Capitolo 2 Dio è grande
5. L’ossatura della preghiera.
L’unità di misura della ṣalāt si chiama rak‛a, e in ognuna delle cinque preghiere canoniche giornaliere si ripetono due o più rak‛āt (plurale), con qualche aggiunta a seconda del momento della giornata . La radice veicola il signiGicato di inginocchiarsi, 30
chinarsi, piegarsi. Le posizioni che il fedele deve assumere mirano in effetti alla prosternazione: la preghiera comincia in posizione eretta, poi c'è una prima inclinazione (rukū‛), in cui bisogna appoggiare le mani sulle ginocchia e piegarsi in avanti per qualche secondo. Subito dopo, c’è la vera prosternazione (suǧūd), dove il fedele sosta con la fronte e la punta del naso appoggiati a terra, e poi si mette a sedere sulle ginocchia. Tutte queste posizioni sono accompagnate da delle frasi. Per quanto sia impossibile qui riportare il testo della preghiera in maniera completa, conviene darne una certa idea, seppur stilizzata.
Una rak‛a si compone di:
Iqāmat el-ṣalāt - l’inizio della preghiera: si ripete l’adān per i presenti, e l’imām pronuncia l’
“Allāh-u Akbar” che dà validità alla preghiera (Takbīrat el-Iḥrām), ripetuto dai fedeli.
Fātiḥa e sūra - l’imām pronuncia la prima sūra del Corano, la Fātiḥa (l’Aprente), e tutti
rispondono Amīn (amen). Poi l’imām continua con un brano di un’altra sūra che conosce a memoria.
“Allāh-u Akbar” e rukū‛ - si annuncia la grandezza di Dio con le mani aperte all’altezza delle
orecchie. Ci si piega in avanti tenendo le mani sulle ginocchia. In questa posizione si ripete tre volte “subḥāna Rabbī el-‛aḍīm” (gloria al Signore immenso).
Pausa, tornando in piedi - mentre ci si rialza l’imām dice “sami‛a Allāh li-man ḥamida-h
u” (Dio ascolta chi lo loda), e l’assemblea risponde “rabbanā ma laka el- ḥamd” (Signore nostro a
te solo si deve lode).
Al faǧr si fanno solo due rak‛āt; al ẓohr e all’ ‛aṣr quattro; al maġreb tre; all’ ‛išā’ quattro, 30
nuovamente. Ci sono delle variazioni e degli accorgimenti minimi da tenere per ogni momento di preghiera, ma l’approfondimento di questo tipo di dettagli non è utile in questa sede.
“Allāh-u Akbar” e suǧūd - si annuncia la grandezza di Dio mentre ci si prosterna, con le ginocchia, la fronte e il naso appoggiati a terra, e in questa posizione si ripete tre volte “subḥāna
Rabbī el- a‛lā” (gloria al Signore altissimo).
“Allāh-u Akbar”, inginocchiandosi - ci si rialza inginocchiandosi e si dice “Rabbī iġ`ir
lī” (Signore perdonami).
“Allāh-u Akbar” e suǧūd - si ripete la prosternazione come la prima.
“Allāh-u Akbar”, inginocchiandosi - a questo punto, se è la prima rak‛a ci si rialza e si
ricomincia. Se invece è la seconda, o l’ultima per quel momento di preghiera, si pronuncia, con la mano destra appoggiata sul ginocchio e l’indice puntato verso l’alto, il tašāhud (una variante arricchita della professione di fede), e poi la preghiera di Abramo, (un intercessione per il popolo di Abramo, primo credente monoteista, e per il popolo di Muḥammad, sigillo dei Profeti).
Saluto Cinale - quando i fedeli sono ancora inginocchiati, l’imām dice “el-salām-u ‛aley-kum” (la pace sia su di voi), e così rispondono gli oranti, girando il collo prima a destra e poi a sinistra.
Guardando all’ossatura dei gesti e delle parole che costituiscono la preghiera musulmana, si nota che, come è ovvio, per parlarne non ci sarebbe bisogno di riferirci a Fez. La tradizione islamica ha saputo coltivare un’ampiezza geograGica insieme a una disarmante semplicità, almeno a livello di ortoprassi. Di conseguenza questi pochi gesti e queste poche parole vengono ripetuti- più volte in più momenti del giorno- nello stesso identico modo da un capo all’altro della umma, in Marocco come in Indonesia, incontrando variazioni minime a livello di qualche gruppo minoritario. Per un attimo, cogliendo l’occasione, è possibile in effetti fare qualche considerazione più astratta, in
vitro per così dire, riguardo ai tratti dell’islām più in generale. Se, infatti, la presente
analisi sta vertendo su un’incarnazione della città islamica marocchina e particolare, e non potrebbe essere altrimenti se vuole chiamarsi etnograGia, è inevitabile che ci si trovi a calcare, in queste pagine, anche il percorso opposto, e capiti di dire qualcosa che non sarà solo marocchino, o strettamente fāsī, bensì islamico tout court. In questo caso, dobbiamo cominciare a notare che l’incontro e la conoscenza di Dio (a cui Ḥasan ci ha introdotto all’inizio di questo discorso) hanno un carattere sensorio importante: sono soprattutto orali. Non serve ripercorrere la vexata queastio dell’aniconismo islamico, riguardo all’interdizione islamica- e più in generale semitica- di farsi delle immagini di
Dio : è chiaro che l’arte sacra islamica, per potersi esprimere, ha riversato su 31
decorazione, architettura e calligraGia tutto il suo potenziale graGico, che dunque non è del tutto assente dalla tradizione in esame. Che affermiamo che a determinare questo carattere orale sia stata questa interdizione o viceversa, ciò che ci interessa qui è cominciare a rilevare questa prevalenza dell’oralità nell’esperienza islamica. I fedeli sono chiamati a pregare da una voce, e la preghiera rituale è essenzialmente costruita su un gioco di voci che si rispondono (imām e fedeli) e che fanno riecheggiare la parola di Dio (il Corano) in maniera costante nel loro quotidiano. Dio non si può vedere, ma con Dio si può parlare. Il fedele, infatti, non è invitato solo ad ascoltare, ma anche a parlare, perché c’è un ascoltatore attento. Rialzandosi in piedi dopo la prima inclinazione del corpo (rukū‛), si dice “Dio ascolta chi lo loda”. Che Dio ascolti la voce di chi lo invoca, d’altronde, è tema che meriterebbe un’analisi comparata fra Bibbia e Corano. Basti pensare che il Giglio prediletto di Abramo nel Corano non è Isacco, bensì Ismaele, capostipite degli arabi (anche nella Bibbia), il cui nome (Isma‛īl) signiGica “Dio ascolta”, e si intende che ascolti la voce di chi si rimette a lui . Questa impalcatura sonora, tuttavia, 32
non è pura oralità: è sostenuta da altro. Non un carattere visivo, certo (sarebbe infatti possibile anche pregare ad occhi chiusi, e molti lo fanno per maggiore concentrazione), ma con dei movimenti che rendono reale e pregnante quanto viene enunciato: se Dio è grande, e a lui solo va la lode, è a lui solo che si può prosternarsi. La prosternazione, gesto pieno di implicazioni, ancora una volta non solo coraniche ma anche bibliche , è il 33
movimento del servo che riconosce il suo Signore. L’islām predica la sottomissione a Dio, e il fedele è chiamato a diventare servo di Dio (‛abd Allāh), un servo che ascolta. Gesti e parole, dunque: questa è la materia prima dell’incontro con Dio per il fedele musulmano. Questi due elementi, d’altronde, sono la materia prima della maggior parte dei rituali religiosi.
Si veda, per la storia e i riferimenti interni alla tradizione per questo divieto la voce 31 “Ṣūra” (redatta da J. Wensinck), in AA.VV., Encyclopédie de l’islām, Leida, Brill, Vol. 9, pp. 925-928. Si veda la vicenda dei due Gigli di Abramo, in particolare Gen 21. Il salvataggio di Ismaele e di 32 sua madre è d’altronde ricordato e rivissuto in ogni pellegrinaggio alla Mecca (ḥaǧǧ). Si pensi ad esempio alla promessa ad Abramo (Gen 17,3), o all’incontro di Mosè con il roveto 33 ardente (Es 34,8).
In questo ambito, tuttavia, essi conducono facilmente al nome di Marcel Jousse, gesuita e antropologo francese. Egli, infatti, attivo nella prima metà del XX secolo, arrivò ad affermare che le culture semitiche erano essenzialmente basate sulla parola e sul movimento, Gino a deGinirle verbo-motorie . La sua concezione, che che fu base anche 34
per gli studi dell’antropologia del linguaggio, muoveva dall’assunto di base che l’uomo fosse un insieme di gesti:
Pour tout observateur du dehors, l’homme est un complexus de gestes. Nous appelons gestes tous les mouvements qui s’exécutent dans le composé humain. Visibles ou invisibles, macroscopiques ou microscopiques, poussés ou esquissés, conscients ou inconscientes, volontaires ou involontaires, ces gestes n’en accusent pas moins la même nature essentiellement motrice (Jousse 1978b: 27).
Nella sua concezione, la base dell’espressione umana è dunque il gesto, e il linguaggio, prima di essere tale, è anzitutto “mimaggio”: tutto si apprende tramite “mimemi”, unità minime di imitazione, che è tendenza naturale umana: «Or, ce qui frappe, quand on observe l’être humain aussi spontané que possible, n’est-ce pas une tendance instinctive à rejouer gestuellement ou, plus exactement, à mimer toutes les actions des êtres vivants?» (Jousse 1978b: 31; corsivo nel testo). Non sbagliano dunque i bambini, quando imitano per scherzo i gesti oranti dei genitori: apprendono una liturgia che in questo caso è un insieme di gesti portatori di un “reale invisibile” . Nonostante 35
questo accento sui gesti, Marcel Jousse resta un precursore degli studi sulla percezione sonora , poiché seguendo questo suo solco teorico “mimetico”, approdò anche alla 36
nozione di “fonomimismo” auricolare e orale, cogliendo l’importanza della curiosità per il “reale sonoro” nella formazione e nella crescita dell’uomo. Si veda Jousse 1978a: 721-750. 34 Si veda Jousse 1978b: 56-57. 35 Così intitola la sezione a lui dedicata Antonello Colimberti (2004), nella sua raccolta di saggi 36 sull’ecologia della musica.
C’est d’ailleurs cette curiosité spontanée qui a permis, jadis, à l’anthropos corporellement mimeur, de devenir phonétiquement, lingualement mimeur. C’est ainsi que le Mimage (ou expression intellectuelle par les gestes plastiques du corps et des mains) a cédé peu à peu, mais jamais complètement son admirable puissance signiGicative au langage (ou expression intellectuelle par les gestes sonores de la langue) (Jousse 1978b: 83-84).
Questo sostanziale intreccio fra movimento e parola, che Jousse aveva cominciato ad esplorare, ci dice che l’espressione dell’anthropos è continua ripetizione e imitazione, o per dirla con il suo linguaggio, un continuo rejeu (rigioco) di signiGicati. In questa luce, dunque, dobbiamo vedere la ṣalāt: non è solo oralità, quella che regge l’incontro con Dio, ma anche una recitazione (nel senso teatrale, dunque) dei signiGicati dell’islām. Ripetizione, oralità e recitazione sono dei Gili che si ripresenteranno. Ma ora è arrivato il momento di riprendere il percorso abituale: se questa è la ṣalāt, in generale, qual è il modo speciGico di viverla nelle moschee di Fez? Come questa pratica si fa pratica urbana?