Le voci della città
3. I limiti della sempliCicazione
La questione che mi preme qui è, come si sta delineando, quella di ridurre la complessità incontrata nella medina di Fez, per cercare un modello semplice in cui comprenderla, a fronte della incomprensibilità- cioè il caos- che invece essa offre come suo primo volto al visitatore. Questa domanda di ricerca, tuttavia, rischia di essere mal posta: come è emerso dal paragrafo precedente, in questo campo bisogna fare attenzione a non cadere nelle trappole che ci consegna la tradizione teorica. Ho già detto come, per esempio, il rumore non sia l’assoluto protagonista della medina, ma che la calma lo accompagna costantemente. È necessario, pertanto, rivedere su che base poggia il modello che si costruisce, su che strumenti metodologici si regge in piedi. Per fare questo, farò una breve deviazione rispetto alla questione della città, per fare un punto più metodologico.
L’espressione è ripresa dal sottotitolo dell’opera di Max Gluckman del 1964, Closed Systems and 5
Open Minds: the Limits of Naïvety in Social Anthropology, a cui ho fatto riferimento nel primo
capitolo e ora in queste pagine. Il lavoro in questione si occupa proprio dei problemi qui in analisi. Si veda Gluckman 1964.
In un suo recente lavoro, l’antropologo marocchino Hassan Rachik raccoglie in un libro coerente ed esaustivo le riGlessioni maturate negli anni di studio di antropologia del proprio paese, sempre condotta da altri, occidentali. Riesce così a imbastire una sorta di cronistoria critica delle idee che si sono succedute nell’ultimo secolo non tanto in Marocco, ma sul Marocco, create da parte soprattutto dell’antropologia . Egli non può, 6
dunque, prescindere dal lavoro etnograGico di uno dei maggiori antropologi del novecento: Clifford Geertz. Come è noto, infatti, Geertz ha svolto ricerche approfondite nella regione e nella città di Sefrou, a una trentina di chilometri da Fez, a partire dal 1964 e per tutto il decennio successivo. Nel 1968, egli pubblicò un fondamentale saggio di antropologia della religione comparata che mette in dialogo il suo studio dell’islām marocchino con il suo terreno precedente, in Indonesia. Coniugando questa «strana coppia», come la chiama lui stesso, cioè grosso modo i due conGini geograGici di quello che si è soliti chiamare il mondo musulmano, egli afferma di voler intraprendere una «macrosociologia comparativa e storica» fra le due realtà. Questo lavoro, pubblicato solo recentemente in Italia, si intitola Islam Observed. Le critiche che Rachik rivolge a questo saggio sono di fondamentale importanza per la problematica qui in esame. Il testo è costruito Gin dalle prime pagine sulla comparazione dei due “islām”, quello marocchino e quello indonesiano, e si sviluppa seguendo l’evoluzione storica e religiosa dei due paesi. Partendo dalla fase degli “stili classici”, ovvero le rispettive tradizioni nell’apogeo della loro tradizione, si rivolge poi ai mutamenti che esse hanno dovuto affrontare con il sopraggiungere della modernità, cioè quell’“interludio scritturalista”, caratterizzato dal ritorno ai testi, alle fonti, alle origini dell’islām, e che è stato protagonista della storia recente di tutti i paesi musulmani, in modi di volta in volta diversi. InGine, egli propone delle chiavi di lettura per interpretare i cambiamenti e le direzioni di sviluppo delle due realtà nell’oggi- ormai cinquant’anni fa. Anche in questo caso, dunque, come per il discorso sulla città islamica, l’ediGicio teorico è molto ampio e ambizioso.
Si veda Rachik 2012. 6
La critica di Rachik a questo ediGicio- che come fa notare Fabietti nella prefazione all’edizione italiana è «un testo brillante scritto da un altrettanto brillante autore» (in Geertz 2008: VII)- è a mio parere molto simile a quella fatta da Said per l’Orientalismo in generale e dalla Abu-Lughod per la città islamica in particolare. Cerca di vagliare le fonti, va alle fondamenta. Per questo, l’antropologo parte criticando la parte che Geertz, come già visto, chiama “gli stili classici”, e che regge dialetticamente tutto il resto. In questo capitolo (il secondo), infatti, Geertz imposta la comparazione fra le due realtà distinte prese in considerazione su un procedimento metodologico particolare: decide di assurgere a modello di ognuna delle due spiritualità una sola Gigura importante sul piano dell’autorità religiosa, scegliendola lungo la storia dei due paesi. Ecco i due ritratti schizzati sinteticamente da Rachik:
Il s’agit de deux Gigures religieuses. La première, Sunan Kalijaga, est un prince javanais du XVI siècle considéré comme un acteur de l’islamisation du pays. Il est le symbole du lien entre deux civilisations et deux grandes religions, le Java indianisé e le Java musulman. (…) La Gigure marocaine, Sidi Lahcen al-Youssi, est un savant (1631-1691) originaire d’une tribu berbère du Moyen-Atlas. Son époque, qui correspondait à l’essor de la dynastie alaouite, était caractérisée par l’instabilité politique, la prolifération de pouvoirs politiques guidés par des personnages religieux. D’après la légende, al-Youssi quitta son village à l’âge de douze ans, pour devenir d’abord un pèlerin, puis un rebelle avant d’être consacré saint (Rachik 2012: 199) . 7
Geertz, con mano sapiente, incardina queste due personalità storico-mitiche nella storia religiosa del loro paese- dell’Indonesia per Kalijaga, del Marocco per al-Youssi- associando le caratteristiche della loro Gigura al carattere generale dell’islām del loro paese. È un procedimento per «due uomini, due culture», come dice egli stesso (Geertz 2008: 36). In questo modo, come la formazione e la peculiarità mistica della storia di
Le traslitterazioni dall’arabo incontrate nei testi nelle varie lingue non coincidono, e stridono 7
anche con quella utilizzata in questa tesi. Per semplicità di lettura, per questi nomi userò la traslitterazione francese, cioè quella riportata in questo testo, con l’eccezione delle citazioni da altri testi.
Kalijaga si riassumono nel suo quietismo- il suo nome musulmano e la sua conversione gli vengono conferite dal suo maestro spirituale dopo che lo ha aspettato, seduto in riva ad un Giume, per degli anni e ha assunto lentamente l’adatta disposizione interiore- così in tutta la spiritualità islamica javanese si può ritrovare la stessa caratteristica. E d’altra parte come al-Youssi, per diventare un santo, ha innanzitutto avuto il coraggio di bere l’acqua fetida che colava dalla camicia sporca del suo maestro orrendamente malato, così anche tutta la spiritualità marocchina si basa su un contatto Gisico e sull’intensità morale (il concetto di baraka). Alla Gine del suo capitolo, con queste premesse- che purtroppo qui non possiamo analizzare più esaustivamente- Geertz può facilmente concludere che
ognuno dei nostri due popoli giunse a sviluppare una concezione caratteristica di ciò che è la vita, concezione che chiamarono islamica. Da parte indonesiana, l’interiorità, l’imperturbabilità, la pazienza, l’equilibrio, la sensibilità, l’estetismo, l’elitismo, e una quasi ossessiva obliterazione di sé, la dissoluzione radicale della individualità; da parte marocchina, l’attivismo, il fervore, l’impetuosità, l’audacia, la durezza, il moralismo, il populismo e una quasi ossessiva affermazione di sé, l’intensiGicazione radicale dell’individualità. Che si può dire se si confronta un quietista giavanese come Kalidjaga con uno zelota berbero come Lyusi, tranne che per quanto entrambi musulmani e mistici, sono certamente tipi di musulmani e mistici molto diversi? (Geertz 2008: 54).
È prevedibile, davanti alla divisione categorica che riesce a costruire Geertz, la critica che Rachik gli indirizza: sarebbe come parlare del cattolicesimo italiano solo a partire da San Francesco, o del cristianesimo ortodosso orientale riferendosi solo ai Racconti di un
pellegrino russo. La domanda che viene spontanea è ovviamente: e il resto?
«L’opposition qu’établit Geertz entre les deux Gigures est systématique. Elle évoque ce genre de dichotomies binaires qui sont si tranchées et si nettes qu’elles paraissent artiGicielles et suspectes» (Rachik 2012: 201). Le critiche all’impianto di Geertz, per un nativo, sono molte, e Rachik è molto puntuale nel cogliere le sue contraddizioni. Ne riporto solo alcune: innanzitutto se si prende in considerazione attentamente
l’agiograGia di al-Youssi si scopre che al fervore religioso e all’impetuosità corrispondono altrettanti periodi di calma, meditazione e rispetto per le istituzioni; inoltre il viaggio e la mobilità erano, nel Marocco del XVII secolo, più che una condizione generale un appannaggio di pochi studiosi; manca un’analisi delle fonti primarie in lingua araba, e Geertz evita anche quelle tradotte in lingua francese poiché, secondo Rachik, l’avrebbero portato fuori dal suo impianto teorico, così auto-evidente; inGine, l’antropologo cade in generalizzazioni banali, che passano da un fatto particolare a un tratto culturale generale, a distanza di secoli.
Ora, è ovvio che non ci interessa, in questa sede, capire quali siano le ragioni dell’uno e dell’altro. Peraltro, lo stesso Rachik si mostra meravigliato che sia proprio Geertz a cadere nella “trappola” della generalizzazione, da lui denunciata nel corso di tutto il libro, in cui sono inciampati quasi tutti gli antropologi che hanno avuto a che fare con il Marocco; quella cioè di cercare il «carattere» dei marocchini. Si tratta dello stesso autore che, cinque anni dopo questo saggio, pubblicherà Interpretation of cultures , atto Ginale 8 di un rovesciamento di paradigma rispetto alla visione per tratti funzionalista. In questo testo, d’altronde, possiamo leggerne delle già mature anticipazioni . Dice lui stesso, nella 9 premessa: L’opera dell’antropologo, qualunque possa essere il soggetto esplicito, è soprattutto l’espressione della sua esperienza di ricerca e, più precisamente, di ciò che la sua esperienza di ricerca ha operato in lui. Questo è certamente vero per me. Il lavoro sul campo è stato intellettualmente (e non solo intellettualmente) formativo, la sorgente non soltanto di ipotesi particolari, ma dell’insieme dei modelli di interpretazione sociale e culturale. La maggior parte di quanto sono riuscito a vedere (o che ho creduto di vedere) nel vasto arco della storia sociale l’ho visto (o ho Si veda Geertz 2007. 8 È nel primo capitolo di questo saggio il seguente passo, diventato celebre: «l’antropologo tende 9 sempre a volgersi verso il concreto, il particolare, il microscopico. Noi siamo i miniaturisti delle scienze sociali e dipingiamo su canovacci lillipuziani con quelle che crediamo pennellate delicate. Noi speriamo di trovare nel piccolo ciò che ci sfugge nel grande, di imbatterci in verità generali mentre consideriamo casi speciali» (Geertz 2008: 8).
creduto di vederlo) prima di tutto nei ristretti conGini di città di provincia e di villaggi di campagna (Geertz 2008: 2).
È proprio quest’ultimo accenno di Geertz alla ricerca come interpretazione basata sulla visione, questo suo mettere in dubbio, fra parentesi, ciò che si può vedere «nei ristretti conGini» della realtà scelta dall’antropologo, che mi consente di porre Ginalmente la questione che sottosta a tutto questo paragrafo. Senza entrare nello speciGico della discussione epistemologica e metodologica che il confronto tra i due testi qui evocati apre, ciò che mi interessa sottolineare è il carattere ottico, visuale dell’operazione di Geertz. Non è un caso, credo, che il saggio in questione si intitoli Islam
Observed. Mi pare che, anche qui come per la città islamica, il problema sollevato da
Rachik sia quello della sempliGicazione eccessiva, della generalizzazione che diventa trappola, illusione ottica appunto, come affermava la Abu-Lughod per la città islamica. Qual è allora, la principale caratteristica di questa visione ingannevole?