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Le voci della città

4. Seguire le voci della città.

In sé, in effetti, la generalizzazione attuata in questo caso da Geertz non è deduttiva, ma induttiva: parte dal concreto. Le sue considerazioni sui modelli generali si instaurano «prima di tutto nei ristretti conGini» della realtà. Il sospetto, dunque, che questi modelli esistano solo nella sua testa, e che lui cerchi tutti i modi di provarli nel concreto deve essere allontanato, almeno sul piano metodologico. Ciò nondimeno, credo si debba essere d’accordo con Rachik, il ragionamento ha una falla, non regge: i musulmani marocchini non sono tutti impetuosi, infervorati, duri e moralisti. Dove sta allora il punto? Io credo che il problema metodologico in questione non sia tanto la generalizzazione in sé, ma il voler esaurire, tramite essa, tutta la “verità” di un determinato oggetto di analisi. Pensare, cioè, che un aspetto particolare, se si dimostra valido sul piano generale, debba valere sempre per tutti gli aspetti del generale. In altre parole, è innegabile, mi si perdoni la sempliGicazione, che un marocchino appaia spesso

impetuoso e infervorato, oppure che il concetto di benedizione e presenza divina (baraka) in Marocco sia soprattutto Gisico. Questi, quindi, sono caratteri con cui tutti i marocchini in qualche modo si devono confrontare- ed è esattamente questo, credo, che Geertz intende in fondo con il termine “macrosociologia comparativa”, usato nella premessa. Ma ovviamente non tutti i marocchini sono infervorati, e non per tutti questo fattore agisce nella stessa misura. Come ha gioco facile nel dimostrare Rachik, non solo ovviamente ci sono marocchini molto calmi, ma si trovano facilmente nell’agiograGia tradizionale dei santi marocchini quietisti almeno quanto Kalijaga . Ciò che potrebbe 10

aver fatto cadere in trappola Geertz, allora, non è tanto un’illusione ottica, quanto piuttosto una “ossessione ottica”, cioè la volontà di far combaciare, come in un puzzle (o un mosaico?) tutti i pezzi particolari con il generale.

Questo tema mi pare fondamentale non soltanto perché questo capitolo sta trattando di complessità e di sempliGicazione, ma soprattutto perché questo è stato un punto centrale del mio campo. Quando Geertz afferma, infatti, nella citazione appena riportata, che «l'opera dell’antropologo (…) è soprattutto l’espressione della sua esperienza di ricerca e, più precisamente, di ciò che la sua esperienza di ricerca ha operato in lui. Questo è certamente vero per me» (Geertz 2008: 2), mi sento subito di esclamare: anche per me! Nonostante io non sia un antropologo se non in potenza, devo ricorrere a quanto questa breve ricerca di campo ha operato in me, per dare una risposta alla domanda che si pone questo paragrafo. È legato a queste questioni uno degli impatti più forti che la città di Fez ha avuto in me. Insieme, infatti, alla preoccupazione di come studiare e descrivere i suoni della città, è nata Gin da subito l’ansia di raccogliere, in questo lavoro, tutti i suoni della città. Questa sorta di ossessione mi aveva reso convinto che, fosse mancato qualcosa, la mia etnograGia sarebbe stata monca, parziale. È certamente così, in fondo: in queste pagine la medina di Fez è al massimo accennata, sicuramente non esaurita, e non può che essere così. Ma credo che l’ossessione che mi

Egli propone la Gigura di Mūlay Bū ‛Azza, santo fondamentale per la storia agiograGica 10

marocchina, che come Kalijaga inizia la sua vita mistica restando un anno intero immobile nei pressi di un lago. Si veda Rachik 2012: 207.

aveva colto fosse molto simile a quella che infastidisce Rachik: come si può, sapendo di non poter cogliere il tutto, parlare per il tutto? Anche la mia era sicuramente una “ossessione ottica”, poiché ottico è il suo fondamento sensoriale: voler cogliere tutti gli aspetti di una realtà in un solo schema interpretativo, perfettamente esauriente. Questo progetto, qualora si potesse attuare, avrebbe le fattezze robotiche e totalitarie di un Grande Fratello, alla George Orwell, piuttosto che quelle umane di un antropologo . Per 11

questo, com’era prevedibile, con questa ambizione in testa non potevo fare molta strada. Essa si traduceva nei miei giorni a Fez con un’agitazione e un’ansia che non mi permettevano di essere aperto alla città, e di conoscerla nel modo giusto. Se ogni esperienza vissuta sul campo è suscettibile di diventare una “diapositiva” etnograGica da inserire nel proprio quadro interpretativo , è pur vero che vivere ogni momento come 12

se fosse una tessera di un mosaico o di un puzzle, con l’ansia di completarlo e di vederlo tutto insieme, è perlomeno stressante. Questa mia ossessione ha raggiunto il picco in una giornata di inizio gennaio: l’impossibilità di cogliere il tutto della città, di dover tralasciare molte parti, ha coinciso per me con l’impossibilità di fare etnograGia. Sono entrato in crisi. Non sapendo più come muovermi, sono rimasto fermo per una settimana.

In realtà, per uscire dall’impasse, non dovevo fare altro che un’operazione semplice, prevista, di cui parla molto bene Max Gluckman, e a cui ho accennato nel primo capitolo. Egli la deGinisce “Circumscription”, quel procedimento che prevede il «dovere dell’astensione»:

When an anthropologist circumscribes his Gield, he cuts off a manageable Gield of reality from the total Glow of events, by putting boundaries round it both in terms of

Mi riferisco al celebre romanzo fantascientiGico 1984, in cui viene descritta una società 11

continuamente tenuta sotto controllo dall’occhio del Grande Fratello, l’immagine pubblica e privata dell’unico Partito al potere. Si veda Orwell 2009.

L’espressione è di Clifford Geertz, che la utilizza per descrivere lo stile narrativo di carattere 12

what is relevant to his problems and in terms of how and where he can apply his techniques of observation and analysis (Gluckman 1964: 162-163).

È ovvio, è esattamente quello che serve in ogni ricerca: ho dovuto imparare a tagliare meglio il campo d’azione, a focalizzare i miei obiettivi e le mie domande, porre dei conGini intorno ai problemi. Tuttavia, anche qui il lessico utilizzato è prettamente visivo: è tramite l’occhio e la scrittura che possiamo tracciare conGini intorno a problemi da noi immaginati e isolarli dal resto, astraendoli. Per quanto io abbia, a un certo punto, dovuto fare un’operazione di machete, tagliando fuori intere zone della città e interi problemi che percepivo, nel complesso non è così che sono uscito dalla crisi che mi ha colpito verso la metà del mio campo. Non è, per così dire, uno stile visivo che mi ha tratto fuori dalla trappola in cui ero caduto. La risposta è venuta da un libro che riposava sul mio tavolo da quando ero arrivato a Fez, ma che ho aperto solo in questo momento difGicile: Le voci di Marrakech, di Elias Canetti. Il libro, pubblicato nel 1964, è il diario di un viaggio fatto una decina d’anni prima, e raccoglie le impressioni dello scrittore in questa città dell’Oriente prossimo. Potremmo, in effetti, posizionare l’opera nel Gilone orientalistico: non sarebbe difGicile trovare i tratti che la accomunano a quella letteratura di viaggio incontrata in De Amicis, per esempio, o presente nelle opere raccolte e criticate da Said. Ma c’è un tratto che, invece, la pone in discontinuità con quella tradizione, ed è proprio quello che mi ha aiutato a rielaborare la mia crisi e a concludere il mio campo.

Come visto Gin qua, un carattere saliente della città mediorientale è il rumore, il disordine, la soverchiante molteplicità di stimoli che assalgono il visitatore. Canetti non può sottrarsi a questo bombardamento sensoriale. Lo dimostra il secondo capitolo del suo libro che, dopo un primo introduttivo e non ancora ambientato fra le mura della città, cala il lettore nella realtà brulicante di Marrakech:

C’è aroma, nei suk, e freschezza, e varietà di colori. L’odore, che è sempre piacevole, cambia a poco a poco secondo la natura delle merci. Non esistono nomi, né insegne, e neppure vetrine. Tutto ciò che si vende è in esposizione. (…) Qui c’è un bazar per le spezie e là uno per gli articoli in pelle. I cordai hanno il loro posto e così pure i cestai. Tra i mercanti di tappeti ce ne sono alcuni che stanno sotto grandi volte spaziose; ci si passa davanti come se fosse una città a parte e si viene invitati dentro con grande insistenza. (…) La borsa di cuoio che cerchiamo è esposta in venti botteghe diverse, ma tutte vicinissime una all’altra. Là c’è un uomo accovacciato in mezzo alla sua merce. Ha tutto a portata di mano, lo spazio è minimo. (…) Gli articoli di pelle di cui dispone questo bazar, che è il più grande e il più famoso della città, anzi dell’intero Marocco del Sud, vi vengono offerti per così dire tutti in una volta. In questa esibizione c’è molto orgoglio. Vi fanno vedere che cosa sono capaci di produrre, ma anche quanto hanno prodotto (Canetti 1983: 21-22).

Si può notare, anche da queste poche righe, un tratto autoriale: mentre De Amicis, nel passo citato all’inizio di questo capitolo, ricorreva a enumerazioni concitate e a lunghe descrizioni, Canetti già in questo passo pare più calmo, riGlessivo. Ed è esattamente questa, a mio parere, la caratteristica più importante del suo libro. Da questo punto in poi, infatti, per tutta la durata della narrazione, Canetti decide di esplorare questo marasma di stimoli, da cui pare costantemente sorpreso, con la calma e la convinzione del `lâneur . Gira per la città, perdendosi e seguendo ogni stimolo che lo interessa, 13 senza fretta e senza altre pressioni. Si trova nei bazar, osserva le scene degli uomini che comprano del pane soppesandolo e annusandone la freschezza, si nasconde sui tetti per cogliere la città dall’alto, prova a capire perché un mendicante mastica e assapora tutte le monete che gli vengono donate, segue dei bambini che giocano e li interroga sul volto triste della donna che intravede dalla grata di una Ginestra, osserva da lontano la scena degli scrivani di piazza, che impacchettano lettere per i clienti, e riGlette sui cantastorie Qui faccio uso di questa espressione, anche un po’ stereotipata, non tanto per il suo aspetto di 13

“spettatore passivo e indolente”, ma piuttosto per il carattere che evoca in rapporto all’esplorazione della città, e alla scoperta dei suoi piaceri e delle sue ricchezze. Mi avvalgo, per l’utilizzo di questa nozione, del manuale di Alberto Sobrero, Antropologia della città (Sobrero 2013: 134-153), che la inquadra storicamente e la utilizza per approcciare l’opera di Walter Benjamin.

che sanno ancora coltivare l’arte della parola viva, e non scritta. Si lascia stupire da ciò che incontra:

Quest’anno, quando giunsi a Marrakech, mi trovai di colpo tra i ciechi: centinaia, un numero incalcolabile di ciechi, perlopiù mendicanti; in gruppi, a volte di otto a volte di dieci, stavano in Gila al mercato pigiandosi l’un l’altro, e recitavano una roca litania, eternamente ripetuta, che si udiva da molto lontano (Canetti 1983: 28).

Pur non essendo in grado di entrare veramente in relazione con la realtà araba che ha davanti- afferma più volte di non voler imparare la lingua- riesce a non fermarsi al solo carattere asGissiante del rumore e del disordine, non è quello che gli preme raccontare: non guarda le scene da lontano, ma ci Ginisce dentro. Riesce a intessere una relazione del tutto personale con ogni cosa che lo colpisce, pur osservandola in qualche modo da fuori. Lo stile conoscitivo che Canetti adotta nell’esplorazione di Marrakech è allo stesso tempo uditivo e odologico. Si limita a seguire le voci che sente, i vari suoni- ma non solo- che lo colpiscono, e costruisce seguendo questo stimolo un percorso di avvicinamento. Con il suo estro e la sua curiosità, si arrischia a non ritagliare un «manageable Gield of reality from the total Glow of events», ma a stare nel Glusso totale degli eventi con una soggettività cosciente e aperta. Canetti si pone talmente al centro della sua esplorazione che il picco della narrazione è il suo incontro con la comunità del mellaḥ, il quartiere ebraico. Qui, egli si ricongiunge tramite alcuni incontri a una sua identità ebraica remota ma viva, e incontrando una parte di sé in un luogo esotico. È qui, a mio parere, che si decostruisce l’orientalismo insito nel viaggiatore europeo che visita il Marocco: seguendo le traiettorie aperte dalle voci, si scopre una parte di sé nel lontano . 14

È quello che si augura Michel Leiris in un suo saggio: «che il maggior numero possibile dei 14

miei amici artisti o letterati-perlopiù assorbiti oggi in preoccupazioni, in Gin dei conti, unicamente estetiche, o impegnati in sterili dispute di gruppo- facciano come me: che viaggino non da turisti (il che signiGica viaggiare senza cuore, senza occhi, senza orecchie), ma da etnograGi così da diventare abbastanza umani per dimenticare le loro mediocri, piccole “maniere da bianchi”» (Leiris 2005:167).

Arrivai a un incrocio dove c’erano molti ebrei. Il trafGico scorreva loro davanti e a un angolo girava. Vidi delle persone passare sotto una volta che sembrava incastrata in un muro, e subito le seguii. Oltre quel muro, e da esso circondata su tutti e quattro i lati, si estendeva la Mellah, il quartiere ebraico. (…) Camminavo più lentamente che potevo osservando quei volti. La loro varietà era stupefacente. (…) Mi trovavo adesso in una piccola piazza rettangolare che mi apparve come il cuore della Mellah. (…) Davvero in quel momento mi sembrò di essere altrove, di aver raggiunto la meta del mio viaggio. Da lì non volevo più andarmene, ci ero già stato centinaia di anni prima, ma lo avevo dimenticato, ed ecco che ora tutto ritornava in me. Trovavo nella piazza l’ostentazione della densità, del calore della vita che sento in me stesso. Mentre mi trovavo lì, io ero quella piazza. Credo di essere sempre quella piazza (Canetti 1983: 51-57).

Marrakech non è Fez, ovviamente. Ma credo che questo stile uditivo, capace di stare in maniera soggettiva e aperta nel «Glow of events», sia molto prezioso: mi ha sottratto all’ossessione del tutto, aperto nuovamente alla medina e messo in grado di incontrarla, senza negare la mia soggettività, senza provare a visualizzare la totalità dal di fuori, ma semplicemente vivendoci. Lo stile uditivo di esplorazione della città che si delinea nell’opera di Canetti è, credo, la premessa per continuare la riGlessione metodologica.