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Tuttavia, se terremo presente l’orizzonte e le acquisizioni dell’antropologia dei sensi, ho già messo in evidenza come questo lavoro parta da un più speciGico focus: l’esperienza islamica nella città di Fez, sotto il proGilo prettamente sonoro. Non, dunque, i sensi, ma uno solo dei cinque, l’udito. E non tutto il paesaggio urbano, ma il paesaggio sonoro urbano. Paradossalmente, gli studi sul concetto di “soundscape” precedono la riGlessione sistematica sui sensi in antropologia. È all’inizio degli anni ‛70 che Murray Schafer, cominciò a dedicarsi a questi studi, di cui oggi viene considerato l’iniziatore. Come per ogni ambito disciplinare, anche in questo caso si potrebbe ricostruire una sorta di archeologia delle riGlessioni sul tema, di cui anche solo il XX secolo, fra letteratura e musica, ci fornirebbe molto materiale- basti pensare alla scuola futurista e alle sperimentazioni di Luigi Russolo. Tuttavia, oltre al fatto che non è qui di nostro interesse, è importante sottolineare che il neologismo “soundscape”, tradotto in italiano con “paesaggio sonoro” è opera del compositore canadese, che inoltre si è fatto animatore di un vivace dibattito che continua tuttora. Come afferma Antonella Radicchi,

Schafer intendeva inoltre uniGicare i differenti approcci delle discipline scientiGiche, sociali ed artistiche, come l’acustica, la psicoacustica, l’ingegneria del suono, la musica e l’elettroacustica, per trattare insieme le proprietà Gisiche del suono, i meccanismi di percezione, le modalità comportamentali di risposta ai suoni e la possibilità di comporre paesaggi sonori ideali (Radicchi 2012: 38).

Egli cominciò il suo lavoro da Vancouver nel 1972, e l’anno seguente diede alle stampe il suo primo libro, The Vancouver Soundscape, con una serie di registrazioni sulla città e una trattazione teorica. Nel 1975 uscì Five Village Soundscapes, uno studio comparato del paesaggio sonoro di cinque piccoli borghi, in Europa. Nel 1977 Schafer pubblicò The tuning of the world, il saggio in cui riordinò il lavoro Gin lì effettuato, ponendo le basi dei Soundscape Studies. Schafer analizza in quest’opera il mutamento indotto dall’industria sui paesaggi sonori naturali, esplicitando così il taglio chiaramente

polemico e riformatore della sua ricerca (chiama schizophonia , per esempio, la 16

rivoluzione tecnica ed elettronica in ambito sonoro), ma anche la distanza dai consueti studi sull’inquinamento acustico come mero dato: egli pone, già da quest’opera, un accento etico ed estetico al concetto che plasma, arricchendo la trattazione con elementi di storia e GilosoGia e di varie cosmologie da cui si lascia ispirare. Inoltre, lo studio contiene una metodologia ben articolata, su rilevamento, notazione e terminologia, e indicazioni per la progettazione acustica, che resta per lui il vero obiettivo di questi studi. Quest’opera è dunque basilare in questo campo, e dovremo servirci di alcuni concetti di Schafer nel corso della trattazione.

Già da un primo sguardo, dunque, appare chiaro che il concetto di paesaggio sonoro è interdisciplinare, ma che l’antropologia non era chiamata in causa operativamente nel periodo in cui Schafer imbastiva la sua struttura teorica. Tuttavia, non si può dire che l’ambito sonoro fosse completamente assente dall’attenzione etnograGica, anzi: potremmo inserirvi innanzitutto l’oralità, che è di per sé fenomeno sonoro, da sempre presente in antropologia sotto i suoi aspetti sociale e linguistico. Di sonorità si è certamente occupata anche l’etnomusicologia, non solo nella sua accezione più classica, di studio dei fenomeni musicali nativi, ma soprattutto a partire dal suo reinserimento all’interno di un discorso più prettamente sociale con l’opera cardine di Alan Merriam,

Antropologia della musica, del 1964. Tuttavia, non era mai stato interesse di questa

branca dell’antropologia occuparsi anche di altri suoni che non fossero quelli utilizzati nella musica. Questo non vale, invece, per Steven Feld, che partiva proprio da una formazione etnomusicologica e linguistica, e che fu il protagonista di un interesse più ampio verso i suoni che la disciplina antropologica cominciò a sperimentare dall’inizio degli anni ‛80. Esso poi conGluirà nei Giloni teorici dedicati ai sensi e al paesaggio sonoro. Feld, quando arrivò il momento di concepire un progetto di ricerca, stanco delle tesi classiche della sua materia, provò qualcosa di originale. Afferma infatti:

Schafer 1994: 90. 16

[…] crudamente ho dato al mio progetto un nome volutamente alternativo: un’etnograGia del suono oppure un’etnograGia del suono come sistema simbolico. Volevo studiare i modi in cui il suono e la produzione di suoni colleghi l’ambiente con il linguaggio, l’esperienza e l’espressione musicali. (Feld 2004: 44-45).

Nel 1976 cominciò il suo campo in Papua Nuova Guinea, fra i Kaluli della foresta tropicale del Bosavi, e nel 1982 pubblicò l’opera che lo rese famoso, Suono e Sentimento (Feld 2009). Qui, il suo progetto di etnograGia del suono prese forma reale: egli non si limitò alla musica, ma la inserì come elemento all’interno dell’ecologia di suoni della foresta in cui i Kaluli abitavano, indagando il profondo legame che sussiste fra percezione del paesaggio e quelli che i Kaluli chiamano i “sentieri dei canti”. Le intuizioni di Feld hanno poi trovato il loro risvolto teorico, rendendolo il punto di riferimento per i soundscape studies in seno all’antropologia. Prendendo spunto dalla GilosoGia fenomenologica di Merleau-Ponty e dal Gilosofo americano Don Ihde, infatti, egli ha creato un concetto nuovo:

Con il termine “acustemologia” intendo un’unione tra acustica ed epistemologia, e l’indagine sulla supremazia del suono come modalità di conoscenza e di esistenza nel mondo. Il suono emana dai corpi e al tempo stesso li penetra. Questa reciprocità di riGlessione e assorbimento è una modalità creativa di orientamento: una modalità che armonizza i corpi ai luoghi e ai tempi tramite il loro potenziale sonoro (Feld 2008: 128).

La nozione di acustemologia, dunque, si inserisce nel dibattito epistemologico interdisciplinare sui sensi e sulla percezione, e fornisce nuovi spunti per interpretare la complessa interazione che sussiste fra corpi e luoghi. Con Feld si chiude questo breve inquadramento teorico, poiché la sua etnograGia del suono ci riporta contemporaneamente all’etnograGia del paesaggio, che nel nostro caso non sarà quello della foresta pluviale, ma urbano. Se «i canti kaluli eseguono una mappatura del mondo sonoro come uno spazio-tempo di luogo, di collegamento, di scambio, di viaggio, di memoria, di paure, di desideri e di possibilità» (Feld 2008: 140), nel paesaggio urbano

di Fez dovremo capire quale sia l’ecologia culturale dei suoni, cioè come essi si inseriscano nella complessa interazione fra Gisicità e signiGicati. Non a caso utilizzo qui il termine “ecologia culturale”: se da molte direzioni, in questo campo di studi interdisciplinare, giungono visioni teoriche che si rifanno a una prospettiva ecologica- dall’ecologia in ambito biologico, all’ecologia della musica, alla eco-muse-ecologia di cui parla in alcuni lavori lo stesso Steven Feld - qui cercherò di applicare ai suoni l’ecologia 17 culturale nell’accezione di Tim Ingold. Egli, infatti, pare l’autore più adatto a fornirci gli spunti teorici di cui abbiamo bisogno per districarci nel groviglio urbano. 7. Etnografare l’imponderabile. Emerge ora con più chiarezza la domanda di ricerca etnograGica che soggiace a questa tesi: come costruire un’etnograGia di un paesaggio sonoro urbano? Cioè, come accostare il fenomeno urbano e il fenomeno sonoro dal punto di vista prettamente etnograGico? Come produrre un’investigazione fertile del soundscape della città, per poi riuscire in qualche modo a comporne una rappresentazione? Sperando di riuscire a dare una risposta a questa domanda nello svolgersi dei capitoli, sollevo qui due elementi critici su cui concentrerò la mia attenzione.

Da una parte vi è un elemento evidente sia a livello teorico che a livello più pratico. Per quanto, cioè, l’udito abbia delle caratteristiche in parte diverse rispetto agli altri sensi, in nessun universo sensoriale conosciuto esso è tanto isolato da poter essere analizzato da solo, poiché concorre sempre in importanza almeno con la vista. L’antropologia dei sensi ha ben dimostrato che il mondo si manifesta all’uomo in una percezione multi-intersensoriale. Focalizzarsi, dunque, su uno solo dei sensi è di per sé problematico, e dovremo capire se nell’organizzazione sensoriale degli abitanti della medina di Fez questo sia giustiGicabile. Dall’altra, poi, per quanto la riGlessione

Si veda Colimberti 2004. 17

antropologica possa metterne in luce l’importanza, i sensi restano nella vita quotidiana come occultati, svolgendo la loro funzione di Giltri silenziosi. Nella medina la vita è spesso difGicoltosa e molti, anche di coloro con cui sono entrato in contatto, vivono nell’incertezza economica. Durante tutto il campo ho avuto la chiara impressione di essere interessato a qualcosa di troppo etereo- per quanto fondamentale- e d’altronde mi è stato fatto notare spesso. Ho spesso ripensato alle parole di Bronisław Malinowski nell’Introduzione ad Argonauti del Paci`ico Occidentale:

(…) c’è tutta una serie di fenomeni di grande importanza che non può assolutamente essere registrata consultando o vagliando documenti ma deve essere osservata nella piena realtà. Chiameremo questi fenomeni gli imponderabili della

vita reale (Malinowski 2004: 27, corsivo nel testo).

Nell’elenco di esempi che segue questo passo, ovviamente, Malinowski non inserisce qualcosa che abbia a che fare direttamente con il suono, ma sul campo io avevo l’impressione di lavorare su uno di questi imponderabili, sfuggenti e estemporanei come lo è ogni evento sonoro. Questa questione metodologica si presta ad essere sviluppata man mano che se ne presenterà l’occasione. Qui invece mi limito a fornire qualche indicazione tecnica più precisa sul mio lavoro di campo.

Alloggio e durata.

Come già detto, il mio lavoro si è incentrato sulla medina, cioè la parte antica della città di Fez. Qui ho abitato, in una casa presa in afGitto da una coppia locale, Michela (italiana residente in Marocco da qualche anno) e Moḥammed. La casa è solitamente in afGitto sulla piattaforma web di sharing economy di Airbnb, dunque consisteva del primo piano, dove abitavo io, e di un secondo spesso occupato da turisti. La terrazza in comune e la disponibilità a coadiuvare i miei ospiti e quelli di altre case mi ha permesso di incontrare molti visitatori internazionali, e di arricchire così il mio punto di vista sulla città. Il mio soggiorno non è andato oltre i tre mesi: dal 14 novembre 2016 al 20

febbraio 2017, con un’interruzione di una settimana all’inizio di febbraio, in cui ho dovuto tornare in Italia.

Lingue utilizzate.

La questione linguistica nel mondo arabo è tanto una chimera quanto un motivo di vanto, segnata com’è da una complessità difGicile da inquadrare, e nel maġreb la situazione è ancora più complessa, tanto che Fouad Laroui deGinisce quello marocchino un “drame linguistique” (Laroui 2011). In Marocco, come in molti degli stati con l’arabo come lingua ufGiciale, è presente un doppio fenomeno linguistico: la diglossia e il bilinguismo. La diglossia si articola fra la variante alta, il MSA (Modern Standard Arabic), cioè la lingua di el-Ǧazīra, per intenderci, parlata dai media e, con delle variazioni, nell’ambito religioso ; e la variante bassa, cioè la dāriǧa, il dialetto propriamente 18

marocchino . Fra queste varianti, poi, si pone un continuum socio-linguisticamente 19

denso, di cui è difGicile dare conto qui. Il bilinguismo invece si articola fra arabo (inteso nelle due varianti) e le ex lingue coloniali presenti sul territorio nazionale: lo spagnolo, nel nord del paese, e per il resto la lingua francese, entrata ufGicialmente nel paese nel 1912 e mai deGinitivamente uscita, ancora lingua di insegnamento a scuola insieme all’arabo Standard. Certamente, negli ultimi decenni sono all’opera mutamenti importanti nell’istruzione marocchina, e il bilinguismo di una generazione è molto diverso rispetto a quella dopo. Tuttavia, il francese è ancora una lingua molto presente nella vita della nazione. Inoltre, per una percentuale di marocchini molto difGicile da stimare , vi è una terza lingua da tenere in conto: il berbero/ tamaziġt, anch’esso diviso 20

C’è una distinzione importante fra MSA e arabo deGinito classico (coranico e letterario), anche 18

se entrambe le varianti possono essere poste nella parte alta del continuum linguistico.

Quando si parla di dāriǧa, che signiGica appunto dialetto, “lingua che circola”, ci si riferisce 19

solitamente al dialetto marocchino, che tuttavia è la variante più occidentale di una famiglia di dialetti che possiamo denominare come maġrebini, che vanno dal Marocco alla Libia. Ovviamente su queste questioni non vi è assoluto accordo in ambito linguistico, si veda Laroui 2011. Per ragioni politiche. I berberi lottano da decenni per il riconoscimento e l’insegnamento della 20 loro lingua a livello nazionale. Negli ultimi anni la loro condizione sta lentamente migliorando sotto questo punto di vista. Si veda Laroui 2011: 70-72

in almeno tre varianti. La piana del Sāys si pone fra il Rīf e l’Atlante, entrambi caratterizzati da una forte presenza berbera. Tuttavia nelle campagne di Fez, e soprattutto in città, nonostante la presenza di berberofoni, e considerando il fatto che la storia della città è stata profondamente segnata dall’elemento berbero, il tamaziġt rimane al massimo lingua familiare. Le lingue di lavoro di questa ricerca, dunque, sono fondamentalmente due. L’arabo viene qui inteso nelle due varianti: per la parte di 21

interazione attiva ho utilizzato fondamentalmente la dāriǧa, mentre per la parte di ascolto passivo, di media o anche di interviste con uno spiccato elemento religioso (citazioni coraniche, o innalzamento del livello linguistico a causa dell’argomento), ho utilizzato il MSA. Ogni volta che invece la situazione lo richiedeva ho utilizzato il francese, con una funzione di completamento e migliore esplicazione, e in alcuni casi di interazione di base.

Osservazione partecipante.

Le problematiche proposte all’inizio del paragrafo suggeriscono che, per poter fare etnograGia del paesaggio sonoro si debba in qualche misura affrancarsi da certi modi di intendere la stessa, per aprirsi a nuove tecniche più efGicaci e più consone a indagare questo elemento sensoriale. Basterebbe pensare che il termine “osservazione” implica di per sé il dominio della vista. Non è questo il momento, tuttavia, di analizzare in dettaglio questa problematica. I miei movimenti si sono focalizzati all’interno della medina, ma non solo: ho potuto esplorare altri quartieri popolari e soprattutto ho frequentato amici e conoscenti nel centro della Ville Nouvelle e all’università Sidi Mohamed ben Abdallah. Nella medina, le mie giornate prevedevano un passaggio Gisso di almeno qualche ora al

sūq el-Ḥenna, uno dei mercati centrali, e soprattutto una certa erranza divenuta

consueta per le stradine labirintiche e i negozietti di amici e conoscenti, per un tè, una merenda o qualche chiacchiera. In generale, mi è parso che il mio grado di penetrazione nel tessuto locale fosse buono, e ne ho avuto alcuni riscontri. Il periodo di tempo troppo Le mie competenze linguistiche provengono dalla laurea triennale in arabo ed ebraico, presso 21 il Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea, e poi dal master MIM, grazie al quale ho trascorso tre mesi a Meknès, seguendo un corso di dialetto marocchino.

breve, tuttavia, ha impedito di raggiungere risultati pienamente soddisfacenti sotto questo punto di vista. Interviste. I colloqui e le interviste che sono riuscito a registrare sono di natura diversiGicata. Da una parte, nel contesto del sūq el-Ḥenna si è venuta a creare un’atmosfera per la quale mi sono sentito libero di registrare molti colloqui spesso spontanei, per la maggior parte aventi come focus la questione islamica, e non tanto la città in sé. Ho registrato colloqui con Moḥammed, di 56 anni- marito di Michela, che ha un piccolo negozio nel Sūq- e i suoi due nipoti Yūnes, di 36 anni e Karīm, di 26 anni, anch’essi commercianti, e in molte registrazioni ci sono le voci di passaggio di altri del mercato, che intervenivano brevemente e se ne andavano. Con Karīm soprattutto ho potuto discorrere più lungamente di molti temi che emergevano lungo il campo. Ho deciso di registrare le sue parole per una ragione particolare: oltre alla buona relazione che si è creata, mi sono parse le più rappresentative di quelle che sentivo, poiché la sua visione abbracciava molti degli aspetti che sentivo da più parti. Tramite queste conoscenze sono stato accolto dall’intera famiglia, conoscendo quasi tutti gli otto fratelli di Mohamed. ‛Ā’iša, sua sorella e madre di Karīm, è stata l’unica donna che mi è stato possibile intervistare all’interno della medina. Con lei abbiamo imbastito dei colloqui brevi, ma intensi, più in generale sulla città. Ugualmente, sempre partendo dall’islām e poi spaziando sulla città, ho potuto intervistare altre due persone. Ǧamāl, di 23 anni, conosciuto a una serata di preghiera ṣū`ī e da lì frequentato assiduamente; e Ḥasan, di 49 anni, un sarto che aveva la bottega nella via in cui abitavo e con cui ho trascorso molto tempo. InGine, mi sono avvalso dell’esperienza di un professore esperto di storia marocchina, ‛Azz el-Dīn, per delle visite guidate sulla storia e sulla struttura Gisica della medina. Tutte le interviste, almeno nella loro intenzione, tranne pochi dei colloqui condotti al sūq in maniera più mirata, si sono strutturati come racconti, conversazioni libere, con l’obiettivo chiaro di far emergere l’esperienza, in questo caso sonora, delle persone.

Ero partito con l’idea di condurre delle interviste itineranti, per poter vagliare i suoni della città nel movimento: è ciò che Schafer chiama sound walk o listening walk, facendo una leggera distinzione fra le due . Tuttavia, la situazione attuale della medina mi ha 22 reso molto difGicile questo tipo di esperimento: il maḫzen, la polizia, qui si occupa soprattutto di gestire l’interazione fra turisti e locali, e nel suo lavoro è diventata eccellente. Questo comporta che, chiunque non abbia il permesso da guida turistica o di un hotel e venga visto con un turista, intento a fargli conoscere la città, sia arrestato seduta stante. Questa malaugurata condizione mi ha impedito di fare le passeggiate che intendevo fare con i miei interlocutori, poiché non c’erano le basi di fattibilità: ogni spostamento insieme era di natura esclusivamente strumentale, per visitare qualcuno o comprare qualcosa, spesso di fretta e con l’ansia della polizia alle calcagna.

Registrazioni.

In una tesi sul paesaggio sonoro non possono mancare delle registrazioni. Il mio registratore (distinto ovviamente da quello utilizzato per i colloqui) è un Tascam DR-40, un semplice compatto con due microfoni a condensatore regolabili su due posizioni, con 4 tracce e possibilità di separazione dei canali, che arriva Gino a 96khz/24-bit di registrazione. L’apparecchio è stato pensato per registrare in interno ed esterno soprattutto della musica in acustico, e non per le registrazione ambientali che io ho provato a fare. Da una parte, tuttavia, l’apparecchiatura richiesta per un prodotto di qualità in questo senso supera di molto il mio budget. Dall’altra, inoltre, c’è una ragione più importante: il mio lavoro non si è focalizzato tanto sulla produzione di un “paesaggio sonoro” della medina di Fez, cioè una serie di registrazioni possibilmente basate su una mappatura precisa che dessero conto della frequenza spazio-temporale e dell’ampiezza di alcuni suoni rispetto ad altri. In altre parole, il mio obiettivo non è mai stato riprodurre il paesaggio sonoro della medina, ma studiarlo soprattutto dal punto di vista etnograGico. Dunque la registrazione è stato uno dei mezzi di cui mi sono avvalso, per nulla obiettivo. Per questo, ho spesso registrato con il registratore non posizionato, ma

Si veda Schafer 1994: 212-213. 22

vicino a me, alla mia altezza e alla mia condizione di rilevamento. Il materiale registrato è difGicile da classiGicare: si tratta di una novantina di Gile (6 GigaByte in tutto) per un totale di più di 30 ore di registrazione, fra registrazioni di passeggiate e Gisse, prese da eventi musicali organizzati o improvvisati, Gino ai più minuscoli suoni della vita quotidiana. Mi avvarrò di questo prezioso strumento con molta libertà, soprattutto per il suo potere evocativo, utilizzandolo quando serve e lasciandolo da parte quando inutile.

Fatte queste premesse storiche, teoriche e metodologiche, è giunto ora il momento di entrare nel vivo della tesi e della città di Fez.

Capitolo 2