Uno degli ultimi giorni passati a Fez mi è successa una cosa strana, o meglio straniante. Era venerdì, camminavo in fretta, in ritardo per il pranzo con la famiglia di Sī Moḥammed, Karīm e ‛Ā’iša, a casa della lella, la nonna, in un quartiere popolare in cui si è ormai trasferita da qualche anno. Mi trovavo a risalire a fatica una delle vie principali- la ṭāla‛a kbīra, dalla grande moschea del venerdì Gino alla porta blu, il cuore del centro commerciale turistico. Qui, entrambi i lati della strada sono zeppi di ristorantini a buon mercato, negozi e negozietti, riempiti della merce più varia. Perlopiù, la via dà un effetto esotico, e vi spadroneggiano alla vista tappeti, strumenti musicali, lampade di tutte le misure in rame e in ferro, cuscini decorati, basi di tavoli Ginemente intarsiate e appese al muro, spezie impilate a cono. Forse, questo è l’unico “bazar” della medina: non ha solo l’apparenza di un sūq, ma vi associa colori e impressioni da mille e una notte. A un secondo sguardo, ovviamente, appare anche altro, la “normalità”: piccole spezierie per ogni evenienza, che vendono pane, pannolini, farina, yogurt ma anche sigarette e giornali (perlopiù per incartare i prodotti). All’inizio di questa avenue multi-sensoriale, in particolare, c’è un mercato di carne e verdura. Coperto da graticcio e paglia, il passaggio si fa ombroso, e l’odore della carne e del sangue si confonde con quello delle galline che passeggiano libere, o dentro grosse vasche in attesa di essere macellate. La vista delle teste di mucca- o a volte di cammello- appese per mostrarne la freschezza, si mischia al profumo del coriandolo e della menta. Solitamente, questo è uno dei luoghi
dove si può ammirare la plurivocità rumorosa cui i capitoli che precedono questa conclusione hanno introdotto. Insomma, un angolo di puro Marocco, si potrebbe dire. Quella mattina di venerdì, però, c’era silenzio. Era tutto vuoto, come ogni venerdì mattina: chi non è alla preghiera in moschea, ad ascoltare il sermone, certamente non pensa ad aprire il negozio. Si respirava una pace assolata e domenicale, con una brezza leggera che sofGiava fra le viuzze. La celebrazione era conclusa da poco, e solo a quel punto le vie stavano ricominciando a popolarsi, prima del pranzo. Ero, ormai, completamente appaesato, immerso e abituato ai particolari, Giero della mia conoscenza di tutto ciò che mi circondava. Improvvisamente, mentre camminavo, da uno dei caffè che solitamente diffondevano a massimo volume musica gnāwā o popolare, sentii provenire un’altra musica, nuova e familiare. Era una chitarra gitana, che emetteva note di Glamenco alla Paco de Lucìa, alla Camaron de la Isla, alla Pata Negra. Quella chitarra mi ha letteralmente spaesato per qualche secondo. Potremmo chiamarlo “effetto
walkman” . Senza cufGie alle orecchie, senza dispositivi, in un baleno ero da un’altra 1
parte: la pellicola era la stessa, la colonna sonora un’altra. Ci ho messo un attimo prima di rendermi conto: i miei occhi erano stati guidati dalle mie orecchie. «Fa un effetto ridicolo: tutto cambia. Le persone cambiano, i movimenti. Da approfondire: il sottofondo, la colonna sonora, cambia le cose e le persone, conferisce uno spirito. Ma il Corano è qui talmente abituale che non si percepisce più come agente esterno, è incastonato nel suo ambiente», scrivevo sul mio diario . Le strade deserte, con i negozi 2
chiusi, le case che si innalzavano Gino al terzo piano mostrando il ferro battuto arzigogolato alle Ginestre; il solito colore dei muri, quel giallino-beige così familiare; il contrasto col cielo perfettamente azzurro; l’orizzonte sinuoso della strada che si perdeva in curve più avanti: tutto questo si era associato a un altro luogo della mia memoria immaginiGica. La Spagna, tramite la chitarra gitana e associazioni libere, prendeva forma. Mi sono reso conto che, stando alla struttura architettonica, potevo trovarmi in Andalusia- in cui non sono mai stato- e mi chiedevo quale fosse la differenza Sul rapporto fra la pratica dell’ascolto con le cufGie e il paesaggio urbano, a cui mi sono ispirato 1 per rileggere questa esperienza, riGlette Jean Paul Thibaud (2008). Diario di campo, 17 febbraio. 2
fra Fez e una qualsiasi altra città del suo genere, come se ne trovano distribuite dappertutto nel mediterraneo: sud Italia, Albania, Grecia, Tunisia, Algeria, o Venezia addirittura. Il viaggio sensoriale è durato qualche secondo, poi mi sono ritrovato dove mi ero lasciato: a Fez, sulla ṭāla‛a. Senza il Corano ad ancorarmi, o la solita gnāwā a tutto volume, l’apparenza della città cambiava sotto i miei occhi. Questa tesi è cominciata con una domanda più teorica- come si possa fare etnograGia del paesaggio sonoro urbano- e una più di pancia- che ruolo avesse l’islām che tanto mi affascinava nella medina di Fez e nella costruzione dei suoi innumerevoli suoni. Questo ha guidato la trattazione degli argomenti raccolti sul campo e di quelli più astratti. Abbiamo così scorporato i signiGicati che stanno dietro i suoni dell’islām. Dapprima la preghiera e il suo rapporto con l’esterno della moschea, il richiamo ad essa, accento regolare della vita comune. Il concetto di ḏikr come ricordo, poi, si è sviscerato lungo il suo senso più ampio e quotidiano, estendendosi dalle abitudini lessicali nelle espressioni linguistiche, Gino al Corano inteso come rivelazione donata all’umanità. Questo testo che, abbiamo mostrato, non ha valore se non è salmodiato e recitato, è stato preso in considerazione in quanto narrazione di salvezza e invito alla fede, ma anche su un piano più semplice, come suono che si aggiunge e dialoga con gli altri, innumerevoli, della città. Essi sono entrati nell’analisi in maniera più teorica, per sviscerare il problema di un’etnograGia della città nel suo complesso. Abbiamo dimostrato come esista, in questo senso, il rischio di costruire dei modelli parziali, che perdono di vista l’identità e la complessità della città. Si è mostrato necessario, per questo, adottare un metodo etnograGico che si basi su un’immersione partecipante, che abbandoni la supremazia della vista e abbracci un’analisi più ampia, multi-sensoriale, e in particolare capace di ascoltare le emozioni e le percezioni degli abitanti di un luogo. Solo così, credo, è possibile sintonizzarsi con i signiGicati profondi che si celano dietro il paesaggio sonoro urbano. A Fez, abbiamo visto, questi signiGicati sono soprattutto legati a quell’islām sviscerato in precedenza, poiché esso costruisce una particolare estesiologia. Ma in che senso, esattamente, l’islām è alla base della percezione dei suoni della città?
Può qui essere utile utilizzare degli strumenti lasciati da Murray Schafer: sebbene nel quarto capitolo sia emerso che una focalizzazione esclusiva sul soundscape, come nella sua opera, non sia del tutto coerente con l’impianto ecologico qui adottato, nel suo libro si trovano spunti costanti e preziosi che ho cercato di seguire. «What the soundscape analyst must do Girst is to discover the signiGicant features of the soundscape, those sounds which are important either because of their individuality, their numerousness or their domination» (Schafer 1994: 9), afferma il compositore canadese, costruendo una semplice griglia per una classiGicazione dei suoni. Egli divide i suoni importanti in tre grandi categorie: tonica, segnali e impronte sonore . Innanzitutto segnala, con una 3
metafora musicale, la tonica (keynote), cioè tutti quei suoni che stanno sul piano incosciente, prevalentemente naturali, e che costruiscono il brusio del paesaggio, e che diventano «listening habits». Potremmo inserire qui, nell’ambito di questa tesi, tutti quei suoni che entrano nell’“ascolto passivo” della città, e ne costituiscono il rumore (dalla musica, al Corano a volte, alle innumerevoli attività del taskscape). I segnali (signals), poi, sono invece i suoni sempre percepiti in modo conscio, poiché utilizzati dalle persone per comunicare: a Fez la preghiera e il suo richiamo, il Corano quando ascoltato in maniera attiva, ma anche più in generale la lingua, linguaggio complesso fatto di suoni che popolano le strade cittadine. Le impronte sonore (soundmarks) sono poi quei suoni che rendono un luogo unico e singolare: a Fez, ovviamente, il richiamo alla preghiera, ma anche il Corano, che diventano «community sounds», simbolici e rappresentativi. Il legame fra islām e paesaggio sonoro urbano, in questa griglia di analisi, sta un po’ dappertutto, come emerge da questa tesi: sta alla base dei segnali, cioè dei signiGicati simbolici, e sicuramente delle impronte sonore della città. Io credo, però, che la direzione da prendere per rispondere veramente a questa domanda sia la terza, quella della tonica. Essa tocca più da vicino un campanello che ha suonato in me per tutto il lavoro di campo e di scrittura, e che ha toccato un picco in quel momento straniante
La traduzione è di Antonella Radicchi (2012: 43-45). 3
vissuto prima di lasciare la città. Si tratta, in fondo, di quanto già sollevato nel primo capitolo, riguardo agli imponderabili. Camminando per le vie di Fez, conoscendone gli abitanti, facendo domande alle persone, avvicinandomi a questa realtà ho sempre avuto l’impressione di occuparmi di qualcosa di “non rilevante”. Volgarmente, dietro ogni domanda che ponevo c’era sempre l’interrogativo: a cosa serve parlare del paesaggio sonoro? Come intercetta la vita di questa gente? Ho continuamente avuto l’impressione di dover studiare qualcosa di non analizzabile, di completamente etereo, di imponderabile- direbbe Malinowski (2004: 27). Forse, allora, si tratta semplicemente di un tema informulabile se non in termini poetici, intuitivi. Se questo prima era un dubbio, ormai ha le fattezze di una certezza. Ma se di poetica si tratta, è di quella “poetica dell’abitare” (poetics of dwelling) di cui parla Ingold, quando propone una ecologia senziente, basata su un livello pre-oggettivo e pre-etico, semplicemente intuitivo. È su questo livello, afferma Ingold, che si fonda qualsiasi scienza o etica (Ingold 2000: 25-26). L’interesse per il paesaggio sonoro di un luogo- e non dei vari suoni della città, che possono essere scorporati, come è stato possibile fare- in qualche modo riposa su questo piano intuitivo, pre-oggettivo, sul quale poggia tutto il resto. In questa direzione, allora, si aprirebbero numerosi spunti di ricerca: si potrebbe per esempio parlare di respiro della città- se la si vede come un essere vivente, come nel quarto capitolo di questa tesi- vagliando i nessi con la costruzione del ritmo urbano, e della temporalità. Si potrebbe, ancora, occuparsi della nozione di atmosfera, o di clima dei luoghi- a cui abbiamo accennato anche con ‛Ā’iša’ . Ma credo che in questa sede la metafora di Schafer 4
sia particolarmente adatta: la tonica in musica è la prima nota di una scala melodica, quella nota intuitiva, statica, verso la quale tende una certa melodia, il suo “centro melodico”. Occuparsi delle voci di Fez, per me, ha voluto dire cercare, in qualche misura, la voce di Fez, quella tonica verso la quale tende la sinfonia disordinata della medina. È in questo campo poetico- nel senso ingoldiano- che sento intuitivamente il legame profondo fra gli abitanti della medina, ma anche tutta la medina in sé, come organismo Si veda, per esempio, il concetto di ǧaw/ambience in Hirschkind 2006 e in Battesti 2009, o la 4 riGlessione sulle atmosfere acustiche (e non solo) in Colimberti (2004).
cresciuto e vivo, con la sua età e la sua storia di vita, e l’islām. Perché il poco tempo che ho vissuto a Fez mi ha reso in grado di percepire, in modo non del tutto razionalizzabile, che gli accenti tonici che scandiscono la giornata e la vita di Fez cadono sulla convivialità e sulla relazione, sulla condivisione del cibo e della preghiera, sul godersi la vita per come viene, e il tirare avanti con Giducia, se Dio vuole (in šā’ Allāh). L’ Allāh-u Akbar del muezzino non «rattrista l’aria», come scriveva Borges in una poesia giocando con città immaginate (Borges 1985: 59). Al contrario, il fatto che gli abitanti di Fez siano buoni musulmani, e si gridino continuamente el-salām-u ‛aley-kum per salutarsi, e si dedichino alla preghiera e all’ascolto del Corano, crea una calorosa musica di sottofondo, un tono allegro, attivo, “casinaro”, che fa dire loro che come lei non c’è nessuna città. Riprendendo l’episodio di straniamento capitatomi, credo che la voce della città sia proprio, in qualche modo, la sua colonna sonora, che diventa la sua anima (nafs), il suo spirito, come scrivevo sul mio diario, cioè in fondo la sua vita. In qualche modo misterioso allora, la voce del mu’eddīn che richiama alla preghiera è, come avevo colto tramite la mia fascinazione, la voce della città. Il suo gridare, ritmicamente, cinque volte al giorno, che Dio è più grande, abbraccia i suoni Gin qui presi in esame. Essi, voci che conGluiscono in una sola voce, si possono dimenticare, si possono tralasciare o accentuare. Ma sono ormai intrecciati con la realtà a tal punto che, se si dovesse togliere anche uno solo di essi, ci si troverebbe in un altro luogo, in un’altra storia.