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Acustemologia etnograCica: ascoltare la città e il suo islām.

Le voci della città

5. Acustemologia etnograCica: ascoltare la città e il suo islām.

Il discorso appena concluso costituisce una premessa, poiché non è che il primo passo di quella metodologia etnograGica che vuole essere una risposta alla domanda iniziale, su come si possa fare un’etnograGia della città e dei suoi suoni. Il paragrafo che segue vorrebbe occuparsi, invece, dello sviluppo di questa torsione metodologica ispirata da Canetti.

Per quanto aperto ai micro-eventi quotidiani della città, infatti, Canetti è un visitatore, un turista, e vuole rimanere tale. Non può essere così per l’etnografo, che invece coltiva l’ambizione di «afferrare il punto di vista» dell’indigeno» (Malinowski 2010: 33). Ancora una volta, tuttavia, dobbiamo notare che la famosa frase di Malinowski, così come l’espressione “osservazione partecipante” si basano su un lessico visivo. Il cuore della domanda metodologica, in fondo è questo: come si deve condurre un’osservazione partecipante che possa anche ascoltare i suoni insieme all’interlocutore? Come si giunge a cogliere le cose “dal punto di ascolto”, e non solo dal punto di vista del nativo? È ovvio che, a questo livello di analisi, i termini sensoriali qui presi in esame hanno una valenza metaforica. L’islām ascoltato che si è delineato nei precedenti capitoli, la diatriba sulla generalizzazione fra Geertz e Rachik, e lo stile uditivo di esplorazione della città proposto da Canetti hanno in comune questo: l’ascolto e l’udito vi si presentano non tanto come sensi Gisici, bensì come allegorie di essi. È, d’altronde, anche il caso della nozione di acustemologia di Steven Feld, il cui ampio obiettivo di ricerca è, Gin da Sound

and Sentiment (Feld 2009) di affrontare uno studio del suono come sistema simbolico,

«sound as a way of knowing» (Feld 2015: 12). Anche la sua acustemologia, allora, presenta una torsione in questo caso epistemologica, poiché «the kind of knowing that acoustemology tracks in and through sound and sounding is always experiential, contexual, fallible, changeable, contingent, emergent, opportune, subjective, constructed, selective» (Feld 2015: 15). E di uso simbolico e metaforico dell’ascolto si tratta anche per altri ambiti. Michael Bull e Les Back, per esempio, nel volume antologico da loro curato di riGlessione interdisciplinare sul suono e sui paesaggi sonori, affermano la necessità di un ascolto profondo della realtà:

Il tipo di ascolto che immaginiamo non è immediato né ovvio: non è easy listening. Dobbiamo lavorare invece in vista di quello che può essere deGinito un “ascolto agile”, e ciò comporta la sintonizzazione delle nostre orecchie per ascoltare di nuovo i molteplici strati di signiGicato potenzialmente integrati nello stesso suono. L’ascolto profondo comporta inoltre pratiche di dialogo e procedure di ricerca, trasposizione e interpretazione (Bull, Back 2008: 11).

Ma questo ascolto profondo e agile allo stesso tempo, questa maniera acustemologica di condurre una ricerca, a cosa portano nell’ambito etnograGico?

La pratica dell’ascolto delle persone ha da sempre un posto centrale nelle discipline etnograGiche: le interviste, i colloqui, il dialogo con gli “informatori” sono alcuni dei pilastri dell’osservazione partecipante . Tuttavia, la vista mantiene il privilegio di 15

dominio metaforico da cui attingere la terminologia. Ciò che manca, allora, è scalGire questa supremazia metaforica e introdurre l’acustemologia dentro la terminologia etnograGica . Se la traiettoria simbolica che ha portato a interpretare alcuni aspetti 16

dell’islām tramite l’acustemologia di Feld si riferiva all’udito come senso dell’interiorità , qui sarà utile coglierne un’altra sfumatura. Mentre, infatti, la vista è il 17

senso dell’esternamento, della frontalità e quindi, come visto in precedenza, della possibilità di giustapposizione schematica di vari elementi in un quadro, in una “visione d’insieme”; l’udito è il senso che non può decidere cosa sentire, non ha barriere, ma soprattutto non ha direzionalità. Non si può ascoltare solo da davanti, come per la vista, ma si ascolta sempre in quanto centro di un ambiente che sta intorno (environment) a chi ascolta. L’orecchio non riesce a schematizzare le voci e i suoni, può soltanto riconoscerli, una volta immerso in un determinato ambiente: l’udito e l’ascolto richiedono l’immersione . La parola immersione, tuttavia, riporta direttamente alla 18

riGlessione etnograGica recente. La utilizza Chiara Pussetti, infatti, come orizzonte che

Mariano Pavanello, per esempio, confronta le strategie della visione e le strategie dell’ascolto 15

in etnograGia. Si veda Pavanello 2010.

Segnalo di passaggio, per mancanza di spazio, che è di recente pubblicazione una rassegna sul 16

tema dell’ascolto in antropologia. L’autore, Antonello Ricci, affronta la questione da diverse prospettive- proponendo anche varie letture non solo teoriche ma anche provenienti dell’attualità. Quella metodologica non è lasciata per ultima. Ricci afferma che l’etnograGia «deve abbandonare le metafore visive dell’osservazione e della descrizione per assumere quelle dell’ascolto, del discorso e del dialogo, della narrazione» (Ricci 2016: 48). Si veda il secondo capitolo, § 7, e il terzo capitolo, § 8 di questa tesi. 17 Sul legame fra sensorialità ed epistemologia, e in particolare su una epistemologia comparata 18 fra occhio e orecchio, si vedano Barbanti 2004; Ingold 2000: 243-293.

unisce la sua etnograGia dei Bijagò della Nuova Guinea ai diversi stimoli della questione metodologica sollevata dall’antropologia con/delle emozioni, negli ultimi decenni. La Pussetti riprende il concetto di immersione partecipante , che riassume secondo lei i 19 vari autori che si sono pronunciati sul tema poiché indica, in fondo, quella condizione di reciproca permeabilità e ricettività cui i miei interlocutori sul terreno si riferivano parlando di “contagio di emozioni”. (…) Questa trasmissione avviene in modo involontario e quotidiano, senza necessità di prendere appunti o accendere il registratore, semplicemente partecipando delle stesse situazioni, in particolar modo quando queste siano di particolare intensità emotiva, come nel caso di conGlitti o crisi (Pussetti 2010: 278).

Mi pare che, con la riGlessione sulla necessità di includere le emozioni nella pratica etnograGica, l’acustemologia che bisognerebbe introdurre nell’etnograGia sia semplicemente già entrata, per un’altra porta. Se l’osservazione partecipante viene riconosciuta parziale, e si trasforma in vari modi in immersione partecipante, allora essa dimostra di avere le caratteristiche richieste dall’acustemologia, di essere in sé un sapere «experiential, contexual, fallible, changeable, contingent, emergent, opportune, subjective, constructed, selective» (Feld 2015: 15), cioè centrato sulla persona che sta ascoltando. O meglio ancora: di avere le sue fondamenta nel dialogo contestuale fra l’osservatore/ascoltatore e l’Altro, inteso di volta in volta come persona o come realtà 20

complessa.

Ecco allora il fondamento sensoriale di quella nuova osservazione partecipante- che sarebbe ancora una volta riduttivo chiamare solo “ascolto partecipante”- candidato a portare la presente analisi a interpretare in maniera nuova i suoni della città. Non si

Originariamente utilizzata dall’antropologo inglese Jon Mitchell, in un articolo del 1997, 19

nell’ambito di una ricerca sul cattolicesimo maltese. Per tutti gli autori evocati dall’autrice, si veda Pussetti 2010.

Potremmo chiamarlo il “testimone auricolare”, parafrasando il titolo di un’ altra opera di 20

trova, in fondo, molto lontano dal concetto, elaborato da Unni Wikan, di risonanza. Occorre ricordare che “Resonance” è la traduzione inglese del balinese “ngelah keneh”, e quindi solo per scelta dell’autrice ha una sfumatura semantica sonora. Ma è indifferente: il concetto proposto dalla Wikan nel suo celebre articolo del 1992, intitolato in italiano “Oltre le parole. Il potere della risonanza”, si pone nello stesso campo di ricerca qui abbracciato, e cioè quello della “conversione etnograGica”, per così dire. È interessante che la Wikan, per introdurre al «problema della traduzione» che discute nell’articolo, spieghi che a stimolarla in questa direzione sono stati i dubbi sulla propria interpretazione della realtà balinese. Si era resa conto, infatti, che le sue osservazioni etnograGiche, e certamente quindi le sue relazioni sul campo, erano radicalmente distanti da quelle che si trovano nelle opere dei maestri dell’antropologia su Bali (Mead, Belo, Bateson, Geertz stesso). Mentre in tutte le loro etnograGie, infatti, i balinesi vi venivano descritti in maniera caratteristica, singolare, la Wikan aveva l’impressione di essere entrata in una relazione semplice con i suoi interlocutori, e si chiede infatti: «Perché il mio studio mancava- quella era la sensazione che avevo- di aspetti esotici?» (Wikan 2009: 98). È per superare questo problema dell’esotismo, cioè della comprensione etnograGica- simile a quello che si pone qui per la città islamica- che l’autrice propone il concetto di risonanza. Esso emerge da alcune discussioni epistemologiche fatte a Bali, poi confrontate con gli altri terreni condotti negli anni (Egitto, Bhutan, Oman). Tre studiosi di un circolo lontar (un’associazione per lo studio delle antiche scritture) cercavano di spiegarle come secondo loro avrebbe dovuto

trasmettere al mondo la comprensione di cosa fossero i balinesi. (…) Per prima cosa, dissero, dovevo creare quella risonanza in me stessa, con la gente e con i problemi che stavo cercando di comprendere. Per spiegare questo concetto di risonanza, il professore- poeta disse: “È quello che favorisce l’empatia o la compassione. Senza risonanza non può esservi comprensione, né vera conoscenza. Ma la risonanza richiede che tu (…) usi sia il sentimento che il pensiero. In realtà il più essenziale è il sentimento, perché senza di quello si rimane invischiati nelle illusioni” (Wikan 2009: 102).

Nuovamente le illusioni: c’è un modo di sentire il mondo che è illusorio, non dà giustizia della realtà. Come nel pensiero balinese sentimento e pensiero (feeling/

thought) non possono essere separati, così anche l’antropologa si è resa conto che non

poteva comprendere le contraddizioni che le presentava la realtà balinese senza adottare questo sguardo.

Ci troviamo, qui, nel complesso campo che sta a cavallo fra l’antropologia dei sensi e l’antropologia delle emozioni, che contiene, di conseguenza, la percezione del paesaggio. È ormai chiaro che continuare la sGida etnograGica, cioè imparare a “sentire come il nativo”, signiGica imparare a percepire allo stesso modo. Non solo, dunque, afferrare il suo punto di vista (quello di cui parla Malinowski nell’Introduzione agli Argonauti), ma anche il suo punto di ascolto- e così in avanti: il suo punto di olfatto e di tatto, per esempio. È questo il “punto di percezione” che va afferrato: oltre le parole, direttamente alla fonte delle emozioni/percezioni, cioè del feeling/thought di cui parla la Wikan. Solo da questa posizione metaforica si può sentire/ascoltare il paesaggio sonoro di un luogo, della medina di Fez in questo caso, nel modo giusto.

Ecco allora, proprio da un’allieva dell’antropologia interpretativa di Geertz, la conclusione del lungo discorso epistemologico e metodologico aperto dallo spunto della città islamica, e dalla diatriba imbastita da Rachik sull’opera di Geertz. Tutto era partito proprio da una contestazione, da un modo parzialmente sbagliato di cogliere la complessità di una realtà, da una modellizzazione della realtà che rischia continuamente di cadere in una “illusione ottica”, in una trappola visivo/ossessiva che pretende di spiegare e cogliere la totalità di una realtà. Il percorso metodologico delineatosi per provare a evitare questa trappola prevede due passaggi. Entrambi sono basati su un’acustemologia di fondo, cioè una base metaforica dell’orecchio e non dell’occhio. Il primo passaggio è l’esplorazione uditiva, come emerge dalle Voci di Marrakech di Elias Canetti: all’interno del rumore e del disordine della totalità, seguire gli stimoli sensoriali e lasciarsi incontrare dalla città così com’è, in maniera situazionale e contestuale. Il

secondo passaggio è invece quello più prettamente etnograGico, e prevede la sintonizzazione fra l’etnografo e gli abitanti della realtà visitata, la risonanza dialogica che porta a un parziale accesso a ciò che sta «oltre le parole»- come afferma la Wikan- e potremmo ben dire anche oltre i suoni: cioè i signiGicati. Se sentire, come dimostra la riGlessione sui sensi in generale e anche il saggio della Wikan, ha in sé sia la percezione che già, contemporaneamente, la rappresentazione di quanto percepito (è un feeling/

thought), tramite la risonanza si può giungere a questa rappresentazione. Questo è,

dunque, lo spunto metodologico che emerge dalla mia esperienza di campo, per giungere a costruire un’etnograGia della città, nella sua totalità, e dei suoi suoni. Esplorare il paesaggio sonoro della città e connettersi con le sue rappresentazioni più profonde, che stanno oltre le parole e oltre i suoni, per capire come interpretarli.

È in fondo ciò che ha provato a fare questa tesi Ginora. Nei mesi trascorsi a Fez la mia preoccupazione costante è stata di individuare i suoni attorno a me, e di seguirne la “voce” per così dire, Gino alla fonte, cioè alla pratica che lo produce e gli conferisce senso. Se ammettiamo che ogni pratica etnograGica prevede l’immersione e il dialogo personale con la realtà che si studia, allora è ovvio che gli incontri fatti lungo il cammino, e quindi anche la concentrazione sull’islām, siano frutto del mio posizionamento e del mio interesse del tutto unico. Esiste una selva di voci che non ho seguito, perché non si connettevano al mio percorso, così come una selva di suoni di cui non ho potuto sviluppare la storia in queste pagine. Tuttavia, tramite ciò che io personalmente ho incontrato, credo di poter affermare che la particolare “estesiologia” a cui invita l’islām, largamente analizzata nei precedenti capitoli, sia molto importante per capire ciò che sta “oltre le parole”, e cioè la fonte delle rappresentazioni dei suoni. Se l’acustemologia non sta solo alla base dell’islām, ma anche a fondamento dell’etnograGia, allora è ovvio che siamo di fronte non solo a un islām ascoltato, ma anche a un islām da ascoltare. Porsi in ascolto dell’islām e della città, nei due modi Gin qui analizzati, è la prima risposta alla domanda di questo capitolo. In questo modo si fa etnograGia dei suoni della città. In questo modo possiamo comprendere cosa sia una città islamica e se Fez possa essere

chiamata con questo nome, passando alla seconda domanda che questo capitolo vuole porsi: capire cioè come questa città, sentita e ascoltata tramite l’islām, possa essere rappresentata in chiave sonora.