore, per valutare il conseguimento o meno di un profitto, bisognerà prendere in considerazione la differenza tra spot price e delivery price. In questo caso, però, a differenza di quanto visto sopra, si può affermare che sussiste un guadagno solamente se il valore è negativo, cioè se il prezzo di mercato risulti inferiore al prezzo pattuito nel contratto. Qualora si verifichi questa eventualità, il venditore otterrà un profitto maggiore vendendo tramite il derivato piuttosto che ricorrere alla tradizionale vendita attraverso il mercato.

Grafico n.3 25

Buy Forward vs Sell Forward

Personale elaborazione

(24)

I.IV.II - Gli Swap

Gli Swap sono un’altra tipologia di derivato e, come il nome lascia trasparire, si basano sullo scambio di un determinato flusso finanziario tra due operatori.

Più precisamente, una volta stipulato il contratto, le due controparti si impegnano a scambiarsi periodicamente delle somme di denaro fino alla data di scadenza dello stesso.

Confrontando questa tipologia di derivato e le due già analizzate in precedenza, si può notare che la principale differenza è rappresentata dal fatto che i contratti

forward e future si riferiscono ad un solo flusso di denaro (a scadenza), mentre gli

swap ad un insieme di flussi periodici.

Gli swap costituiscono una macrocategoria all’interno della quale ci sono una serie di sottogruppi, denominati in modo diverso, che si differenziano gli uni dagli altri a seconda della modalità con cui viene effettuato il calcolo dei flussi di denaro oggetto di scambio (o meglio della loro differenza).

Le tipologie utilizzate più frequentemente sono quella degli Interest Rate Swap (IRS) e quella dei Currency Swap (CS), ma ne esistono anche altre che, benché siano meno comuni, sono comunque rilevanti, come ad esempio i Commodity Swap e gli Equity

Swap.

• IRS (Swap su tassi di interesse)

Quando viene stipulato un Interest Rate Swap accade che le due controparti contrattuali si accordano per scambiarsi, in date future prefissate e fino ad una determinata scadenza, flussi di denaro specifici, che vengono calcolati applicando ad una somma prestabilita di denaro (“capitale nozionale”) due tassi differenti, uno fisso e l’altro variabile. E’ importante tener presente che questo capitale non ha altro scopo se non quello di permettere il calcolo dei flussi reciproci che dovranno essere scambiati; non viene quindi in alcun modo impegnato o versato da parte dei due contraenti. 26

Lo Swap: Che cos’è e a cosa serve, borsaitaliana.it

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In sostanza, in caso di IRS, periodicamente un soggetto (A) riceverà un flusso di denaro frutto del prodotto tra il capitale nozionale e un tasso di interesse fisso e al tempo stesso pagherà una certa somma, ottenuta applicando allo stesso capitale un tasso variabile (solitamente un tasso LIBOR o EURIBOR aumentato di uno spread). Simmetricamente, la sua controparte (B) pagherà un importo frutto del prodotto tra il nozionale e il tasso fisso e riceverà quello calcolato applicando il tasso variabile. Così facendo, quando il tasso fisso sarà superiore al tasso variabile, il soggetto A conseguirà un profitto frutto dalla differenza tra i due flussi risultanti; viceversa quando sarà il tasso variabile a superare quello fisso, allora sarà il soggetto B ad ottenere un guadagno.

• CS (Swap su valute)

Il Currency Swap è un contratto derivato molto simile all’IRS, che però, a differenza di quest’ultimo, prevede una componente aleatoria aggiuntiva: le valute.

Quando viene stipulata questa tipologia contrattuale i contraenti si impegnano nello scambio di flussi di denaro, che, diversamente a quanto previsto negli IRS, sono calcolati applicando due tassi di interesse (uno fisso e l’altro variabile) a due diversi capitali espressi in valute differenti.

Si rientra nel caso di un contratto CS anche quando non ci si limita ad applicare ai due nozioni un tasso fisso e uno variabile, ma vengono utilizzati due tassi fissi o due variabili .

In linea con quanto accade in caso degli IRS, in cui ii due contraenti conseguono un guadagno o meno a seconda dell’andamento e del valore dei due tassi di interesse, qualora venga redatto un CS il potenziale guadagno delle due controparti dipende dall’andamento dei due corsi valutari.

(26)

I.IV.III - Le Opzioni

Le opzioni sono degli strumenti finanziari derivati che, come si evince dalla loro denominazione, forniscono l’opzione e quindi il diritto all’acquirente di acquisto (Call

optionl) o di vendita (Put option) di una determinata quantità di sottostante ad una

data futura e ad un prezzo prefissato, denominato prezzo di esercizio (strike price). L’ottenimento di questo diritto avviene solamente inseguito al pagamento di un prezzo denominato premio dell’opzione.

In questo contesto l’operatore può decidere quale posizione assumere sui derivati , e più precisamente o una posizione lunga (long position) oppure corta (short position). Nel primo caso il soggetto acquisterà sul mercato un’opzione call o put, garantendosi così il diritto di acquistare o vendere a termine.

Viceversa, se assumerà una posizione corta, l’operatore venderà l’opzione incassandone il premio, ma in tal caso avrà lo svantaggio di dover sottostare al volere dell’acquirente, che alla scadenza avrà la facoltà di decidere se esercitare o meno l’opzione a seconda dell’andamento di mercato del sottostante.

E’ importante tener presente questa peculiarità, in quanto ne deriva il motivo per cui una posizione corta su derivati sia più rischiosa della medesima operazione ma in posizione lunga. Ciò è dato dal fatto che la potenziale perdita generata non si limiterà alla perdita del premio pagato inizialmente ma potrà essere molto più consistente. Un’ulteriore suddivisione delle opzioni può essere effettuata in base al momento in cui l’operatore decide di esercitare il diritto di cui gode.

A tal proposito si possono distinguere le opzioni “europee” e quelle “americane”, che hanno le stesse caratteristiche contrattuali e differiscono solamente per la data di esercizio. Nel dettaglio, le opzioni che possono essere esercitate solamente nel momento della loro scadenza sono definite “europee”, mentre quelle per cui è permesso l’esercizio in ogni momento entro la data di scadenza vengono chiamate “americane”.

La differenza temporale tra le due varianti è un aspetto rilevante da tenere in considerazione, in quanto fa si che le opzioni americane abbiano una maggiore

(27)

possibilità di successo rispetto alle altre, in virtù del rispetto dell’esercizio effettivo del derivato. Un’opzione americana infatti avrà più tempo per assumere un corso favorevole per il suo acquirente rispetto alla sua equivalente europea, che invece potrà risultare tale solamente in un preciso istante futuro ovvero alla data di scadenza.

Questa differenza tra le due opzioni viene riflessa sui prezzi, in quanto quello delle opzioni americane non sarà mai inferiore rispetto a quello dell’analoga variante europea ma anzi, quasi sempre sarà superiore.

• Opzione Call

Un’opzione definita “Call” è un contratto finanziario derivato che permette al suo acquirente la possibilità di acquistare a scadenza una determinata quantità di sottostante ad un prezzo precedentemente pattuito.

Il motivo che spinge un operatore a scegliere di stipulare questa particolare tipologia contrattuale è la visione rialzista da lui posseduta e le sue aspettative sono che, con il passare del tempo il sottostante in questione aumenti il suo valore.

Dopodiché, una volta acquistata effettivamente questa opzione, il suo interesse nel perfezionare il contratto si genererà solo nel caso in cui il prezzo del sottostante sia aumentato a tal punto da superare lo strike price.

Qualora si verifichi questa eventualità, l’operatore otterrà un guadagno che si ottiene calcolando la differenza tra “spot price” e “strike price” e successivamente sottraendo al valore ottenuto il premio dell’opzione.

Profitto = (Spot Price - Strike Price) - Premio dell’opzione

Se viceversa le aspettative dell’operatore non si realizzeranno, e cioè lo strike price sarà superiore al prezzo di mercato, allora egli sceglierà di non portare a conclusione il contratto e accetterà un perdita pari al premio dell’operazione pagato.

(28)

In questo caso, infatti, acquistare il sottostante direttamente sul mercato senza servirsi del derivato risulterà l’opzione più conveniente.

Perdita = Premio dell’opzione

• Opzione Put

Un’opzione “put” è un contratto finanziario derivato secondo cui all’acquirente è data la possibilità al suo acquirente di vendere a scadenza una determinata quantità di sottostante ad un prezzo prestabilito.

A differenza di quanto detto sopra relativamente alle opzioni “call”, l’intento dell’operatore di acquistare un’opzione “put” nasce da un’aspettativa ribassista sul sottostante; egli, di conseguenza, è spinto dalla volontà di coprirsi dal rischio della perdita di valore del proprio asset.

L’acquirente del contratto conseguirà un guadagno solamente nel caso in cui il prezzo di mercato (spot price) sarà inferiore al prezzo di esercizio (strike price) e pertanto gli permetterà di vendere ad un prezzo maggiore il sottostante proprio in funzione del contratto derivato stipulato.

Il profitto si ottiene andando a sottrarre dalla differenza tra i due prezzi il premio dell’opzione.

Profitto = (Strike Price - Spot Price) - Premio dell’opzione

Viceversa, qualora a scadenza, tra i due importi sia maggiore il prezzo di mercato del sottostante, allora l’acquirente conseguirà una perdita certa pari al premio dell’opzione pagato.

(29)

A seconda del tipo di opzione acquistata e del corso del sottostante nel tempo, si possono verificare una serie di situazioni diverse, che comportano profitti e perdite per le controparti interessate.

- Un’opzione viene definita “At the money” (ATM) quando il cash flow generato è nullo e quindi quando il prezzo di esercizio è pari al prezzo di mercato del sottostante. In questo caso per il suo possessore sarà assolutamente indifferente tra l’esercitare l’opzione e il non farlo, perché entrambe le alternative gli restituiscono in quel momento il medesimo effetto finanziario.

- Se il prezzo di esercizio è inferiore (call) o superiore (put) rispetto al valore corrente dell’attività sottostante, allora l’opzione verrà definita “In the money” (ITM). In questo caso, l’operatore acquirente avrà una convenienza nel portare a compimento il contratto stipulato perché gli garantisce delle condizioni economiche più favorevoli rispetto a quelle che troverebbe sul mercato.

- Nel caso specularmente opposto al precedente, se il prezzo di esercizio è superiore (call) o inferiore (put) rispetto al valore di mercato del sottostante allora l’opzione sarà denominata “Out of the money” (OTM). In questo caso, l’acquirente dell’opzione non avrà interesse nel perfezionamento del contratto perché le condizioni economiche ivi presenti si rilevano per lui più svantaggiose rispetto a quelle garantite nel mercato. Per esempio si consideri un’opzione put molto semplice con strike price a 14 €.

Se il valore del sottostante sarà esattamente uguale a 14€ allora l’opzione sarà considerata “At the money”.

Qualora il prezzo di mercato scendesse sotto i 14€, l’opzione verrà considerata “In the money” e quindi l’operatore, portando a termine il contratto, conseguirà un guadagno dopo aver ricoperto il costo del premio pagato.

Se, al contrario, il prezzo corrente del sottostante salirà sopra i 14€, l’opzione sarà considerata “Out of the money” e quindi l’operatore riterrà più vantaggioso non la esercitarla.

(30)

Grafico n.4 27

Grafico Esempio Opzione Put

Personale elaborazione;

27

(31)

I.V - LE ORIGINI DEI DERIVATI

Gli strumenti finanziari derivati, oggi oramai conosciuti e largamente utilizzati da un gran numero di operatori, secondo alcuni studiosi potrebbero avere avuto origine nel periodo tardo-medioevale.

Seppur in forma rudimentale infatti, già all’epoca venivano stipulate forme di acquisto e vendita a termine di derrate alimentari con lo scopo di copertura contro l’eccessivo rialzo o ribasso del prezzo delle merci in seguito a fenomeni meteorologici non controllabili dall’uomo. 28

Più tardi, durante il XVI secolo, l’utilizzo dei derivati diventò sempre più importante, tanto che questi strumenti, benché sempre in forme embrionali rispetto ad ora, giocarono un ruolo fondamentale nella cosiddetta “Bolla dei tulipani” scoppiata in Olanda nel 1637.

La stessa è considerata la prima grande crisi finanziaria innescata e aggravata successivamente dallo smodato utilizzo di strumenti finanziari con finalità speculative. 29

In quel periodo i bulbi di tulipano iniziarono ad essere esportati dalla Turchia verso l’Europa e l’Olanda si fece promotrice della loro diffusione sul mercato.

In breve tempo l’interesse verso questo fiore aumentò in maniera sconsiderata, comportando un incremento significativo della domanda, ma al tempo stesso le sue varianti più rare vennero considerate dai ricchi mercanti e borghesi veri e propri beni di lusso tanto da generare un continuo rialzo del loro prezzo.

Presto si innescò un disallineamento tra la crescente domanda di tulipani e la sua offerta, in quanto a causa della lentezza del ciclo riproduttivo, la produzione non era in grado di coprire l’intera richiesta da parte del mercato.

Nell’immaginario collettivo acquistare bulbi di tulipano iniziò ad essere considerato iniziarono un vero e proprio investimento e, grazie all’espansione economica

cfr. Girino E. (2010), “I contratti derivati”, Giuffrè Editore, 2^ edizione, Milano, p. 31-32.

28

Le crisi finanziarie, La bolla dei tulipani. consob.it

(32)

caratterizzante i primi decenni del ‘600, molti soggetti diversi da intenditori e professionisti si fecero trascinare in questo acquisto sistematico.

L’interesse verso i tulipani diventò sempre più forte, tanto da generare un vero e proprio effetto psicosi. Spinti dalla volontà di generare profitti, un sempre maggior numero di operatori cominciò addirittura a sviluppare la consuetudine di “prenotare”, presso i coltivatori, i bulbi ancora piantati mediante la stipula di contratti con prezzi fissati ex-ante. Questi contratti, che oggi possono essere visti come una forma semplificata di futures sui tulipani, portarono proprio allo scoppio della bolla con conseguenti tragici effetti sull’economia.

La situazione si aggravò ulteriormente nel momento in cui si passò a trattare gli stessi contratti a termine come se fossero oggetto di negoziazione.

In questo modo vennero a crearsi lunghe catene di obbligazioni tra tutti gli operatori coinvolti, con il rischio che l’inadempienza di uno di loro potesse provocare un effetto domino su tutti gli altri.

Ad aggravare la situazione fu anche la mancanza di adeguati controlli sulle transazioni da parte dei collegi di commercianti locali che non diedero importanza ne’ alla capacità degli acquirenti di onorare il proprio impegno finanziario ne’ a quella dei coltivatori di possedere tutti i bulbi che si erano impegnati a cedere a scadenza. Così facendo si innescò una macchina incontrollabile e totalmente slegata dalla realtà e fu sufficiente una semplice asta di tulipani ad Haarlem andata deserta a provocare 30

una situazione di panic selling .31

I prezzi dei tulipani, che avevano raggiunto singolarmente il valore dello stipendio di un anno e mezzo di un muratore olandese, iniziarono a crollare senza sosta e chi si era impegnato ad acquistare tramite contratti future i bulbi presso i coltivatori tramite

Capoluogo della provincia dell’Olanda Settentrionale.

30

Massiccia vendita, su larga scala, di strumenti finanziari che causa rapidi ed estesi crolli di

31

valore. Durante il panic selling gli investitori hanno come unico obiettivo quello di disfarsi delle posizioni possedute in quanto spinti non dalla comprensione di ciò che sta realmente accadendo ma bensì dalla paura di generare perdite ingenti. Questo fenomeno può portare ad un effetto spirale in cui gli investitori vedono il prezzo in continua diminuzione come un segnale di uscita dall’investimento e ciò porta altri investitori a comportarsi come loro abbassando ulteriormente il prezzo.

(33)

contratti future si trovò vincolato al pagamento di cifre folli per un bene che ormai non valeva più nulla.

Nonostante gli sforzi degli operatori, la dinamica tra domanda e offerta invertì completamente il suo corso rispetto a pochi mesi prima e la domanda non riuscì a sostenere la forte e generalizzata richiesta di vendite, portando alla completa interruzione delle contrattazioni ed al crollo dell’intero mercato dei tulipani.

Nonostante i coltivatori avessero tutto il diritto alla riscossione di quanto gli era stato promesso, la lobby dei fioristi indusse la giustizia delle provincie unite olandesi a trasformare i contratti a termine (futures) in contratti di opzione (options).

In questo modo a tutti i debitori venne concessa la possibilità di non ottemperare al pagamento dovuto; essi dovettero semplicemente non riscattare l’opzione, ma impegnarsi nel versamento di una penale pari 3,5% del prezzo pattuito inizialmente .32

La bolla dei tulipani fu la prima vera crisi finanziaria legata agli strumenti derivati della storia, ma non l’ultima, in quanto se ne susseguirono altre di portata ancora maggiore.

L’ultima tra queste è stata la crisi finanziaria legata ai mutui sub-prime cominciata nel 2007 negli Stati Uniti, che ha causato conseguenze tragiche per l’intera economia occidentale. 33

I mutui sub-prime possono essere definiti mutui ad alto rischio di insolvenza poiché sottoscritti da soggetti contraddistinti da un basso merito creditizio.

Nei primi anni del nuovo millennio, la Federal Reserve ovvero la Banca Centrale Americana, per sostenere il paese in un momento delicato visto anche il recente crollo delle torri gemelle, decise di attuare una politica monetaria espansiva tramite l’abbassamento del costo del denaro.

Di conseguenza, dato che le condizioni richieste erano diventate particolarmente vantaggiose, ci fu un aumento dei finanziamenti emessi dalle banche.

La penale pagata può essere assimilata ad un premio per l’opzione ovvero quel pagamento

32

che viene effettuato dall’acquirente del contratto per garantirsi la possibilità di scelta nel futuro (riscatto o meno del contratto).

La crisi dei mutui Subprime, gli impatti sul mondo finanziario, borsaitaliana.it

(34)

Inoltre, sempre più cittadini americani cominciarono ad investire i fondi in proprietà immobiliari.

Molti decisero di accendere un mutuo per acquistare la propria casa, in quanto gli interessi passivi calcolati erano molto bassi rispetto al passato. 34

Partendo dal presupposto che, come tutti i mercati mondiali, anche quello immobiliare è caratterizzato da una costante ricerca di equilibrio tra domanda e offerta, si può affermare che l’incremento vertiginoso della richiesta di abitazioni causò una crescita consistente dei prezzi delle stesse, tale da comportare la creazione di una bolla immobiliare.

La situazione iniziò ad incrinarsi quando, a partire dal 2004, la Federal Reserve decise di iniziare ad aumentare i tassi, ovvero il costo del denaro, portando inevitabilmente ad un innalzamento delle insolvenze e quindi dei pignoramenti messi in atto dagli istituti di credito derivanti dai sempre maggiori interessi passivi pagati dai contraenti dei mutui.

Con il passare del tempo il numero delle situazioni di insolvenza crebbe in maniera incontrollabile, causando un aumento delle case pignorate, e ben presto si raggiunse la saturazione del mercato, tale da rendere molto difficoltoso trovare nuovi compratori per le abitazioni.

Per questo motivo il prezzo delle abitazioni crollò drasticamente facendo scoppiare la bolla immobiliare e le banche non riuscirono più a compensare i prestiti concessi con il recupero del valore degli immobili pignorati.

La situazione però fu molto peggiore rispetto alla sola perdita da parte delle banche del valore dei finanziamenti emessi; il tutto venne aggravato infatti sia dalla cartolarizzazione dei crediti (Securitization) che dall’utilizzo di strumenti finanziari derivati. 35

Ackermann, J. (2008), “The subprime crisis, its consequences”, Journal of Financial

34

Stability.

Bruni F. (2008), "La crisi dei mutui e il sistema finanziario internazionale”, in L’Italia e la

35

(35)

La forte crescita economica aveva infatti spinto le banche, a cartolarizzare i mutui dopo averli emessi, cioè a cederli a soggetti terzi al dine di immettere nuova liquidità nel processo di concessione di finanziamenti.

Questi soggetti terzi, identificati con la sigla SPV , erano società “veicolo” costituite 36

appositamente, affinché gli istituti finanziari potessero conferire i loro crediti.

A loro volta tali società emettevano dei titoli chiamasi ABS (Asset Backed Securities) ovvero delle obbligazioni coperte dai crediti e dalle relative garanzie sui beni.

Grafico n.5 37

La cartolarizzazione dei crediti

Nello specifico caso della crisi dei sub-prime, le società veicolo emettevano MBS (Mortgage Backed Securities), che oggi si configurano come delle tipologie particolari di ABS non composte da varie tipologie di crediti ma solamente da mutui.

Questi titoli venivano venduti sul mercato agli investitori tramite la mediazione di banche di investimento e con gli introiti ottenuti, il veicolo era in grado di ripagare i immediatamente i crediti alla banca che glieli aveva conferiti.

Special Purpose Vehicle

36

Personale elaborazione;

37

(36)

In questo modo la banca, attraverso la cartolarizzazione, riusciva a rendere liquidi dei titoli di credito altrimenti illiquidi e indivisibili ed ottenere di conseguenza la liquidità necessaria per riavviare nuovamente questo processo.

A loro volta, coloro che avevano investito in MBS (le banche di investimento), tramite la costituzione di nuove società veicolo di “secondo livello”, procedevano nuovamente al re-impacchettamento di questi mutui insieme ad altri titoli all’interno di obbligazioni chiamate CDO (Collateralized Debt Obbligations).

Queste nuove obbligazioni possedevano caratteristiche del tutto simili a quelle degli MBS in quanto originati tramite il medesimo meccanismo, ad eccezione di un unico aspetto, il sottostante: nel caso degli MBS, come visto sopra, erano i mutui, mentre nel caso dei CDO erano i titoli MBS stessi.

In questo modo si venne a creare una lunghissima catena di obbligazioni reciproche, che portò al frazionamento del rischio di insolvenza, inizialmente posseduto solamente dalle banche che avevano concesso i finanziamenti, ed alla sua condivisione tra tutti gli operatori coinvolti. 38

Nonostante ciò, il rischio non fu eliminato, ma anzi aumentò notevolmente, in quanto questi titoli di credito erano stati scomposti e successivamente impacchettati più e più volte ottenendo alla fine degli aggregati eterogenei che accoglievano titoli tripla A insieme a mutui sub prime tossici.39

I passaggi eseguiti dai crediti originari furono talmente tanto numerosi e caratterizzati da un grado di complessità così elevato da implicare necessariamente delle difficoltà valutative, sia da parte delle stesse banche che li avevano emessi sia da parte delle agenzie di rating che conferivano a questi titoli il massimo grado di sicurezza.

Bruni F. (2008), “Contro la crisi: cultura e regole”, In: Shiller R.J. (ed.) “Finanza shock: Come

38

uscire dalla crisi dei mutui subprime”. Milano, Egea, pp. 121-158.

Il rating è un giudizio espresso da un soggetto esterno e indipendente in merito alla

39

solvibilità di una determinata società ovvero sulla sua capacità di pagare o meno i propri debiti. Il rating migliore possibile è rappresentato dalla tripla A (AAA) mentre il peggiore è D che rappresenta lo stato di insolvenza. Generalmente un rating superiore alla tripla B (BBB-) viene considerato un investment grade ovvero un investimento relativamente sicuro sul quale indirizzare i capitali. Al contrario, un rating inferiore viene solitamente definito come

speculative grade ovvero un investimento ad alto rendimento proprio perché accompagnato

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