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L’etimologia e la comprensione metaforica: per una nuova

4. L’ermeneutica metaforica ne I contemporanei del futuro

4.2 Il problema ermeneutico: abitare la metafora

4.2.3 L’etimologia e la comprensione metaforica: per una nuova

Il dispositivo che permette di articolare, con andamento quasi narrativo, la sua argomentazione mediante metafore, è quello dell’etimologia. Nelle prime pagine del saggio costruisce una rete di nessi etimologici256 che costruiscono la metafora militare portante nell’intera architettura del suo lavoro: nell’antica Roma i classici erano i cittadini collocati dai censori nella prima classe, e per il nesso tra censo, diritti politici e doveri militari proprio dell’ordinamento militare romano, erano anche i militari257. Pontiggia sembra convinto del valore ermeneutico del linguaggio metaforico, e lo esprime, ovviamente, con una metafora dal sapore steineriano:

256 «Il significato originario di classis viene infatti circoscritto a quello di appello, invito, convocazione, poi chiamata sotto le armi nella classis clipeata, protetta dagli scudi, e nella classis procincta, agile con l’abito succinto in accesso di guerra. Poi la classis, intesa come unità che le include tutte, viene identificata con l’aspetto che la caratterizza maggiormente […] e cioè l’esercizio.

Così calare ha radunato la classis ed esercitare (exercere) ha plasmato l’esercito e raccogliere (legere) ha ordinato la legione» (p. 1501).

257 Pontiggia sviluppa le sue argomentazioni lavorando sull’intreccio tra il significato economico (classe di censo) e quello militare (classis, flotta): «“Classici venivano chiamati […] solo gli uomini della prima classe che erano stati censiti per 125.000 assi o di più”» (p. 1499) e «Una delle differenze lessicali che sorprendono lo studente di latino è che classi significava anche flotta» (p. 1500). «Così classis, emarginata sulla terra dall’emergere di exercitus, passa sul mare a designare la flotta. Ed ecco riapparire sulle navi i nostri classici, nel significato di marinai. Classicum era anche il corno che suonava per loro, come già aveva convocato le classi e l’esercito» (p. 1500).

«Forse la grammatica è l’alfabeto del mondo»258. Egli difende la possibilità che, indipendentemente dalle «leggi glottologiche», le associazioni etimologiche possano portare a cogliere la complessità del passato:

«Classis, deriverebbe, secondo Quintiliano (I, 6,33), da calare, chiamare, convocare: etimologia oggi respinta dalla porta – che lui ignorava – delle leggi glottologiche, ma riammessa dalla finestra – che lui usava – della associazioni vaghe di sensi e di suoni. Senza inoltrarci su questo terreno, ci basta rimanere sulla soglia e ascoltare una foresta di radici e di rami che rimanda, come suggerisce il Dictionaire Étymologique di Ernout-Meillet, a una fonte di brusii e richiami e grida».

(1501)

Da un lato il rigetto delle leggi glottologiche, dall’altro l’appello a fonti autorevoli in materia: Pontiggia cerca così di legittimare la sua ermeneutica della metafora, con un linguaggio che, seppur vicino a quello specialistico, predilige la metafora («foresta di radici e rami») e lo stile della prosa poetica (il polisindeto enfatico di

«brusii e richiami e grida»). Per lui il «passaggio da classici cives, cittadini della prima classe, a classici scriptores, scrittori di prima classe è – in una prospettiva come quella romana – una metafora inevitabile»259. “Inevitabile” non tanto per il la sua necessità filologica, quanto per la sua capacità di fondare uno sguardo critico che permetta un recupero contemporaneo della tradizione, offrendo un criterio per districarsi nel dibattito che in quegli anni imperversava sulla questione del canone260:

«In questo vigoroso ricupero, dopo mezzo millennio, di parole in accezioni ormai inconsuete, non c’è solo la curiosità di un retore di gusto retrospettivo: ma una interrogazione dei significati originari di immensa portata e inesauribile fertilità anche per noi. La proliferazione e insieme la crisi della nozione di classico, le polemiche, esplicite o sotterranee, che l’hanno al centro […] ricevono una luce inattesa dalle radici delle parole. Noi vediamo i tronchi, rami e foglie. Ma la linfa che dà loro nutrimento corre invisibile fin dal tempo in cui un presentimento si è

258 G. Pontiggia, Opere, cit., p. 1519. Nella Prefazione alla raccolta di aforismi curata da Gino Ruozzi per i Meridiani, Pontiggia scrive: «Io credo a un destino divinatorio implicito nelle radici delle parole e nelle prime onde della loro propagazione» (G. Pontiggia, Prefazione, in Scrittori italiani di aforismi, cit., p. XVI).

259 G. Pontiggia, Opere, cit., p. 1508.

260 A tale questione Pontiggia non accenna mai direttamente, se non nelle ultime pagine del saggio, quando avvalora un commento di Marcheschi all’ormai classico testo di H. Bloom, Il canone occidentale: «Credo che Bloom offra angolazioni illuminanti, non un criterio adottabile di scelta» (p.

articolato in suoni e una immagine, per la prima volta, è diventata una parola».

(1508-09)

Il tipo di etimologia che interessa Pontiggia, infatti, è proprio questa

«interrogazione dei significati originari» in grado di gettare una «luce inattesa» sulle questioni letterarie.

L’esplicitazione del nesso tra questa indagine etimologica sulla storia delle parole e una scrittura a prevalenza metaforica è affidato, come spesso accade, non a una proposizione principale ma ad una incidentale. Nel paragrafo Una chiosa su Marx e su Pascoli Pontiggia riflette sui cambiamenti di significato e di portata sociale che la parola “proletario” ha assunto dopo il manifesto di Marx e si domanda se tale tipo di indagine possa avere la forza di illuminare anche il nesso istituito nell’antichità da Gellio tra classicus proletarius. Si domanda, insomma, se la sua ermeneutica abbia o meno un valore generale, capace di dar ragione delle trasformazioni non solo letterarie, ma anche storiche, culturali e sociali. Ed è nella risposta affermativa a tale domanda che Pontiggia svela i termini della sua ermeneutica:

«Proletari è la parola che in Marx sostituisce, alla nozione di prole da offrire allo Stato, quella di forza lavorativa da trasformare in merce.

Ci si può allora domandare, all’interno di quella comprensione metaforica che è poi l’intelligenza analogica del mondo: ci aiuta questa immagine di proletario a capire Gellio quando scrive “classicus […] non proletarius»? Io credo di sì. Perché i classici possono essere trattati come merce, ma ne sono, nella loro essenza ideale la negazione». (1510)

Solo una ermeneutica fondata sulla metafora (solo abitando la metafora), si può comprendere il mondo, poiché esso ha una intelligenza (intellegibilità) analogica261. La forza della saggistica di Pontiggia è che egli fonda questa comprensione metaforica non su dei vagheggiamenti simbolisti, ma sul lavoro di studio della storia delle parole. Per tale motivo il ricorso all’indagine etimologica non è sfruttato solo

261 Anche per Quadrelli l’intelligenza dei significati è di natura metaforica: parlando della concezione di storia di Tito Livio (una concezione non corrotta, non moderna) dice che la sua opera cresce

«perché non è storia materiale, bensì storia di significati, che non “diminuiscono”, poiché alludono metaforicamente al tesoro inesauribile della saggezza nascosta della realtà» (R. Quadrelli, Il linguaggio della poesia, cit., p. 12).

nell’introduzione – come fosse un espediente retorico–, ma è una costante in tutto il saggio. Pontiggia interviene spesso a sottolinearne il valore ermeneutico:

«E i classici, all’epoca dei classici? Non esistevano. Ci sono voluti secoli prima che il censo più elevato passasse da una classe di cittadini a una classe di scrittori. E Gellio, l’erudito cui si deve la divulgazione della metafora forse più diffusa nella cultura occidentale, deve chiarirne l’origine, perché evidentemente è stata dimenticata. Pare sia una tendenza diffusa in ogni nobiltà quella di dimenticarne l’origine. E quando si risale agli dèi, è spesso per non scendere agli inferi. È probabile, come osserva Curtius in Letteratura europea e Medio Evo latino, che alla fortuna moderna della metafora fosse propizia proprio la sua incomprensibilità».

(1517)