• Non ci sono risultati.

Un islām ascoltato

8. Un islām ascoltato.

Quest’ultimo paragrafo vuole riportare il discorso al centro focale del presente capitolo trovandolo, però, arricchito di un elemento. L’ascolto “di-fonico” del Corano accennato all’inizio, infatti, cioè alternato fra passivo e attivo, attento o indifferente, non spiega a mio parere completamente quanto ho cercato di mostrare nella seconda parte del capitolo. Come, cioè, questo libro possa nei fatti incidersi nei cuori di chi lo ascolta, ossia divenire non solo il bacino di storie dalle quali attingere continuamente, ma anche specchio di ogni azione messa in atto nel quotidiano. Certo, si potrebbe semplicemente affermare che tramite la costante presenza Gisica del suono coranico (come sottofondo, cioè “ascolto passivo”) e la sua graduale comprensione quale rivelazione e narrazione cosmologica (“ascolto attivo”) il testo assuma questo spazio privilegiato nei cuori dei

Come già ampiamente visto anche in questo contesto, il concetto di Dīn, cioè di religione, è per 62

l’islām eminentemente un’ortoprassi. Si veda per questo Campanini 2013: 6-17. Il concetto di santità, in realtà, andrebbe discusso più lungamente, poiché il culto dei santi sta alla base del suGismo e dunque dell’islām marocchino tradizionale. Si veda Geertz 2008.

Un’altro degli aggettivi che ho raccolto fra i racconti della medina, in effetti, è muḥa`iẓa, cioè 63

“conservatrice”, degli usi e costumi, dell’aspetto antico, della spiritualità. Tuttavia la radice ḤFḌ, come detto sopra, indica anche la memorizzazione del Corano. Si potrebbe giocare sull’ambivalenza e affermare che Fez è una città che sa ancora custodire in sé la rivelazione.

fedeli. Tuttavia emerge un altro tipo di ascolto, che dona un orizzonte di unità a tutte le pratiche religiose Gin qui presentate (la preghiera e il suo richiamo; l’ascolto del Corano e il ḏikr nella sua accezione più ampia), e che va oltre il senso comune: lo si trova nella Gigura del Profeta, con cui questo capitolo è iniziato. Non appena si parla di Corano è inevitabile, e questa tesi non ha fatto eccezione, fare riferimento a Muḥammad. È lui il vero santo che tutti, di qualsiasi da‛wa facciano parte, prendono a modello, il portatore della Parola di Dio per l’umanità. Ma come funzionavano le sue rivelazioni? Non raramente mi è capitato di essere catechizzato anche su questo punto. Karīm, mio catechista personale, una volta me l’ha raccontato in questo modo: un gruppo di cristiani erano andati a parlare con il Profeta per interrogarlo.

Karīm: Gli hanno chiesto: «Dicci chi è il tuo Signore», cioè: chi è questo tuo Dio, che ti ha mandato? Lui è rimasto a guardarli, e ti dico una cosa, io ne sono convinto al miliardo per cento. Li guardava, li guardava, ma non aveva la risposta, capito? Non ce l’aveva. (…) Non aveva niente da dire! Guardava, e restava in silenzio. Non gli ha detto: «il mio Dio è il Dio di Abramo, di Mosè, di Gesù, dei profeti, Isacco, Giacobbe…», no, non ha detto loro questo. È restato in silenzio, perché lui non era come noi, non parlava così, perché dice il Corano: «Il vostro compagno non erra, non s’inganna- e di suo impulso non parla» [sura 53: 3-4]. (…) Cioè ascolta, e ciò che ascolta dice. Allora è arrivato il waḥī, la rivelazione, e cos’ha detto? «Mi rifugio presso Dio contro Satana il lapidato» [formula che si usa per cominciare a citare un

versetto coranico]. «Di': “Egli, Dio, è uno, - Dio, l’Eterno. - Non generò né fu generato-

e nessuno gli è pari”» [sura 112] ». 64

Federico: Ah, e l’ha detta proprio in quel momento?

K: È la risposta che è venuta per i cristiani. Ti ho detto, il Corano non ti racconta mai la storia completa, ma solo il versetto. (…) E in questo caso è discesa la sura dell’Iḫlāṣ, della purezza. E se esaminiamo bene il discorso, è interessante: se io ti dico di dire una cosa, tu non ripeti tutta la frase. Se io dico: «Di’: io sono Federico»,

La sura 112, è chiamata in arabo sūrat el-Iḫlāṣ, cioè la sura del culto sincero, puro. I suoi pochi 64

tu non ripeti «Di’: io sono Federico». Invece il Profeta lo ripete il “di’”. Perché lui ascoltava soltanto, e quindi ripeteva tutto . 65 Il Profeta viene qui presentato come un uomo “ignorante”: senza la rivelazione, egli sarebbe un uomo come gli altri, ma è abbastanza puro da riceverla. Il punto di interesse qui non è tanto sapere se egli fosse analfabeta o meno , ma di cogliere l’allusione del 66 versetto citato da Karīm all’apertura totale del Profeta nei confronti della parola di Dio. I fedeli, i “ben guidati” di cui Muḥammad è modello, hanno dunque le caratteristiche già lette all’inizio della sura della Vacca ma, continua il testo, per una ragione precisa: sono contrapposti ai non credenti, che ormai sono invece completamente chiusi all’azione di Dio. Quanto a coloro che non credono, è per loro indifferente che tu li ammonisca o non li ammonisca: mai crederanno. - Iddio ha suggellato loro il cuore e l’udito: e la vista loro è velata, e avranno castigo tremendo (Sura 2: 6-7) L’apertura e la disponibilità tramite le opere, vista nello scorso paragrafo, mostra qui la sua radice: la vera virtù del santo è l’apertura alla parola di Dio, l’ascolto.

Poggiando su quanto esposto Gin qui è possibile ora abbozzare uno schizzo della struttura sensoriale che le pratiche religiose islamiche vissute nella medina di Fez costruiscono. C’è, infatti, una particolare “estesiologia” che viene qui delineandosi , 67

un’organizzazione dei sensi che è doveroso analizzare. Questa predominanza

Karīm, primo colloquio (p. 260). 65

È una questione ampiamente dibattuta, poiché la sua incapacità di leggere e scrivere ne 66

dimostrerebbe la purezza, e dunque la veridicità della rivelazione. Nella sura del Limbo ritorna in due versetti (sura 7: 157-158) l’espressione “rasūl ummī”, per designare il Profeta. La parola

ummī è tradotta seguendo due letture basate su due signiGicati possibili della parola: una- quella

classica del Bausani, di cui utilizziamo qui la traduzione- è “ profeta universale, profeta dei Gentili”. L’altra invece traduce direttamente “analfabeta”, così esaurendo la questione. Si veda, per un approfondimento, Campanini 2013: 22-23.

L’espressione è del Gilosofo Helmuth Plessner. Proposta per la prima volta nel suo saggio 67

L’unità dei sensi. Lineamenti di una estesiologia dello spirito, del 1923, egli la riprese Gino a

dell’ascolto e dell’udito come canali privilegiati per il divino non è nuova: nello scorso capitolo abbiamo analizzato il carattere essenzialmente sonoro della rāḥa, intesa come orizzonte della preghiera e dunque del suo richiamo. Essa dimostra come l’udito sia, qui come altrove, privilegiato Gisicamente e metaforicamente come senso dell’interiorità. Ora l’ascolto del Corano ci riporta a questa concezione, arricchendola di un tassello. Non che sia assente, per esempio, una “epistemologia dell’occhio”: i colloqui con i miei interlocutori sono anzi pieni di metafore visive. Soprattutto in sede di da‛wa, la chiarezza della rivelazione islamica (secondo la sua conGigurazione ossessiva, di cui sopra). Ḥasan mi ha ripetuto Gino alla noia che la verità «bayna min el-ṭayāra, è così chiara che si vede dall’aereo». E Karīm, a proposito della mia conversione, reinterpretava a modo suo il passo della sura della Vacca appena citato, quando mi diceva:

Con te parlo sinceramente, sai qual è il vero problema alla Gine? Cosa succede alla Gine? Io sono qua, in una società musulmana, e queste cose che ti dico sono normali. Ma per te è un problema. Se torni in Italia e gli dici queste cose ti diranno: «Ah, è questo che hai portato dal Marocco? Che Gesù non è Dio? Che l’islām è l’unica verità? Questo ci porti?». Cosa direbbero i tuoi amici, la tua famiglia? Alla Gine rimane sempre questo, come problema. Ma la verità è chiara. La verità è come il sole, c’è qualcuno che non vede il sole? Tutti vedono il sole, ma se ti copri gli occhi, non lo vedi più [facendo il gesto di coprirsi gli occhi]. Dov’è il sole? Non lo vedo! 68

Come, però, il pensiero assillante della verità è chiamato a tirarsi indietro rispetto all’imperativo dell’accoglienza, questa evidenza visiva viene invitata a divenire, sull’esempio di Muḥammad, un orecchio che ascolta e fa/dice ciò che gli viene suggerito, seguendo piuttosto una “epistemologia dell’orecchio o dell’udito”. È tramite l’ascolto, infatti, che la parola di Dio può entrare nel cuore e renderlo sereno, per poi espandersi a tutto il corpo e a tutti gli altri sensi. Come mi diceva Ḥasan, spiegandomi un detto del Profeta:

Karīm, secondo colloquio (p. 270). 68

Ḥasan: Nel detto sacro, il Profeta dice: «ha detto Dio onnipotente: quanto più il mio servo mi si avvicina tramite le cose che gli ordinato…». Cioè la cosa che Dio preferisce dal suo servo è quella cosa che gli ha ordinato, la preghiera, l’elemosina, il digiuno, il pellegrinaggio, il comportarsi bene e non fare cattive azioni. «…E quanto più non cessa di di avvicinarsi a me con le nawā`il, Ginché io lo ami…», cioè quando il servo aggiunge, fa cose in più rispetto al precetto. Per esempio nella preghiera ci sono le nawā`il, le chiamiamo.

Federico: Cioè sono preghiera, ma non…

H: Esatto, sono preghiere fuori dal quadro del precetto, le si aggiunge a due alla volta. Cioè ti dice: più fai le nawā`il, più ti avvicini a Dio. Fino a che quel servo di Dio diventa… Ogni azione che fa, Dio interviene direttamente. Dice Dio altissimo «e se lo amerò, sarò l’udito con il quale udirà, la vista con la quale vedrà, la mano con la quale toccherà e il piede con il quale camminerà» [riferito da Ibn Ḥanbal e Tirmiḏī.

Traduzione mia]. Diventa così, ogni azione che fa l’uomo Dio, degno di lode e

altissimo, interviene in quell’opera. Arriva a un punto che quell’azione la fa con la volontà di Dio. Quindi non fa più cose cattive. Anche l’udito, per esempio. Se senti qualcosa che Dio non apprezza, il suo orecchio gli fa male, non gli piace la situazione. Con il suo occhio non vede se non quello che piace a Dio, con la sua mano non fa più nulla se non le cose che… . 69 L’ascolto, dunque, inteso nel senso metaforico di assoluta disponibilità alla parola di Dio e ricerca della sua presenza- come nel caso delle preghiere aggiuntive- si rivela essere la chiave di tutti gli altri sensi, del corpo divenuto musulmano (muslim, cioè interamente sottomesso a Dio). Il servo, ripieno di parola, viene raggiunto nel suo corpo da Dio, e ne viene colmato. È in questo passaggio che l’epistemologia dell’orecchio diventa un’etica dell’orecchio, un’etica dell’ascolto. Questo è il punto di coincidenza fra la parola (che va ascoltata e precede ogni altro passo) e le opere buone. La parola coincide con l’opera e viceversa (come il Corano, parola che è in sé una buona azione). Un passo posto alla Gine della sura della Vacca, che ritorna, fa dire ai credenti: “Abbiamo udito e obbediamo: perdono, o Signore! Ché tutti a Te ritorniamo!” (sura 2: 285). Il credente ode Ḥasan, secondo colloquio (p. 214). 69

e obbedisce, come due momenti che- pur essendo sfasati nella successione, poiché viene comunque prima l’ascolto- si fondono in un solo atto. Non solo: in un solo “discorso”, recuperando l’espressione di Chiara Pussetti dello scorso capitolo, che «crea gli individui come esseri emozionali di un certo tipo» (Pussetti 2010: 262). L’individuo musulmano è chiamato a costruire la propria individualità su questa organizzazione sensoriale metaforica, cioè diventando contenitore di parole/opere. Il “discorso emotivo” che si crea, allora, diventa il principio uniGicatore di tutte le pratiche religiose viste in questi due capitoli: la preghiera e il suo richiamo, apertura costante del “petto” 70

a Dio che porta alla tranquillità; e il ḏikr, ricordo continuo di Dio tramite la ripetizione del suo nome e l’anamnesi costante della sua rivelazione e della sua parola. Questo “discorso” emotivo è l’unico vero pilastro dell’islām- cioè sottomissione a Dio divenendo suoi servi (‛abd)- la maniera in cui la parola di Dio si incide nei cuori dei credenti. Fra i miei incontri la persona che meglio ha incarnato questa logica è l’unica che non sono riuscito a intervistare: Sī Moḥammed. Lui è stato il mio gatekeeper Gin dalle prime ore a Fez, e ha avuto a cuore la mia ricerca ma soprattutto la mia accoglienza nella sua città più di ogni altro. La nostra conversazione, anche grazie al suo buonissimo francese, è stata da subito scorrevole e piacevole, e ha potuto spingersi là dove non sarei mai potuto arrivare in arabo. Per ragioni che non ho compreso, dopo che per la prima volta avevamo registrato una delle nostre conversazioni, ha preferito che non si ripetesse. Questa è stata l’unica indisponibilità nei miei confronti in tre mesi, per il resto egli è il credente musulmano più coerente che abbia incontrato, e tutti intorno a lui lo ritengono un santo (nel senso di cui sopra), a causa delle sue continue opere buone (elemosina, accoglienza, dono costante). Ma al di là delle sue opere, Sī Moḥammed è anche un grande affabulatore, un altro predicatore mancato, come Ḥasan. Mi permetto per questo di citare un brano di quell’unica intervista breve registrata, poiché dentro, a mio parere, c’è molto di quanto detto Gin ora. La mia domanda riguardava le fonti dei racconti che

Si veda la sura 94, citata a p. 78 del secondo capitolo di questa tesi. 70

inanellava uno dopo l’altro, in un’alta forma di da‛wa; ricordo molto bene la sua faccia stupita e l’esitazione che hanno preceduto la sua risposta. Federico: E dici che non leggi mai? Come fai a sapere tutte queste cose? Moḥammed: Tutte queste cose? Tutte queste queste è con il tempo… con il tempo, veramente. Non sono un lettore. Con la discussione, l’ascolto, e a volte anche con le frasi del Corano. Acquisisci le cose con la tua esperienza, e capisci. E penso… A volte mi chiedo anche per le grandi cose… Non c’è veramente bisogno dei grandi professori, insegnanti… Si può essere anche persone molto semplici e arrivare a comprendere, già. Il Profeta stesso era un analfabeta . 71

Ecco, in maniera essenziale, riassunta questa epistemologia/etica dell’ascolto. L’importante, per Sī Moḥammed, è la lentezza: ci vuole tutta una vita a imparare ciò che lui sa, a memorizzare il Corano, a diventare un musulmano, e non si sa bene da dove sia venuta tutta questa conoscenza. È forse possibile, a questo punto, allargare il nostro discorso particolare, e accostare lo stile conoscitivo incontrato a un concetto epistemologico formulato dall’antropologia del suono di Steven Feld. L’antropologo americano, infatti, ha tratto dalla sua esperienza in Papua Nuova Guinea, fra i Kaluli del Bosavi, un concetto che «joins acoustics to epistemology to investigate sounding and listening as a knowing-in-action, a knowing-with and knowing-through the audible» (Feld 2015: 12). Egli chiama il nuovo concetto “acustemologia”, una sorta di epistemologia dell’ascolto, che è dunque doveroso analizzare qui. Essa si basa su un’ontologia relazionale, dove «acoustemology’s logical point of connection to a relational ontology framework is here: existential relationality, a connectedness of being, is built on the between-ness of experience» (Feld 2015: 13). Mentre, logicamente, il punto di connessione con il nostro discorso sta nel fatto che, come prosegue Feld,

Knowing through relations insists that one does not simply “acquire” knowledge, but rather, that one knows through an ongoing cumulative and interactive process of

Si veda in appendice il colloquio con Sī Moḥammed. 71

participation and reGlection. This is so whether knowledge is shaped by direct perception, memory, deduction, transmission, or problem solving (Feld 2015:13).

Sono evidenti i tratti che accomunano l’acustemologia di Steven Feld alla sorta di “acustemologia islamica” che emerge dalla medina di Fez. I Kaluli di cui Feld ha eseguito per anni il ritratto sonoro, scrivendo il suo celebre Suono e Sentimento (2009, or. 1982) e poi approdando a questa proposta epistemologica, hanno sviluppato un’altra estesiologia rispetto a quella islamica di Fez. Ma essa è sempre basata sull’ascolto.

To Bosavi ears and eyes, birds are not just “birds” in the sense of totalized avian beings. They are ane mama, meaning “gone reGlections” or “gone reverberations.” Birds are absences turned into presence, and a presence that always makes absence audible and visible. Birds are what humans become by achieving death. Given this transformative potency, it is not surprising that bird sounds are understood not just as audible communications that tell time, season, environmental conditions, forest height and depth Bird sounds are simultaneously communications from dead to living, materializations reGlecting absence in and through reverberation. They are the voice of memory, the resonance of ancestry. Bosavi people transform the acoustic materials of bird soundmaking - their intervals, sound shapes, timbres, and rhythms -- into weeping and song. (Feld 2015: 16).

Gli uccelli a Fez sono presenti, amati dagli abitanti e segno di un paesaggio sonoro anche naturale e non solo antropico, pur in un ambiente urbanizzato , ma non 72

raggiungono i signiGicati pregnanti e densi che hanno invece nella foresta del Bosavi. A Fez, invece, è la voce umana, che proclama l’unicità di Dio e l’appello alla preghiera, che canta le sue lodi e si prosterna, che ripete il nome di Dio, che salmodia il Corano a ricoprire signiGicati pregnanti e a essere protagonista dei suoni della città. Ma la “transformative potency” è la medesima, poiché questi suoni- tramite i loro intervalli, forme sonore, timbri e ritmi- si trasformano nella voce di Dio che parla nella città.

Si veda, per esempio, il colloquio con Karīm citato alle pp. 52- 53 del secondo capitolo di 72

Il Corano dunque, di cui si è occupato il presente capitolo, non è uno dei tanti suoni della città, ma la fonte di tutti i suoni, il centro nevralgico rivelato da cui proviene il “discorso” emotivo analizzato nelle sue varie forme, il cuore degli altri suoni. Con questo bagaglio di signiGicati islamici appresi, è possibile ora tornare a guardare alla medina di Fez nel suo complesso.

Capitolo 4