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Capitolo 2 Dio è grande

4. Verso l’incontro con Dio.

I prossimi paragraGi cercheranno di arricchire il quadro del paesaggio sonoro prettamente islamico della città. Interlocutore privilegiato resterà Ḥasan, per la ricchezza dei suoi contributi, anche se avremo modo di incontrarne altri. Egli stesso, d’altronde, mi ha lentamente introdotto a questi temi:

L’uomo deve conoscere Dio onnipotente, cioè provare ad avvicinarsi alla sua conoscenza. Chi è questo Dio, chi è? È lui che mi ha creato, che fa andare avanti questo mondo? Dobbiamo conoscerlo! Dobbiamo avvicinarci a lui! Anche se non l’ho visto con i miei occhi, ci sono i segnali che portano a lui . 21

Ḥasan, secondo colloquio (p. 212). 21

Questo è l’ingresso, dunque, del complesso campo minato in cui il credente prova ad avvicinarsi a Dio. Temendo di porre domande dirette riguardo all’elemento sonoro , 22

proprio su questa conoscenza di Dio vertevano le mie interviste sulla sfera religiosa, spesso impostate sull’asse portante accennato da Ḥasan: «come incontri Dio nella tua esperienza di fede?». Sono molte le pratiche da analizzare, ma due risultano, per importanza quotidiana, precipue: la preghiera e l’ascolto del Corano, le altre ne discendono. Esse hanno rapporto complesso, che bisogna analizzare. Tuttavia Ḥasan è riuscito a sempliGicarlo in questo modo: Si dice: se vuoi parlare con Dio, degno di lode e altissimo, cosa fai? Preghi. Eh, certo. Fai le abluzioni, ti rivolgi a Dio e ci parli, direttamente. E se vuoi che Dio parli con te? Cosa fai? Leggi il Corano, è la parola di Dio. Ascolti i discorsi: «O voi che credete», «oh voi» eccetera… 23 Per quanto sarebbe più corretto partire dal Corano che costituisce l’iniziativa di Dio e che ha quindi il primato assoluto nelle cose della fede, esso sarà affrontato meglio nel prossimo capitolo. Qui invece è preferibile seguire la naturale conseguenza dell’adān, che è la preghiera. Essa è dunque l’invito a sostare nella Beit Allāh, la casa di Dio, per poter parlare con lui, per potergli rivolgere la parola . 24

Prima della parola, tuttavia, c’è innanzitutto un movimento, un andare. Si è chiamati a interrompere ciò che si stava facendo, persi nelle innumerevoli micro-attività quotidiane, e a dirigersi verso la moschea più vicina. Si chiudono le botteghe degli

In tema di percezione, e non solo, può essere controproducente porre domande troppo dirette 22

riguardo al campo che si vuole sondare, rischiando di bloccare l’interlocutore su temi per lui troppo astratti, o ricevere risposte banali e riassuntive, senza innescare la “macchina della narrazione”. Ne parla già Malinowski nella famosa introduzione ad “Argonauti del PaciGico Occidentale”, su temi più “concreti” come la punizione di un reato (Malinowski 2010:22). Come è ovvio, in questa mia prima esperienza di campo gli errori di questo tipo non sono certo mancati. Sulla questione si vedano anche Ligi 2002; Piasere 2009. Ḥasan, secondo colloquio (p. 219). 23 Per gli aspetti tecnici evocati nei prossimi paragraGi riguardo alla preghiera faccio riferimento 24 alla voce “Ṣalāt” (redatta da G. Monnot), in AA.VV., Encyclopédie de l’islām, Leida, Brill, 1991, Vol. 8, pp 956-967.

artigiani, i negozi e le bancarelle, e ci si incammina. In alcuni tratti della medina, più appartati e silenziosi, si ha l’impressione di essere in un grande monastero benedettino, in cui l’imperativo ora et labora viene perfettamente messo in pratica. In altri più centrali, invece, sono il brulichio e il frastuono a farla da padroni. Il rapporto fra il pulviscolo di suoni che creano le innumerevoli pratiche quotidiane e i suoni che crea invece la preghiera nelle moschee è molto interessante, e stiamo per esplorarlo. Spesso mentre ancora risuona da direzioni imprecisate l’urlo d’invito, sostando su quell’ “Allāh-

u Akbar“ di cui ci siamo già occupati, gli uomini raggiungono la porta della moschea,

superano la soglia togliendosi le ciabatte o le scarpe, ed entrano calpestando i tappeti che dappertutto coprono i pavimenti. L’imām, davanti a tutti, è solitamente fra i primi ad entrare, ed attende che dietro di lui si formi una piccola accolita. Gli uomini si dispongono in righe parallele, sempre ben ordinate, spalla contro spalla, con le mani raccolte appoggiate all’altezza del diaframma o sul petto . Si aspetta ancora un attimo, 25

mentre ancora le ultime grida che proclamano la grandezza di Dio si perdono in lontananza. Poi, come a incastonarsi proprio in queste ultime, la voce profonda dell’imām rompe gli indugi e proclama, ancora una volta, per l’ennesima volta: “Allāh-u

Akbar!”, e a lui fanno eco in coro, una frazione di secondo dopo, le voci basse degli

uomini dietro di lui. Con le facce assorte e gli occhi bassi, contemporaneamente alzano le mani aperte all’altezza delle orecchie, a concentrare l’attenzione su ciò che sta davanti a loro. Questo gesto si chiama Takbīrat el-Iḥrām, cioè l’ “Allāh-u Akbar” che isola quel momento rendendolo sacro, e senza di esso non c’è preghiera.

Come abbiamo già notato, la preghiera rituale (ṣalāt) è uno dei cinque pilastri tradizionali dell’islām. Essa è dunque obbligatoria per tutti i musulmani, un precetto (farḍ) che non si dovrebbe trasgredire. Il condizionale è d’obbligo, poiché nella pratica, anche nella piccola e raccolta realtà della medina, è facile notare come molti facciano fatica a rispettarne gli orari o in generale a prendersi questo impegno anche solo una volta al giorno con regolarità. Questa realtà, che nessuno ha mai cercato di negarmi, è

«Il tenersi allineati è una delle bellezze della preghiera», dice un detto del Profeta riferito dal 25

perlopiù presa con molta GilosoGia e Glessibilità. Quando mi è capitato di parlarne, mi è sempre stato risposto: “Dio guida chi vuole”, massima coranica che è facile sentire ritornare nei discorsi del senso comune sulla moralità pubblica. La risoluzione di diventare buoni musulmani e buoni credenti è dunque lasciata al singolo, nell’attesa che maturi e torni sulla retta via . Intanto, è possibile consigliarlo , senza insistenza. 26 27

Sarebbe interessante occuparsi dell’iniziazione e dell’educazione islamica in questo senso, ma sarebbe come uscire dal solco preGissato. È importante però sottolineare che, Gin da piccoli i bambini sono invitati in maniera molto benevola a partecipare alla preghiera. Interessante, per esempio, è in merito l’opinione di Aḥmed. Lunga barba da integralista, appartenente alla corrente dei salaGiti, due mogli entrambe velate con il

burqa, Aḥmed è una delle persone più cordiali e simpatiche che mi sia capitato di

incontrare nella medina. L’ho conosciuto la primissima mattina che passavo a Fez: mi sono fermato nel suo negozio a prendere un succo per colazione, e da lì abbiamo coltivato un buon rapporto, anche di interlocuzione su questioni importanti. Egli mi spiegava, una mattina, che «la preghiera va insegnata a sette anni (anche se prima i bambini ti imitano, per gioco) e a dieci bisogna cominciare a ḍarb-ha, a inculcarla. Mai picchiare, ma sempre trovare un modo. Tipo: “hai pregato il ẓohr? Guarda che te le do!”, oppure cominciando a dare premi» . Al di là dell’età esatta per cominciare a insegnare 28 o a pretendere la preghiera dai bambini, ho trovato molto interessante lo spirito con cui si collocano i bambini nell’ambito di una cosa così seria come la preghiera: l’imitazione, dunque il gioco. La loro presenza nelle moschee non sembra rappresentare un ostacolo per la preghiera, anzi viene vista in una bella luce. È più facile, ovviamente, osservare questo tipo di cose non tanto durante la settimana, in cui la preghiera viene frequentata La hūda, concetto centrale nel Corano ed epiteto del testo sacro stesso. Si veda l’incipit della 26 sura della Vacca: «Questo è il Libro scevro di dubbi dato come guida (hūda) per i timorati di Dio» (Sura 2: 2). Se «Dio guida chi vuole», è però vero che i credenti possono consigliarsi reciprocamente. È il 27 tanāsuḥ, traducibile con “correzione fraterna” in italiano, che secondo alcuni miei interlocutori

«è tutto. Tanta gente è stata portata sulla retta via da persona inviate, che senza giudicarli li hanno consigliati bene, dal cuore» (dagli appunti di una conversazione al sūq el-Ḥenna, diario di campo, 9 febbraio 2017.

Dalla conversazione di cui ho preso nota nel diario di campo, 1 dicembre 2016. 28

soprattutto dagli uomini, ma piuttosto il venerdì, lo yawm dīnī, il giorno di festa dei musulmani, in cui alla preghiera del ẓohr si aggiunge la ǧum‛a, l’assemblea di tutti i fedeli, che devono interrompere il lavoro per dedicarsi totalmente alla preghiera e all’ascolto della ḫuṭba, la predica settimanale. Un venerdì ho accompagnato in moschea un altro Aḥmed, amico conosciuto al sūq el-Ḥenna, dopo essere andati alle terme di Moulay Ya‛qūb, poco lontano dalla città. Eravamo alla periferia della Ville Nouvelle, in un quartiere di nuova costruzione chiamato Marǧān. La moschea era piccola e già stracolma, e la gente si era ammassata fuori, su una distesa di tappeti stesi sul prato, mentre degli altoparlanti ampliGicavano alla buona la voce del predicatore. Ciò che mi colpì fu soprattutto la presenza di questi bambini, vestiti come gli adulti, con una lunga tunica bianca come i ragazzi. Si portavano come i loro genitori il tappetino della preghiera piegato sulle spalle, entravano nella folla, chiedendo permesso e mettendosi vicino al loro papà e verso la metà della preghiera, lanciandosi un’occhiata divertita, balzavano in piedi a giocare fuori dal mucchio, passando tra i piedi e le teste delle righe ordinate degli uomini oranti. Per i bambini è un gioco divertente e da imitare, una serie di movimenti da fare con la serietà e la convinzione di una recita, che lentamente li avvicina alle cose di Dio . 29

Ma se per i bambini è un gioco, la ṣalāt è cosa estremamente seria per gli adulti, ed è bene qui esplorarne brevemente i gesti e le parole, per essere sicuri di comprendere il signiGicato ad un livello più profondo. Come è possibile cogliere masticando un po’ di arabo e osservando da vicino i movimenti della ṣalāt, parole e gesti sono indissolubilmente legati in questa forma codiGicata di adorazione, tanto che per ogni frase c’è un movimento, e viceversa. È facile, anche per un occhio occidentale lontano dalle cose dell’islām, rievocare i gesti facilmente esportabili delle fotograGie maestose di fedeli in lunghe righe, in piedi o prostrati, alla Mecca o in qualche grande moschea. Ma in queste pagine è necessario guardare questa pratica da più vicino.

Diario di campo, 9 dicembre 2016. 29