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Le voci della città

2. La città islamica.

Una medina viva e brulicante come quella di Fez ha gioco facile nello stordire e disorientare il visitatore, e non solo sul piano sonoro. L’impatto vorticoso e straniante ha un carattere squisitamente multi-sensoriale: i colori e gli odori aggrediscono gli occhi e le narici, oltre che le voci le orecchie. E, anche sul piano esclusivamente uditivo, molti sono i suoni che non ho potuto riportare nello scorso paragrafo. Ancor di più quelli che probabilmente non ho avvertito, o che si dovrebbero prendere in considerazione se si uscisse dalla medina per lanciarsi nel trafGico della ville nouvelle, che presenta sfaccettature variegate, a seconda dei quartieri. È in genere l’assoluta complessità, la difGicoltà di comprensione totale, l’inesauribilità degli stimoli che colpisce. È il caso, credo, a questo punto, di richiamare in causa un autore italiano già incontrato nel primo capitolo: Edmondo De Amicis, infatti, riesce a rievocare le scene della sua visita a Fez

con maestria invidiabile. Egli racconta che si riservò la prima visita della città per la mattina dopo il suo arrivo, rifugiandosi nel palazzo in cui vennero ospitati, deliziato dall’architettura moresca e dalla pace dei suoi cortili. Ma, uscito di buon’ora, il giorno dopo si arrischiò insieme ai suoi compagni in una passeggiata nella medina, da cui emergono pagine dense e spesse- siamo a Gine ottocento:

L’interprete ci domandò cosa volevamo vedere. «Tutta Fès!», si rispose. Ci dirigemmo prima verso il centro della città. Qui dovrei proprio dire: «Chi mi darà la

voce e le parole!». Come esprimere lo stupore, la meraviglia, la pietà, la tristezza che

provai dinanzi a quel grandioso e lugubre spettacolo? (…) la gente spesseggia; gli uomini si fermano per lasciarci passare; le donne tornano indietro o si nascondono; i bambini gridano e scappano; i ragazzi brontolano e ci mostrano i pugni da lontano, tenendo d’occhio il bastone dei soldati. (…) L’aria è impregnata d’un odore acuto d’aloe, di spezie, di incenso, di kif; pare di camminare in una immensa drogheria. Passano frotte di ragazzi con la testa tignosa e piena di cicatrici; vecchie deformi, senza un capello, col seno ignudo, che s’aprono il passo a forza imprecando furiosamente contro di noi; (…) Entriamo nei bazar. Per tutto c’è folla. Le botteghe, come a Tangeri, sono tane aperte nel muro. I cambisti sono seduti a terra, con un mucchio di monete nere dinanzi. Attraversiamo, pigiati dalla folla, il bazar delle stoffe, quello delle pantofole, quello della terraglia, quello degli ornamenti di metallo, che formano tutti insieme un labirinto di stradicciuole coperte (…) Passiamo per mercati di verzura affollati di donne che alzano le braccia per maledirci, e usciamo dalla parte centrale della città. Daccapo salite, discese, giri, rigiri, vicoli tetri, passaggi tenebrosi, moschee, fontane, porte arcate, rumori di mulini, cori di voci nasali, donne che si nascondono, un sudiciume che ammorba e un polverio che leva il Giato (De Amicis 2015: 152-154).

Lo scrittore si trova chiaramente spiazzato di fronte a questa medina rumorosa e caotica, Gino ad esclamare: «Io mi domando dove sono, se sogno o son desto, e se la città di Fès e la città di Parigi si trovano veramente sul medesimo astro!» (De Amicis 2015: 153).

D’altronde, questa è la caoticità che ha catturato l’occhio occidentale Gin dai primi incontri coloniali con il Medio Oriente, più in generale. Esso infatti, Gin dalle prime relazioni storiche, si è rivelato essere difGicilmente “modellizzabile”, comprensibile in un modello chiaro e semplice. In questo, la nostra materia non è stata da meno. Come afferma Ugo Fabietti:

Una volta “inventato”, cioè costruito dalla geopolitica occidentale e dall’orientalismo, il Medio Oriente si è rivelato una realtà la cui natura non è pensabile secondo quei criteri di semplicità e di isolamento cari alla tradizione antropologica classica. Il Medio Oriente, realtà estremamente composita dal punto di vista etnico, linguistico, delle forme di adattamento, dell’organizzazione politica e, sebbene al profano possa sembrare il contrario, anche dal punto di vista religioso, non si piegava alla prospettiva antropologica dominante tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento (Fabietti 2016: 51).

Il funzionalismo era l’ultimo degli impianti teorici costruito dagli occidentali che ormai da secoli si avvicendavano nella regione. Come fa notare Fabietti, tranne qualche eccezione si era costruito in regioni del mondo che si prestavano a una rappresentazione più statica, o sempliGicata. Ma gli impianti coloniali avevano già forgiato, a quell’epoca, una sorta di visione per tratti, per tipologie, per caratteri dominanti, che era riuscita a ridurre il disorientamento, il disordine, cercando di isolare dei “tipi” di organizzazione comunitaria,

e di studiare questi tipi uno per uno nell’intento di far emergere, per sommazione, una visione unitaria della formazione sociale globale. Classica, da questo punto di vista, è l’immagine del Medio Oriente come “mosaico”, un’area nella quale sono presenti in primo luogo tre tipi di comunità: quella nomade, quella agricola e quella urbana. Questa ripartizione, basata su criteri in apparenza per sé evidenti, pose tuttavia problemi rilevanti. Infatti, essa non si propone come tripartizione adottata ai Gini di una strategia operativa sul piano della ricerca, ma come rappresentazione capace di cogliere una realtà oggettiva (Fabietti 2016: 53).

Il Medio Oriente come un mosaico formato, nella «realtà oggettiva» da varie tessere, di colori diversi e ben distinte, e che per sommazione e giustapposizione fa emergere il ritratto completo della regione: questo è il modello costruito, a fronte della complessità incontrata, per imporre a questa regione una semplicità comprensibile.

Ma la tripartizione non si è limitata qui, è proseguita dividendo ulteriormente una delle tessere di questo mosaico, la realtà urbana, in sottoinsiemi ben ordinati. Come afferma Domenico Copertino, nella sua analisi antropologica della costruzione dello spazio mediorientale, basata sulla sua etnograGia in Siria:

Colpiti dalla stretta relazione esistente nelle società mediorientali fra cultura, località e deGinizioni del sé collettivo, molti studiosi hanno elaborato dei costrutti teorici con i quali hanno pensato di Gissare una volta per tutte le caratteristiche delle città arabe in Medio Oriente. (…) Essi hanno elaborato il concetto di “città islamica”- una città con delle caratteristiche Gisse e immutabili, tra cui quella di essere chiusa su se stessa e divisa al suo interno in tre zone distinte: l’area religiosa e amministrativa, il mercato e le aree residenziali (Copertino 2010: 87).

Questo ordine apparente e quasi schematico che sembra delinearsi, tuttavia, non basta per sottrarre la città islamica all’impressione di farraginosità, di disordine.

La diffusione della città islamica si rivela come un esempio delle logiche del dominio coloniale europeo sul Medio Oriente: la città islamica sarebbe il luogo idoneo per i musulmani, incapaci di entrare nella modernità (…). Le distinzioni introdotte dall’amministrazione catastale siriana affondano le radici in una consolidata tradizione di studi d’area e letteratura orientalistica, che ha prodotto un longevo immaginario spaziale costruito dalle rappresentazioni che vedono le città arabe mediorientali come mosaici di entità sociali e topograGiche distinte, patchwork di quartieri fortemente differenziati l’uno dall’altro in base a religione, etnia, provenienza geograGica, status sociale dei residenti. Questo rispecchia, a livello locale, l’immagine del “mosaico di culture”, scenario spesso utilizzato per rappresentare il Medio Oriente (…) (Copertino 2010: 89).

Il patchwork di quartieri, insomma, dimostrerebbe che la città islamica è stata capace al massimo di sovrapposizione, mai di vera e propria organizzazione, e da questo deriverebbe il suo disordine, che rende i suoi abitanti «incapaci di entrare nella modernità». Questa percezione, mi sembra, è simile a quella di De Amicis, che si rattrista di fronte al «grandioso e lugubre spettacolo» di quella «città decrepita», una carcassa che sembra «si vada sfacendo lentamente» (De Amicis 2015: 151). Uno sguardo, insomma, di un occidente supponente sull’Oriente, che si arroga il diritto di giudicarne la forma e la bellezza. È lo stesso punto di vista che Edward Said denuncia in maniera così puntuale nel suo ormai imprenscindibile saggio Orientalismo. E d’altronde, scorrendo le sue pagine, si trovano numerosi esempi che riconducono a questa immagine di disordine asimettrico dell’Oriente, contrapposto all’ordine logico dell’Occidente. Basti riportare, per tutti, il solo esempio- citato anche da Domenico Copertino- della considerazione della forma del “pensiero orientale” da parte dell’establishment coloniale. Similmente al più generale “pensiero primitivo” o “selvaggio” in ambito antropologico, anche il pensiero orientale era una nozione che in un certo periodo coloniale si inseriva in una « “famiglia di idee” e un certo numero di valori che in vari modi si erano dimostrati efGicaci. Le idee spiegavano il comportamento degli orientali, attribuivano loro una mentalità, un’eredità storica, li calavano in una certa atmosfera» (Said 2013: 48). Così, Lord Cromer, elogiato governatore inglese dell’Egitto tra il 1882 e il 1907, non deve dare spiegazioni quando scrive il seguente passo delle sue memorie, riportato da Said. Egli dimostra ironicamente la corrispondenza ideale fra luoghi e popoli, e addirittura schemi di pensiero.

Sir Alfred Lyall mi disse una volta: “La precisione è aborrita dalla mentalità orientale. Ogni angloindiano dovrebbe tenere presente questo principio”. L’imprecisione, che facilmente degenera in menzogna vera e propria, è uno dei tratti salienti dell’intelletto orientale. (…) La mente dell’orientale, come le pittoresche strade della sua città, in modo caratteristico manca di simmetria (Said 2013: 44).

Non è possibile, in questa sede, analizzare tutte le sfaccettature- Gisiche, urbanistiche, religiose, GilosoGiche- che ha assunto l’idea di città islamica nella sua storia. Basti qui aver accennato a questa contrapposizione fra un disordine percepito e un ordine rappresentato, ben identiGicabile. Mi appoggio però qui al lavoro dell’antropologa mediorientalista Janet Abu- Lughod su questo tema. Il suo importante articolo del 1987,

The Islamic City- Historic Myth, Islamic Essence, and Contemporary Relevance , ha 4 compiuto, in breve, un’operazione simile a quella di critica letteraria e storiograGica che aveva fatto un decennio prima Edward Said, individuando in maniera accurata la catena di rappresentazioni, descrizioni e citazioni che hanno reso possibile l’esistenza di una “città islamica”, di fatto prevalentemente letteraria. L’antropologa statunitense riesce a dimostrare, andando a caccia delle incongruenze e delle generalizzazioni non giustiGicate, l’impossibilità di poter delineare non solo i tratti essenziali, ma l’afGidabilità stessa del concetto di “città islamica”. La sua analisi si concentra su due Giloni di riGlessione su questo tema da parte di una rosa di autori, da una parte concentrati sulle città del Nord-Africa, dall’altra su quelle della regione siro-libanese. Ma, dice la Abu- Lughod,

in each case, a very tentative set of place-speciGic comments and descriptions appears. These enter the literature and take on the quality of abstractions. With each telling, the tale of authority grows broader in its application. Forgotten is the fact that only a handful of cities are actually described. (…) Forgotten is the fact that islamic cities have evolved over time and that the sociopolitical system in Damascus and Aleppo in the 14th century under Mamluk rule cannot possibly provide a convincing description of how islamic cities sui generis were governed! (Abu- Lughod 1987: 160)

Anche se, come ammette l’antropologa, anche lei in passato è caduta nello stesso errore, bisogna riconoscerne le basi scricchiolanti:

Si veda Abu-Lughod 1987. 4

My own book on Cairo fell into the trap set by the Orientalists by accepting many of the earlier authorities about the nature of the islamic city. The ediGice they had built over the years seemed to me a strong and substantial one. Only gradually did it become clear how much a conspiracy of copying and glossing had yielded this optical illusion (Abu-Lughod 1987: 160).

Ecco, dunque, rivelata la natura dell’operazione che abbiamo analizzato brevemente in questo paragrafo, una vera e propria trappola di sempliGicazione costruita a tavolino da teorici occidentali- coscientemente o meno. Essa ha la natura dell’illusione ottica, dell’inganno caleidoscopico. Questo punto merita di essere arricchito e approfondito nelle pagine che seguono.