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UN’ALTRA OCCASIONE

Nel documento Ricomincio da me (pagine 145-151)

Ricomincio da me L’identità delle scuole di seconda oc

UN’ALTRA OCCASIONE

Elaborazione di Sabrina Iotti ed Eugenio Paterlini.

Per qualche istante il bruco ed Alice si guardarono in silenzio. Infi ne il Bruco si tolse di bocca la pipa e, con voce languida e assonnata, chiese: “E tu chi sei?”

Questa non era certamente la maniera più incoraggiante per iniziare una conver-sazione. Alice rispose con voce timida: “ Io.. io non lo so, per il momento signore... al massimo potrei dire chi ero quando mi sono alzata stamattina, ma da allora ci sono stati parecchi cambiamenti”.

“Che vuoi dire?” disse il Bruco severo. “Spiegati!”

“Mi dispiace, signore, ma non posso spiegarmi” – disse Alice – “perché io non sono più io; capisce?”

“No” – disse il Bruco.

“Mi dispiace di non sapermi esprimere più chiaramente” – riprese Alice con molta gentilezza – “ma non ci capisco niente neppure io. Aver cambiato di statura tante volte in un sol giorno è una cosa che confonde parecchio, mi creda”.

Lewis Carrol, Alice nel paese delle meraviglie A tutti piace pensare di avere delle opportunità, delle carte da spendere nella vita;

poter avere delle occasioni nello studio, nel lavoro, nell’amore, per aff ermarci, rassicu-rarci e cercare di essere la persona bella che immaginavamo nelle fantasie piene di speranza di quando eravamo piccoli.

Il sogno dell’altra occasione diventa poi stringente, a volte ossessivo se scaturisce da situazioni o periodi di crisi evolutiva, diffi coltà di adattamento alle svolte del vivere, o da persistenti situazioni di carenza di opportunità e oggettivo svantaggio in campo culturale, scolastico, familiare.

Il progetto Icaro a Reggio Emilia esiste in virtù della scommessa che lo anima da ormai sette anni: Il nostro presupposto di partenza è che la crisi è il terreno dove inevitabilmente incontriamo gli adolescenti che prendono parte alle nostre attività.

La nostra scommessa è quella di trasformare la negatività e il pessimismo che questa crisi suscita in occasione evolutiva e propedeutica a nuovi equilibri e nuovi spazi di vita che trascendano e trasfi gurino lo svantaggio di partenza.

La declinazione operativa, la situazione contingente nella quale cerchiamo di per-seguire questo obiettivo politico e civile è la nostra “scuola della seconda opportuni-tà”; una scuola cioè dove si cerca di ristabilire un contatto tra due mondi che accade si sentano estranei: i ragazzi e la scuola, o ancora meglio i ragazzi e il loro percorso di formazione, fatto di scuola, di esperienze positive, di crescita.

Questo progetto vive di idee, di programmi di alte professionalità investite, ma soprattutto di persone.

Più che di teoria pedagogica o che di strumenti didattici è stato infatti necessario che il progetto si dotasse di persone di spiccata intelligenza relazionale, capaci di leggere situazioni, off rire stimoli e proposte, costruire ponti tra Alice e il suo Bruco. Il nostro rischio quotidiano non è infatti quello di “non insegnare bene” ma di non com-prendere e non comprenderci inaridendo così la relazione che è la prima e decisiva opportunità che off riamo ai nostri adolescenti.

Non era ancor di là Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da nessun sentiero era segnato.

Non fronda verde, ma di color fosco Non rami schietti, ma nodosi e involti, non pomi v’eran, ma stecchi con tosco.

Dante Alighieri, Inferno, Canto XIII, 1-6

Di certo stanno nella selva nodosa e involta. E quasi sempre non per scelta volon-taria o consapevole. Schiacciati dalla loro breve ma intensa storia, incerti negli anco-raggi familiari o sociali, sfi duciati della possibilità di riemergere dai fallimenti.

Così intercettiamo gli “icarini” nei loro primi approcci al progetto. Identità forti ma nascoste, spesso fi eri dell’immagine che gli adulti hanno di loro, ma pronti subito a rimetterla in gioco, a rilanciarla.

È così che li accogliamo, fragili e contraddittori ma sempre o quasi desiderosi di relazione.

L’azzardo è da sempre fondare il patto su queste premesse. Eppure raccolgono la sfi da con l’orgoglio di chi ha sempre un conto in sospeso e qualcosa da dimostrare.

Quasi tutti quindi “stringono contratto” e di nuovo si legano ad adulti con pretese ed attese: coordinatori, genitori, docenti.

Si danza. Giri e giravolte, piroette su noi stessi, presi tra le cantonate del Bruco di turno e la tensione all’armonia, alla bellezza di una coreografi a di successo.

Si danza confi dando sempre nelle proprie risorse e nella capacità di improvvisazio-ne del bravo artista di fronte agli imprevisti di scena.

Tutti “dentro”, impegnati ad utilizzare l’opportunità di costruire e camminare insie-me lungo un percorso, che porterà i ragazzi a conseguire la licenza insie-media.

Il contratto defi nisce ma non ingessa. È per noi uno strumento normativo, pro-spettico ma fl essibile, sensibile alle mutazioni attese o impreviste che il cammino educativo necessariamente comporta.

“Dio mio, quante cose strane succedono oggi. Ieri invece tutto andava liscio. Che sia stata scambiata stanotte? Vediamo un po’: quando mi sono alzata stamattina ero sempre la stessa? A ripensarci mi sembra di ricordare che mi sentivo un po’ diversa...

ma se non sono la stessa, allora mi debbo chiedere: chi sono? Ecco questo è il grande problema”.

Lewis Carrol, Alice nel paese delle meraviglie All’inizio dell’anno, quando ancora ci si conosce poco, gli “icarini”, come vengono chiamati in alcune occasioni, vanno a formare i gruppi-classe e iniziano a raccontare di sé. Raccontano con le parole, con i comportamenti, attraverso sfumature e inten-zioni. Raccontano con gli esercizi lasciati a metà, i temi scritti con calligrafi e tremolan-ti, le discussioni sulle regole e le responsabilità che si assumono con le loro scelte.

Alcuni arrivano dopo un lunghissimo periodo di assenza dalle aule, oppure sono reduci da una serie di bocciature. In diversi casi non conducono vite comode, aff ron-tano quotidianamente ostacoli anche più grandi di loro in famiglia, nelle scuole, nelle strade. Di certo non sono entusiasti all’idea di studiare, di impegnarsi, di fare fatica. Si assomigliano negli atteggiamenti e nell’abbigliamento: nel gruppo dapprima li con-fondo, non ricordo i nomi, le provenienze. Hanno vocione esagerate e occhi disorien-tati, alla ricerca di punti fermi.

Eccoli qua, gli Icaro del ventunesimo secolo.

Sono molto diversi dai dipinti che di loro escono per mano delle loro scuole di provenienza e delle loro famiglie. Sarà che è diversa la “diretta” del progetto rispetto alla “diff erita” di racconti o descrizioni o forse è davvero anche il contesto che defi nisce contorni e contenuti di chi abbiamo di fronte.

Credo che sia inevitabile di fronte a questo sdoppiamento chiedersi a cosa ser-ve tutta l’istruttoria del pre-progetto. Genitori, assistenti sociali, allenatori, consigli di classe o di Istituto, ore di colloqui per avere immagini sfuocate o a volte non veritiere su chi ti trovi poi di fronte. Istruttoria lunga, ma indispensabile. Analisi accurata dello specchio nel quale questi ragazzi si specchiano tutti i giorni, speranza dopo fallimen-to, pregiudizio e rete di sostegno insieme.

“Simbolo dell’eccesso e della temerarietà, dell’alterazione del giudizio e del co-raggio, fi ducioso delle proprie possibilità e poco consapevole dei suoi limiti”; questa defi nizione, trovata sul dizionario della mitologia alla voce Icaro, gli calza a pennello!

Avere a che fare con un personaggio del genere può mettere quanto meno in soggezione. Calma però, in fondo Icaro chi è? È prima di tutto un ragazzo.

Abbiamo tutti conosciuto o avuto a che fare con un Icaro nella nostra vita di educatori o di insegnanti, di adulti che accompagnano i più giovani per un pezzetto, cercando di indicare gli strumenti, dare le dritte, far vedere che si può trovare un’al-ternativa.

Quello che ho conosciuto io è un ragazzo sensibile, dall’apparenza disincantata e distratta, occhi profondi che si nascondono dietro un raro sorriso. Icaro viene tutte le mattine e si porta dietro il suo labirinto fatto di silenzio, pensieroso e nello stesso tempo in continuo fermento, che lo fa sentire scomodo sulla sedia.

Assomiglia all’uomo che cammina sui pezzi di vetro, il personaggio di una canzo-ne; me lo ha fatto notare un giorno Stefania, che lavora con me e con lui.

Mi ha detto: “Questa canzone sembra scritta per lui” e infatti ad un certo punto il testo dice:

“Cosa importa se ha vent’anni

e nelle pieghe della mano, una linea che gira e lui risponde serio è mia, sottintende la vita”.

Di questa sua esistenza parla poco, rimane sulla difensiva; ma qualche volta lascia intravedere qualcosa: piccolissime fi nestre sulla vita, che gli ha fatto del male e che continua a fargliene nei segni e nei tagli che ha sulle mani e sulle braccia, nelle scot-tature che si procura da solo. Però è l’unica che ha e la protegge come la cosa più preziosa.

Dalla sua biografi a iniziano ad emergere, prepotenti, altre notizie: scorribande not-turne, guai con la legge. Siamo in fi lo diretto con la sua scuola di provenienza. Insie-me cerchiamo spiegazioni, inventiamo scenari e immaginiamo strategie. Mai coInsie-me in questa vicenda la scuola e il progetto, che molti immaginano concorrenti, si alleano né nella prima né nella seconda occasione, ma nell’unica vera speranza di opportuni-tà che a questi ragazzi in questi frangenti possiamo off rire.

Chiediamo con insistenza un confronto con le forze dell’ordine. Capobanda, men-te del gruppo... non riusciamo a crederci, non ne ha la stoff a, non può essere leader.

Otteniamo un incontro con il maresciallo dei Carabinieri. Molti indizi, qualche vaga prova. Non sembrano all’orizzonte provvedimenti immediati. Chiamiamo la famiglia,

le off riamo sponde, spazi di fi ducia. Non hanno cognizione di come il fi glio trascorra il tempo, alternano accuse e lagnanze a chiusure difensive riproponendo quell’ambiva-lenza che regna sovrana in ogni gesto e atteggiamento che ora noi conosciamo bene.

Eppure qui vediamo un altro lato di lui, un aspetto che forse nemmeno lui ricono-sce. Sembra infatti non riuscire a credere in quello che gli diciamo ad ogni occasione, che vale la pena rischiare, che ci sia la possibilità di riprovarci, di rimettersi in gioco con entusiasmo e fi ducia.

La fi ducia... è forse quella che Icaro ha perso; fi ducia negli adulti, nella scuola, fi du-cia persino in sé stesso e nelle proprie capacità.

Certo lui si presenta sicuro, a volte spavaldo. Ma nei suoi occhi si legge la paura di cascarci ancora una volta, di fi darsi ed essere preso al laccio.

Ogni tanto, però, ci accontenta e ci dimostra che lui c’è e le cose le sa fare: “Io ingle-se lo facevo a scuola, non è diffi cile”, oppure parla ai compagni di dignità e di responsa-bilità con toni bassi e parole pesanti, che lasciano gli altri ammirati e stupiti.

Spesso questo ci basta, anzi ci ripaga di tanto sforzo per declinare materie e conte-nuti in linguaggi abbordabili, in continuità con i saperi pregressi che abbiamo saputo registrare nella nostra platea e duttili per essere plasmati e resi riproducibili non dai nostri ma dai loro codici.

Ci osserva Icaro, studia la nostra presunta coerenza buttando sul piatto elementi nuovi, come per verifi care.

Quando ci conosciamo un po’ meglio, sembra decidere che può regalarci un pezzetto in più del suo puzzle, traccia segni colorati sui pannelli del laboratorio ar-tistico di Stefano e vi rappresenta il suo cervello e il suo cuore. Restando in silenzio lascia parlare i colori che ha dentro e gli oggetti che ha scelto per identifi carsi; oggetti provocatori, pericolosi.

“Ecco fatto, vediamo che cosa ve ne fate adesso”, sembra intendere con i suoi mezzi sorrisi.

A volte mentre sorride e si lascia un po’ andare, ci sorprende con espressioni pro-fonde, oppure battute ironiche; sembra più grande degli altri ragazzi e questa cosa gli pesa, quasi che si senta già vecchio, già troppo stanco.

In questi fotogrammi a fatica lo immaginiamo in un futuro stage lavorativo. Ci spa-venta doverlo consegnare a mani straniere che nonostante le buone intenzioni a fatica ne comprenderebbero contraddizioni e fragilità.

Lo sottovalutiamo forse due volte: sia nella capacità di adattamento a nuovi con-testi e nuove situazioni, sia nella pervicacia con cui riesce a non farsi coinvolgere in stimoli e attività che in quel momento non lo interessano. I due stages sono stati la

nostra bussola per cogliere anche questi aspetti: indizi ancora mancanti per un rebus da enigmisti esperti.

Giorno per giorno, però, mette in luce e inizia a spendere le sue risorse: è serio, re-sponsabile, porta a termine gli impegni; in cucina per esempio è davvero bravissimo e sa dimostrare competenza e cura per quello che fa.

Con Enrica che conduce il laboratorio è praticamente amore a prima vista.

Ci sta conquistando con il suo fare garbato e i modi asciutti, ci dimostra che ci sta provando negli impegni che si prende; sono convinta che si stia anche divertendo, nel trovare conferma delle sue capacità, nello sperimentare questa nuova situazione.

In certi momenti sembra in bilico, alla ricerca di qualcosa di nuovo, ma ancora in-capace di osare. Gli piacerebbe, si capisce, ma non sa se ce la fa. La canzone dei pezzi di vetro continua:

“Lui ti off re la sua ultima carta,

il suo ultimo prezioso tentativo di stupire, quando dice:

È quattro giorni che ti amo, ti prego non andare via, non lasciarmi ferito”.

Tocca allora anche a noi guidarlo attraverso il labirinto?

Entrare a prenderlo per mano e andare alla ricerca di un varco, superando gli osta-coli: piano, delicatamente rimanendo per terra insieme a lui, senza lasciarlo volare via da tutto e da tutti, all’improvviso.

La prospettiva dell’abbandono ci provoca e impensierisce parecchio. Siamo più impegnati a pensare cosa succederà dopo che a rifl ettere su un bilancio del percorso fatto. Ci confrontiamo e ne parliamo spesso, di lui più che di molti altri, purtroppo. Non abbiamo molti dubbi sul fatto che abbia fatto un pezzo di strada. Più diffi cile è legger-la, decodifi carla e soprattutto valutare se le radici cresceranno, reggeranno agli urti.

L’esperienza – ci chiediamo spesso – la breve esperienza di pochi mesi ha linfa suffi ciente per diventare vita?

Sembra che questa sia diventata la nostra questione irrisolta. Sembra segnare tut-to il nostro lavoro e non sappiamo dire se per evidenziare il limite temporale del no-stro progetto o perché ricadiamo nel desiderio di onnipotenza per il quale tutti gli esperti ci consigliano di attrezzare una buona difesa.

Dobbiamo prepararlo all’esame perché verbalizzi! – decidiamo con una certa en-fasi un giorno.

Allenarlo a parlare del suo percorso dovrebbe infatti permetterci di verifi care se ha davvero interiorizzato apprendimenti e atteggiamenti che spesso ci hanno spiazzati, tanto ci parevano veri ed improvvisi.

Con questo imperativo categorico ci avviamo verso la conclusione dell’anno sco-lastico. Intensifi chiamo ancora gli spazi per la relazione, soprattutto con quegli adulti che lui ha mostrato di preferire. Ipotizziamo anche una protezione estiva ed un per-corso guidato verso la formazione professionale che verrà.

Esame con alti e bassi.

Il nostro orgoglio di fronte alla serietà del suo impegno, la nostra delusione perché l’allenamento a verbalizzare non ha dato tutti i frutti sperati. La sua fi erezza “per aver-cela fatta per la prima volta nella vita”, la nostra rassegnazione a non avere certezze sugli impegni per il dopo-progetto.

Un percorso vero. Non confezionato, non precostituito. Non tragico e dal fi nale non scontato.

Un percorso ambivalente. Come lui, come il suo mondo e forse come molti di noi, ogni giorno.

Il frutto per gli adulti in prima linea è senza dubbio ripensare che ancora una volta ambivalenza e verità in educazione coesistono e non si elidono a vicenda.

Icaro ce l’ha fatta, ha fi nito l’anno, ha conseguito la licenza media; questa tappa importante gli ha fatto vedere che c’era una strada aperta.

Ora è estate, nuove luci e nuovi colori, che portano l’idea del rinnovamento. Mi piace pensare che le opportunità dei ragazzi non si esauriranno con la seconda, ma che da questa ne germoglino altre, sempre nuove e impensate, in un disegno simme-trico di rami che si allungano verso il cielo.

Nel documento Ricomincio da me (pagine 145-151)