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Gli innumerevoli suoni: il rumore e il silenzio.

Le voci della città

1. Gli innumerevoli suoni: il rumore e il silenzio.

Provare a descrivere, seduto a una scrivania ormai lontana da quella casa in cui ho vissuto per tre lunghi mesi, la pungente molteplicità di suoni che si accumulano all’orecchio di chi decide di conoscere quest’antica città, è impresa disperata, destinata a fallire . Si fatica a descrivere l’esperienza estemporanea di un paesaggio sonoro, o di una 3

musica, forse per povertà di vocabolario. Si ha l’impressione di girare sempre intorno agli stessi termini, senza riuscire a intercettare la realtà. Questa è una delle ossessioni che mi hanno accompagnato nei miei tre mesi invernali, insieme all’islām e al freddo impossibile da scacciare in una casa dai sofGitti alti e senza riscaldamenti. Come si può dar conto dell’intreccio singolare di suoni e rumori che compone ogni scena e ogni momento vissuto in un luogo?

Come evocato già nel primo capitolo, la notte a Fez è silenziosa: tutte la sere, Gin dalla primissima, salivo sulla terrazza di casa, affacciata sul pendio che volge verso il centro della medina, dove troneggia il minareto del mausoleo di Mūlāy Driss. Assaporavo quel silenzio quasi epico: così profondo da rendere percettibile qualsiasi movimento o avvenimento. Dopo il tramonto, si avvertiva ogni colpo di tosse proveniente dalla strada, tre piani più giù. Ogni risata dei bambini che stavano fuori a giocare, oppure a prendersi in giro. Qualsiasi persona stesse parlando al telefono in maniera calma o concitata. Ma anche i cani randagi fuori dalle mura della città, il Gischio solitario di un uccello in lontananza e, da qualche anno, anche le macchine, dalla strada che gira tutt’intorno alla medina. Più volte Michela, moglie di Sī Moḥammed, mi ha assicurato che Gino a cinque anni fa, quando si è trasferita qui, la notte non si sentivano neanche quelle. Ma ad essere silenziosa e calma, a Fez, non è solo la notte. Anche di giorno, ad ogni ora, salendo in terrazza, c’è una calma che quasi stupisce. Certo, per l’altezza e la distanza. Ma le case non sono mai più alte di due o tre piani, e dunque non è questo il punto. Bisogna

È la conclusione a cui giunge la riGlessione semiotica di Roland Barthes su questi temi: egli 3

afferma, infatti, che cercare di rappresentare a parole l’esperienza sonora, e soprattutto musicale, è un’impresa disperata. Si veda Bull, Back 2008: 19.

semplicemente sapere dove cercare i rumori. Se li si cerca, infatti, cominciando dalle zone più periferiche della medina, se ne troverà solo di un certo tipo. Queste zone, dove le stradine sono molto strette e ramiGicate, sono in effetti composte esclusivamente da case. Le porte, alcune antiche di legno, altre di metallo pesante, che danno sulle strade, conducono esclusivamente alle abitazioni. Eccezion fatta di alcuni negozi di generi alimentari e cianfrusaglie, e qualche sparuta bottega artigianale di sarti, falegnami, tessitori o al massimo ciabattini, non c’è nient’altro che case. Qui, a seconda del momento della giornata, la calma regna sovrana, e le fonti di rumore sono piccole gocce d’acqua, che non turbano mai la quiete: le mamme che passano con i bambini in braccio, o i passetti concitati dei bambini più grandi con le cartelle, la mattina prima di andare a scuola; oppure le urla e le risate dei ragazzi che si rincorrono all’uscita, tirandosi gli zaini, facendosi i dispetti e poi scomparendo alla prima curva, o dietro una porta; la musica ša‛bī o dance che emana dai cellulari degli adolescenti; le chiacchiere di due uomini che passano lentamente. Tutto questo si perde, si assorbe nella quiete.

Io ho abitato in una zona del genere, e le mie Ginestre assolutamente non isolate si affacciavano proprio su una strada di questo tipo. Per questo, il silenzio diventava un ampliGicatore. Le prime notti è stato difGicile abituarsi: sobbalzavo ad ogni minimo rumore. La primissima notte, dei ragazzi del quartiere hanno litigato, da quel poco che capivo ho evinto che uno voleva ammazzare l’altro: mi hanno svegliato regalandomi un’angoscia notturna profonda. Tutte le sere, addormentarmi era un’impresa: sentivo tutto. Non c’era modo di attutire i suoni, impedirgli di entrare non era contemplato. Ho appreso col tempo che nei grandi riyāḍ della medina- gli storici palazzi nobiliari- vivono perlopiù in due, tre o più famiglie: pur non potendo indagare anche questo elemento, che mi pareva molto interessante, ho preso la mia convivenza coi i suoni esterni come un esercizio. Ho registrato Gin da subito lunghi “pericopi” di giornata, dalla mia Ginestra: ascoltarli ora, da lontano, provoca l’effetto desiderato, straniante e allo stesso tempo “approssimante”. Tutto è così chiaro, e così impossibile da raccontare. Il mio fedele registratore, anche se utilizzato maldestramente, mi esplicita i particolari che dimorano

impliciti in me. La vita di Derb el-Rūm è ormai depositata nella mia memoria uditiva, oltre che sensoriale in senso ampio, poiché la ascoltavo appena sveglio, oppure ancora sveglio prima di addormentarmi. Gli zoccoli dell’asino che passavano sui ciottoli traballanti, lo sballottare delle otto bombole di gas legate sulla sua groppa, il suo padrone che esclama secco: «Rā’!», espressione riservata alle bestie da soma, e «Zīd!», «Vai avanti, continua!». Rā-Zīd era la mia sveglia, vicina quanto il cuscino, quanto la giugulare. La seconda sveglia, nel caso mi fossi riaddormentato, era l’uomo che portava il carretto del latte. Dalla campagna, tutte le mattine arrivava a piedi con il suo carretto che trascinava a mano, con dentro quattro taniche di plastica, colme di latte fresco. Devo averlo visto solo una volta, non me ne ricordo il volto; la sua voce acuta e stonata, invece, dimora nelle mie orecchie. «Ḥlīb!», «Latte!», urlava più volte. Si fermava ad aspettare qualche minuto, il tempo che le persone dei dintorni si vestissero per scendere a comprare il latte fresco. Insieme a queste due voci, compagne inseparabili, ci sono in queste zone più “residenziali” un’inGinità di altri carretti, che raccolgono materiale di scarto o vendono cianfrusaglie, annunciandosi con vari richiami e jingles sempre uguali, per farsi riconoscere. Qui, però, per tutta la durata del giorno e della notte, qualsiasi rumore è preceduto e seguito da un silenzio di fondo, che riassorbe immancabilmente ogni suono.

La percezione sonora comincia a cambiare quando dalle zone residenziali si scende verso le zone più centrali della medina, più popolate, più gremite. Due sono le grandi tipologie di luogo a cui vorrei accennare brevemente. La prima è il sūq, il mercato: tutta la parte centrale della città è in realtà intesa come un grosso mercato a cielo aperto. Lo dimostra il fatto che intere vie o piccoli quartieri sono ancora chiamati con il nome attribuito loro in passato: “sūq el-Aṭṭārīn”, il mercato degli spezieri; “sūq el-‛Ašābīn”, il mercato degli erboristi; “sūq el-Šamma‛īn”, il mercato dei candelieri…Nonostante ormai quasi nessuno di questi antichi sūq sia più utilizzato per lo scopo indicato nel nome, ciò che accomuna tutte queste zone è che sono perlopiù rimaste a uso commerciale. Ci sono, per esempio, le due grandi “salite”- si chiamano così, ṭāla‛a, anche se ovviamente sono

anche discese qualora le si percorra in senso opposto- che collegano Bāb Buǧlūd, la grande porta blu da cui i turisti entrano in medina- Gino al centro della città. Si tratta di due grandi vie commerciali adibite soprattutto alla vendita di prodotti turistici: tappeti, cosmetici, borse, gioielli, spezie, souvenir e maroquineries di ogni sorta, oltre ovviamente a piccole spezierie e tabaccherie, negozi di dolci, rivenditori di succhi spremuti al momento o di sandwich fast food. Scendendo e arrivando nel vivo della città, i negozi di souvenir aumentano, vicino ai monumenti, principali mete dei turisti. Ma allo stesso tempo l’artiGiciosità di queste due vie di stampo più turistico diminuisce, Gino a incontrare un commercio più quotidiano: l’antica via degli spezieri è ormai sede di innumerevoli negozietti di articoli elettronici; l’antico mercato degli erboristi è occupato da bancarelle e banchetti di frutta e verdura, olive, carne, ma anche da ristorantini ša‛bī, popolari, per la pausa pranzo di tutti coloro che lavorano lì intorno. Tutti questi mercati, composti di varissime tipologie, si affacciano in genere sulle vie principali, quelle di passaggio, adatte alla bottega per la vendita. Ma tutt’intorno a queste vie/mercato si distribuiscono una serie di botteghe dedicate invece all’artigianato, cioè in larga parte alla produzione dei manufatti poi venduti per la medina. In piccole stanze singole, oppure raggruppate in interi ediGici, vecchi fundūq, caravanserragli per mercanti di passaggio, o vecchie qissarīa, cioè veri e propri atelier di vendita, si sviluppa un artigianato Giorente che ruota attorno alla conceria, alla sartoria, alla lavorazione del rame e del ferro, alla pasticceria, alla falegnameria e a molto altro.

Si evince da questo breve ritratto che la zona centrale della città è anche quella più densamente vissuta e popolata durante il giorno, poiché qui si avvicendano le maggiori micro-attività quotidiane della medina. Si capisce allora che, camminando dalle zone residenziali, dove i suoni sono più rari, verso questa direzione, l’orecchio incontri anche una maggiore densità di rumori. Si tratta innanzitutto di quei rumori che produce ogni uomo anche non indaffarato: colpi di tosse, piccoli movimenti, voci che parlano fra loro, a volte mormorando a volte a voce alta, per chiamarsi da lontano. Queste sono zone molto trafGicate, e dove c’è trafGico ecco anche il frastuono dei passi affrettati sui ciottoli,

il peso degli asini e dei muli che trasportano da una parte all’altra della città la mercanzia, i portantini che urlano «‛Endak! Balek!», «attenzione!». Il trafGico viene poi condito dagli acquisti, dalle contrattazioni, dai saluti, dalle liti e dalle discussioni. Ogni negoziante e ogni artigiano tiene la radio o la televisione accesi dalla mattina presto in poi, Gino alla sera: le voci dei conduttori televisivi si mischiano a quelle della musica di ogni tipo, i jingles delle pubblicità incontrano la voce profonda dell’intervistato o dell’opinionista di turno. Il tutto in varie lingue: l’arabo classico di el-Ǧazīra si fonde con il dialetto della radio e delle soap-opera, e per le strade il dialetto della musica popolare e del rap si confonde con l’inglese e il francese parlato dalle guide in ǧellaba bianca e con il fez rosso, seguite a fatica nella folla dalla comitiva che chiacchiera in varie lingue europee, o addirittura in cinese. Quando ci si avvicina ai quartieri più artigianali, per così dire, si comincia a percepire il suono dei vari mestieri: lo sciabordio delle pelli delle concerie estratte e rigettate nelle loro piscine colorate; il regolare e più macchinoso mormorare della macchine da cucire, o anche dei telai in alcune ofGicine più grandi; il battere regolare e musicale dei martelli e delle punte dei ramai sul piatto o sul vassoio che stanno incidendo. A questo bisogna aggiungere tutti i suoni di stampo più religioso affrontati di volta in volta nei capitoli precedenti: il richiamo alla preghiera, il Corano in tutte le sue forme, la preghiera e il suo canto… Dovunque ci si inGili, un mare di suoni aggredisce l’orecchio del visitatore senza nessuna pietà. Il risultato è un rumore di fondo, un trambusto costante, un frastuono percepibile per tutto il giorno.

In realtà, questo frastuono/trambusto non è dappertutto: la calma riesce a regnare sovrana anche in queste zone, non appena ci si sottrae alla Gitta densità sonora. Il sūq el-

Ḥenna, per esempio, di cui ho già parlato più volte, è proprio dietro l’antica via degli

spezieri, zeppa e trafGicata a tutte le ore del giorno. Eppure, per la maggior parte del tempo il suo silenzio è rotto solo dal canto degli uccelli sui rami dei due grossi tigli che ne occupano il centro. Così è anche per molte altre zone, distribuite qua e là a macchie anche nel cuore di questa zona centrale più rumorosa: appena si esce dal trambusto, ecco il silenzio più assoluto. Le due zone- residenziale e commerciale, se così vogliamo

schematizzarle- non sono dunque isolate, ma si compenetrano. L’ultima nota, doverosa, riguarda l’assenza assoluta di macchine: le stradine della medina l’hanno protetta dall’invasione dei motori. A oggi, soltanto qualche motorino, sporadico, ne turba la quiete: le automobili sono conGinate fuori, in quell’anello che di notte ne costituisce il sottofondo lontano, e di giorno neanche si percepisce.

Questo breve quadro generale vorrebbe mostrare che a Fez sussiste un gioco di successione costante fra calma e rumore- il che d’altronde costituisce un tratto fondamentale di ogni città, in misure diverse. Nonostante questo, nei secoli, i viaggiatori e gli esploratori coloniali che hanno visitato Fez, così come spesso le altre città del Medio Oriente, hanno teso a raccontarne un solo tratto, isolandolo dal resto, mettendolo in risalto. La medina, la città islamica, è sempre stata descritta, nella letteratura coloniale, tramite l’essenzializzazione del tratto che colpiva di più: il suo disordine, il suo trambusto.