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Alcune metafore nel viaggio attraverso i classici

4. L’ermeneutica metaforica ne I contemporanei del futuro

4.3 Alcune metafore nel viaggio attraverso i classici

L’introduzione appena analizzata fornisce la chiave con cui accostarsi a quello che potremmo chiamare l’indice del canone di Pontiggia. Senza entrare qui nel merito delle scelte operate da Pontiggia266, offriremo come esemplificazione di quanto accennato, alcuni casi della sua ermeneutica metaforica. Essa infatti è alla base tanto dell’operazione critica quanto del suo stile.

Nei saggi che compongono il Viaggio nei classici267, ritornano alcune affermazioni di tipo meta-critico già incontrate. La categoria della «intelligenza analogica del mondo» ricorre, ad esempio, per commentare un volume che presenta due testi di Agostino, curati da Reale nel 1994 per Rusconi268. Il breve saggio, intitolato Agostino per i non credenti, dopo aver presentato la differenza tra agape ed eros, si conclude con la riflessione anticipata nel titolo: Pontiggia si domanda perché, anche per un ateo, le parole di Agostino acquistino «una misteriosa evidenza indiretta»269. Recupera così una delle tipiche metafore agostiniane, quella della vita come

266 Interessanti indicazioni sono offerte in C De Santis, «Un uomo che legge». La biblioteca di Giuseppe Pontiggia, in Aa.Vv., Giuesppe Pontiggia contemporaneo del futuro, cit., pp. 141-163, e in D. Marcheschi, La formazione di un giovane autore. Come Pontiggia è diventato lo scrittore Pontiggia, in Aa.Vv., Giuseppe Pontiggia. Investigare il mondo, cit., pp. 13-29.

267 Per quanto riguarda la seconda parte dei Contemporanei, non presente nell’edizione dei Meridiani, si citerà dall’edizione in volume, G. Pontiggia, I contemporanei del futuro, Viaggio nei classici, Mondadori, Milano, 1998.

268 Agostino, Amore assoluto e “Terza navigazione”, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1994.

navigazione verso la patria celeste, e la fa sua ridefinendo la patria celeste come un

«mondo parallelo più vero di quello visibile». Questa «unica fede consentita ai non credenti» è giustificata dal riconoscimento di uno statuto veritativo al metodo analogico:

«Anche se non possiamo aderire alla loro letteralità, sentiamo che la navigazione cristiana sul mare della vita fino alla patria celeste approda a un mondo parallelo più vero di quello visibile.

Forse l’analogia, come già aveva intuito Aristotele, è l’unica verità consentita alla filosofia. E se questa è l’unica fede consentita ai non credenti, Agostino continua a parlare a loro con un linguaggio balenante, irriducibile alle mediazioni razionali, ma radiante di immagini sconosciute e insieme familiari»270.

Così Pontiggia ancora una volta descrive ed esemplifica il linguaggio metaforico

«balenante», «radiante di immagini», «irriducibile» alla sola ragione, ma il solo in grado di accedere alla verità.

L’interpretazione metaforica è evidente a già alcuni titoli dei saggi: L’arte come furto, L’odio magnanimo, La terra come cimitero nello spazio, La Borsa visionaria di Zola, La follia come alfabeto del mondo, L’individuo come sfida, La verità del falso, Cellini, l’uomo come rinascimento, La biblioteca degli dei, Il ritorno come destino, ecc.

Come si può notare, mentre alcuni titoli fanno uso delle tipiche figure retoriche della scrittura di Pontiggia, altri si rifanno esplicitamente a quell’ermeneutica metaforica di cui abbiamo parlato. Nei casi in cui la metafora è messa sotto la lente di ingrandimento (qualcosa come qualcos’altro), è più semplice cogliere come operi lo stile critico di Pontiggia.

Ad esempio, in L’arte come furto Pontiggia può esemplificare, presentando una buona traduzione di un classico271, una delle sue principali categorie artistiche, quella dell’imitazione. Nella prima parte del saggio Pontiggia ribadisce le sue convinzioni sui limiti di un certo modo di rapportarsi ai testi:

270 Ibidem.

271 Plauto, Aulularia, Miles gloriosus, Mostellaria, introduzione e note di M. Rubino, con un saggio e la traduzione di V. Faggi, Milano, Garzanti, 1996.

«Leggendo queste prodigiose commedie di Plauto pensavo alla operosa idiozia di quei registi, traduttori e interpreti che, anziché imparare l’arte dai classici, la insegnano a loro: e tagliano, cuciono, alterano i testi. Convinti che un genio abbia bisogno di una mediocrità che lo spieghi, riducono il suo orizzonte illimitato al piccolo in cui si aggirano loro»272.

Qui, il centro del discorso critico è affidato alla ricorrente metafora dell’«orizzonte»

(riconoscibile/mutevole; illimitato/limitato ecc): essa diventa operativa nel valutare l’operazione di traduzione dei testi. Quando deve elogiare la traduzione di Vico Faggi Pontiggia fa ricorso al linguaggio metaforico, che, sfruttando la potenza sintattica del tricolon, descrive un atteggiamento “vivo” di rapporto con la lingua:

«Il latino a fronte non gli appare infatti una lingua morta, ma un fuoco d’artificio lessicale, una irradiazione di energia inventiva, una sequenza irresistibile di duelli verbali»273.

La traduzione di Faggi si ispira, dunque, ad un atteggiamento opposto a quello prima deriso («Questa operazione viene chiamata attualizzare ed è tanto frequente che non ne viene colto il lato grottesco»), essendo egli un «poeta di raro nitore e drammaturgo attirato da emulazione umanistica»274. È forse il suo essere artista che gli consente, come direbbe Steiner, di “eseguire” l’opera attraverso la sua traduzione. Nella conclusione del breve saggio, la metafora del furto viene scandita per indicare come anche nella creazione artistica l’emulazione dei grandi classici sia il motore autentico della letteratura. È quella, quasi impercettibile per la sua ricorrenza, del verbo “saccheggiare”, usato per indicare il principio di imitazione;

ma Pontiggia, continuando la metafora grazie all’associazione artisti/ladri, struttura una successione temporale, una traiettoria di furti che Quadrelli chiamerebbe tradizione:

«All’alba del teatro latino Plauto saccheggia il teatro greco al tramonto e vi infonde i sentori aspri e forti della farsa italica. Prestigiatore di parole e di ritmi, raffinato funambolo mai volgare, a onta delle accuse volgari dei moralisti, Plauto ebbe il

272 G. Pontiggia, I contemporanei del futuro, cit., p. 63.

273 Ivi, p. 64.

destino glorioso di essere a sua volta saccheggiato dai ladri più gratificanti, gli artisti del futuro, da Ariosto a Machiavelli, da Shakespeare a Molière. E il saccheggio fortunatamente continua, anche se oggi i ladri non conoscono sempre il derubato»275.

La verve di Pontiggia non si misura sull’arditezza delle metafore scelte, che sono spesso quelle del linguaggio comune; è nella loro rielaborazione, combinazione e intensificazione che si può apprezzare la capacità di costruire un linguaggio critico che realizza l’ermeneutica metaforica emersa nel saggio introduttivo.

In altri casi, come in La terra come cimitero nello spazio, Pontiggia è attento a cogliere le immagini metaforiche presenti nei testi che recensisce. Così, nella presentazione della raccolta di pensieri di Marco Aurelio, Pontiggia sintetizza il

«pathos visionario» dell’imperatore nel descrivere la sua condizione attraverso una similitudine: «La Terra appare come un cimitero di illusioni, incarnate da uomini che le vivono per un tempo troppo breve e le trasmettono alle generazioni successive perché le trasformino e le dimentichino»276. Qui, contro ogni metodo storicistico, si istituisce un parallelo tra la visione di Dante della Terra dal Paradiso («l’aiuola che ci fa tanto feroci») e la descrizione del mondo di Marco Aurelio: «Ogni mare è una goccia del cosmo; il monte Athos è una piccola zolla del cosmo; l’intero tempo presente è un punto dell’eternità: tutto è piccolo, instabile, in procinto di scomparire»277. È da questa analogia che nasce la metafora utilizzata nel titolo. Tali metafore sono per Pontiggia il luogo della contemporaneità dell’opera di Marco Aurelio, non solo perché lo legano a un contemporaneo del futuro come Dante, ma perché mettono l’imperatore romano in dialogo con i suoi lettori oggi e domani:

«Solo nel suo percussivo interrogarsi, nel suo dubbioso persuadersi, nel suo cupo guardare, Marco Aurelio ritrova alla fine il dialogo, da lui giudicato impossibile, con le generazioni che lo seguono»278.

275 Ibidem.

276 Ivi, p. 130.

277 Ivi, p. 131.

278 Ibidem.

Le immagini e le metafore create da Pontiggia pongono ancora una volta il problema del «significato, risibile e provvidenziale, della […] presenza nel mondo»

dell’uomo: sono questi i loci in cui autore e lettore si ritrovano contemporanei.