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1.3 La Convenzione dell’Aja del 1985 sulla legge applicabile ai trusts

1.3.2 Le problematiche incontrate

1.3.2.2 Il trust interno

1.3.2.2.2 L’ammissibilità

Non sono mancati in dottrina e giurisprudenza dibattitti sulla possibilità di istituire un trust interno in Italia; la norma che ha fatto molto discutere è rappresentata dall’art. 13 della Convenzione dell’Aja:

“Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione”

In particolare, il dibattitto si è concentrato sulla natura della Convenzione dell’Aja e sulla possibile violazione di alcuni principi presenti nel nostro ordinamento giuridico, ovvero il numerus clausus dei diritti reali, l’unicità del diritto di proprietà e la responsabilità generale del debitore ex art. 2740 c.c.

Con riferimento al primo aspetto, i sostenitori della tesi favorevole80 ritengono che l’art. 13 preveda una facoltatività in riferimento al

79 Una conferma di tali affermazioni è data dalla sentenza recentissima del Tribunale

di Lucca citata precedentemente. Infatti il giudice afferma che: “nel nostro

ordinamento il testamento può istituire un trust, purché non sia contrario alle norme dettate in materia di successione necessaria e non sia contrario a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume”, e conclude accettando la domanda di

riduzione proposta dalle figlie del de cuius dato che riscontra la presenza di una lesione della quota di legittima.

80 Per la giurisprudenza: sentenza del Tribunale di Bologna n. 4545 del 1° ottobre

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riconoscimento di un trust interno e che tale norma sia rivolta al giudice, arbitro imparziale dei casi concreti verificantesi nella prassi. La presenza della facoltatività sarebbe testimoniata sia dal fatto che lo Stato italiano si è limitato a recepire la Convenzione dell’Aja senza apporre una riserva in riferimento a quanto disposto dall’art. 13, con la quale avrebbe potuto predisporre il divieto del riconoscimento di tale tipologia di trust, sia dai lavori preliminari riguardanti tale disposizione, dai quali è possibile ricavare il respingimento delle proposte inerenti l’inserimento di un divieto di riconoscimento del trust meramente interno. Quindi può avvenire l’istituzione di tale tipologia di trust nel nostro ordinamento, ma dovrà essere il giudice a compiere un controllo sull’ammissibilità nel caso concreto, che dovrà riguardare il programma concreto portato avanti attraverso l’utilizzo dell’istituto straniero81.

luglio 2005, in AA. VV., op. cit., pp. 51 – 59; sentenza del Tribunale di Reggio Emilia del 27 agosto 2011, in Trusts e attività fiduciarie, n. 1, 2012, pp. 61 – 82. Per la dottrina: P. Piccoli, Possibilità operative del trust nell’ordinamento italiano.

L’operatività del trustee dopo la Convenzione dell’Aja, in Rivista del notariato, n. 1

– 2, 1995, pp. 37 – 70; L. Panzani, Il trust nell’esperienza giuridica italiana: il

punto di vista della giurisprudenza e degli operatori, in Giurisprudenza di merito, n.

10, 2010, pp. 2934 – 2953; M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust negli

ordinamenti di origine e in Italia, Cedam, Padova, 2016, pp. 261 – 280.

81 Per sostenere tale affermazione è utilizzato da parte dei fautori della tesi

favorevole un passaggio presente nella sentenza della Corte di Cassazione 10105 del 9 maggio 2014: “… il “programma di segregazione” corrisponde solo allo schema

astrattamente previsto dalla Convenzione, laddove il programma concreto non può che risultare sulla base del singolo regolamento di interessi attuato,…Quale strumento negoziale astratto, il trust può essere piegato invero al raggiungimento dei più vari scopi pratici; occorre perciò esaminare, al fine di valutarne la liceità, le circostanze del caso di specie, da cui desumere la causa concreta dell’operazione…” (p. 420)

Il testo di tale sentenza è rinvenibile in Trusts e attività fiduciarie, n. 4, 2014, pp. 416 – 423.

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Coloro che aderiscono alla tesi contraria all’ammissibilità di un trust interno82 si basano sulla concezione che la Convenzione dell’Aja del

1985 sia una convenzione di diritto internazionale privato, ovvero dirima i conflitti di legge che si verificano tra gli Stati, e non una convenzione di diritto sostanziale uniforme, ossia non introduce il trust all’interno di ordinamenti giuridici che non lo conoscono83. Nel caso di un trust interno siamo di fronte a un fenomeno domestico, in cui non è presente un problema di risoluzione di conflitti tra leggi di Paesi diversi. Quindi per poter applicare la Convenzione dell’Aja è necessaria la presenza di elementi di internazionalità ulteriori rispetto alla legge regolatrice.

82 Per la giurisprudenza: sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 14

luglio 1999, in AA. VV., op. cit., pp. 367 – 368; decreto del Tribunale di Belluno del 25 settembre 2002, in AA. VV., op. cit., pp. 285 – 305; ordinanza del Tribunale di Velletri del 29 giugno 2005, in AA. VV., op. cit., pp. 62 – 76; decreto del Tribunale di Belluno del 12 febbraio 2014, rinvenibile al sito web: www.ilcaso.it, URL: http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/11538.pdf (6 febbraio 2018); decreto del Tribunale di Udine del 28 febbraio 2015, in Trusts e attività fiduciarie, n. 4, 2015, pp. 375 – 380; ordinanza del Tribunale di Monza del 13 ottobre 2015, in

Trusts e attività fiduciarie, n. 4, 2016, pp. 393 – 394.

Per la dottrina: F. Galluzzo, Il trust c.d. interno e i negozi di destinazione dei beni

allo scopo, in La nuova giurisprudenza civile commentata, n. 2, 2005, pp. 85 – 100. 83 Tribunale di Belluno del 25 settembre 2002, cit.: “…lo scopo della Convenzione è quello di permettere ai trust costituiti nei paesi di common law di operare anche nei sistemi di civil law… ne è derivata una Convenzione che, accanto alla creazione di norme comuni di diritto internazionale privato (di conflitto) sul trust (v. Capitolo II, Legge applicabile), prevede il riconoscimento, da parte dei paesi firmatari che non conoscono il trust, degli effetti di un istituto estraneo al loro sistema tradizionale (v. Capitolo III, Riconoscimento).

Tale finalità non può essere confusa con quella…di introdurre surrettiziamente il trust all’interno di ordinamenti che per tradizione non lo prevedono…la Convenzione dell’Aja…rimane comunque pur sempre una Convenzione in tema di conflitto di leggi e non ha assunto il carattere di Convenzione di diritto sostanziale uniforme” (p. 296).

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Inoltre l’art. 13 non è rivolto al giudice, ma allo Stato; infatti laddove quest’ultimo ha la volontà di permettere la creazione di trusts interni deve adottare una disposizione interna. Nel caso dell’Italia ciò non si è verificato, per cui è desumibile la presenza di un divieto di istituire tale tipologia di trust nel nostro ordinamento giuridico, che funziona come limite generale e oggettivo, ovvero opera al di là della presenza di un’intenzione fraudolenta del costituente e dello scopo che viene perseguito.

Una particolare attenzione merita il secondo profilo su cui si è concentrato il dibattito sull’ammissibilità del trust interno, ovvero l’affermazione della violazione di alcuni principi di ordine pubblico da parte di coloro che ne negano l’ammissibilità.

L’ordine pubblico è un limite posto per tutelare la coerenza interna di un ordinamento. In un mondo sempre più globalizzato è impossibile ignorare la presenza di un apparato sovranazionale e questo ha avuto ripercussioni anche sulla concezione del limite dell’ordine pubblico, che ha subito un’evoluzione nel corso del tempo.

Infatti, nel momento in cui entrò in vigore il c.c. del 1942 era presente una concezione statualista, da cui derivava la sovrapposizione dell’ordine pubblico internazionale e di quello interno, considerando il primo coincidente con i principi appartenenti al secondo.84 In realtà

tale impostazione si rivelò errata, soprattutto quando fu realizzata la Costituzione del 1948, che con gli artt. 10, 11 e 117 costruisce un coordinamento dell’ordinamento italiano con quello sovranazionale.

84 In questo periodo la norma di riferimento era l’art. 31 delle disposizioni sulla

legge in generale, abrogata con la l. 218 del 1995, e il testo dell’articolo era il seguente:

“Nonostante le disposizioni degli articoli precedenti, in nessuno caso le leggi e gli atti di uno Stato estero, gli ordinamento e gli atti di qualunque istituzione o ente, o le private disposizioni e convenzioni possono avere effetto nel territorio dello Stato, quando siano contrari all’ordine pubblico o al buon costume. L’ordine corporativa fa parte integrante dell’ordine pubblico”.

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Di conseguenza, i principi dell’ordine pubblico internazionale furono considerati distinti da quelli dell’ordine pubblico interno, altrimenti non vi sarebbe stato spazio per l’applicazione di norme straniere richiamate dalle disposizioni di diritto internazionale privato85. In questo modo i principi dell’ordine pubblico internazionale furono considerati come condizionati dall’ordinamento particolare di uno Stato, ma per comprenderne la portata dovevano essere inquadrati in una civiltà più ampia rispetto a quella statale86.

Con l’entrata in vigore della l. 218 del 1995 sul diritto internazionale privato87 non è presente una definizione di ordine pubblico, dato che con gli artt. 16, 64 e 65 si limita a prevedere che né una legge straniera né una sentenza o un provvedimento straniero possano trovare

85 G. Barile, voce “ordine pubblico (dir. Internaz. priv.)”, in Enciclopedia del diritto, Annali XXX, Giuffré, Milano, 1980, pp. 1106 – 1124: “Se, contro le considerazioni prima svolte, accolte anche dalla nostra migliore giurisprudenza, i principi di ordine pubblico internazionale fossero da identificarsi formalmente con quelli che sono al sommo della gerarchia dell’ordinamento statale, si dovrebbe necessariamente giungere alla conseguenza che, poiché questi ultimi interessano, in linea di massima, direttamente o indirettamente, buona parte delle norme dell’ordinamento interno, poco posto rimarrebbe per l’applicazione di norme straniere pur regolarmente richiamate dal diritto internazionale privato”.

86 Ibidem: “…attuali principi di ordine pubblico internazionale…non si

identificano…con quei principi fondamentali dell’ordinamento statale da considerarsi talmente essenziali da impedire l’applicazione, nel territorio dello Stato, di qualsiasi diritto straniero ad essi non conforme…pur rimanendo essi fortemente condizionati nella loro esistenza dal fatto storico costituito dall’ordinamento statale di detta comunità, non sono «inquadrabili» formalmente in quest’ultimo come suoi principi, ma vanno letti, al fine di comprenderne l’esatta portata ed il loro reale modo di funzionare, alla luce di una civiltà più ampia nella quale vive e agisce la comunità statale che li esprime”.

87 Il testo di tale legge è rinvenibile al sito web: www.gazzettaufficiale.it, URL:

http://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?att o.dataPubblicazioneGazzetta=1995-06-

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applicazione nell’ordinamento italiano, laddove siano contrari all’ordine pubblico.

Nella definizione di tale concetto ha svolto un ruolo chiave la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che già con una sentenza del 2006 ha definito l’ordine pubblico come l’insieme dei principi etici, politici e sociali, caratterizzanti un ordinamento giuridico in un determinato periodo storico88.

È ricavabile da questa definizione una caratteristica importante di tale limite, ovvero la sua relatività non solo nello spazio ma anche nel tempo; di conseguenza il giudice, che è colui a cui è affidato il compito di rinvenire un’eventuale violazione dell’ordine pubblico, dovrà compiere tale controllo tenendo di conto del periodo storico in cui si trova, di modo da poter affermare se un determinato principio sia qualificabile o meno come di ordine pubblico.

L’evoluzione del limite qui analizzato non si è fermata e ne è una testimonianza la sentenza recente delle SS.UU. della Corte di Cassazione del 201789, affrontante il tema della possibilità di riconoscere una sentenza straniera, che preveda un risarcimento dei danni comprendente i c.d. punitive damages, ovvero un risarcimento del danno superiore rispetto al danno stesso.

88 Si tratta della sentenza 27592 del 28 dicembre 2006, in Famiglia e diritto, n. 12,

2007, pp. 1113 – 1117, affermante che l’ordine pubblico è formato “…da

quell’insieme di principi, desumibili dalla Carta Costituzionale o, comunque, pur non trovando in essa collocazione, fondanti l’intero assetto ordinamentale…tali da caratterizzare l’atteggiamento dell’ordinamento stesso in un determinato momento storico e da formare il cardine della struttura etica, sociale ed economica della comunità nazionale conferendole una ben individuata ed inconfondibile fisionomia”

(p. 1115).

89 Si tratta della sentenza della Corte di Cassazione SS. UU. 16601 del 5 luglio 2017,

rinvenibile al sito web: www.italgiure.giustizia.it, URL: http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db =snciv&id=./20170705/snciv@sU0@a2017@n16601@tS.clean.pdf (4 Febbraio 2018).

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Anche se la tematica della presente tesi non riguarda la controversa questione in merito ai punitive damages, tale sentenza assume una sua importanza perché è presente l’affermazione dell’evoluzione del principio dell’ordine pubblico, da una concezione, legata essenzialmente all’ordinamento nazionale e a quelli che sono i suoi principi fondamentali, presenti in un determinato periodo storico, a una dove assumono importanza le garanzie apprestate dalla Carta di Nizza rispetto ai diritti fondamentali90.

In conclusione è possibile osservare che l’elemento sovranazionale si unisce a quello nazionale del singolo Stato per costruire un ordine pubblico di più ampio respiro, che permette nel corso del tempo di poter cambiare concezione rispetto a un determinato tema. Ne costituisce un esempio la sentenza appena richiamata, dove viene predisposta la possibilità di riconoscimento in Italia di una sentenza straniera, anche laddove siano presenti dei danni punitivi, cosa che in passato non sarebbe stata immaginabile, data la presenza di un sistema di responsabilità civile, in cui era inconcepibile un risarcimento del danno di valore superiore al danno stesso.

Naturalmente nel formulare il principio di diritto la Suprema Corte inquadra la riconoscibilità della sentenza, prevedente anche punitive damages, entro dei limiti, ovvero quest’ultima deve essere stata pronunciata in un ordinamento dove sono previsti ipotesi tipiche di

90 Ibidem: “Ciò che va registrato è senz’altro che la nozione di “ordine pubblico”, che costituisce un limite all’applicazione della legge straniera, ha subito profonda evoluzione. Da “complesso dei principi fondamentali che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità nazionale in un determinato periodo storico, e nei principi inderogabili immanenti nei più importanti istituti giuridici” (così Cass. 1680/84) è divenuto il distillato del “sistema di tutele approntate a livello sovraordinato rispetto a quello della legislazione primaria, sicché occorre far riferimento alla Costituzione e, dopo il trattato di Lisbona, alle garanzie approntate ai diritti fondamentali dalla Carta di Nizza, elevata a livello dei trattati fondativi dell’Unione europea dall’art. 6 TUE (Cass. 1302/13)”.

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condanna e limiti quantitativi e dove è possibile la prevedibilità della stessa91.

Tornando all’analisi dell’ammissibilità del trust interno il primo principio di ordine pubblico a essere richiamato è quello del numerus clausus dei diritti reali92, che non è codificato, ma ricavabile dalla legislazione nel suo insieme. Ha subito un mutamento nel corso del tempo dato che è nato per risolvere un problema di organizzazione, ovvero per permettere una gestione efficiente evitando la concorrenza di più diritti reali su uno stesso bene, ma per diversi fattori – la creazione di un sistema di pubblicità dichiarativa per gli atti trasferenti la proprietà o altro diritto reale; le limitazioni della proprietà a causa della pianificazione urbanistica o dell’edilizia pubblica o per la migliore organizzazione delle risorse; la nascita di nuovi diritti reali parziari; l’emergere di nuovi vincoli sulla proprietà – è divenuto funzionale alla risoluzione di un problema di comunicazione, ossia permette che ai terzi siano fornite informazioni chiare e precise di modo da rendere sicure le contrattazioni.

91 Ibidem: “E’ quindi possibile enunciare il seguente principio di diritto:

Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lezione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile.

Non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico”.

92 Per una ricostruzione dell’evoluzione di tale principio: U. Morello, Tipicità e numerus clausus dei diritti reali, in Trattato dei diritti reali (diretto da Gambaro A.

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Il secondo principio, richiamato come ostacolo all’istituzione di un trust interno, è rappresentato dall’unicità del diritto di proprietà. La diversità presente tra Paesi di civil law e quelli di common law in riferimento al diritto di proprietà è già stata descritta in precedenza; infatti i primi sono connotati dall’unicità, che si profila come la possibilità di avere un solo diritto di proprietà che insiste su uno stesso bene, mentre i secondi prevedono una convivenza di un legal estate, di cui è titolare il trustee, e di un equitable estate, appartenente al beneficiario93.

Infine è presente il principio della responsabilità generale del debitore ex art. 2740 c.c., che è derogabile solamente attraverso una disposizione di legge.

La sua natura di principio di ordine pubblico non può essere messa in discussione, in quanto ha la funzione di presidiare la tutela del credito insieme al principio della par condicio creditorum, predisposto dall’art. 2741 c.c. Infatti il legislatore del 1942 ha posto la disciplina della responsabilità patrimoniale al di fuori del libro delle obbligazioni, appoggiando la tesi che in riferimento al rapporto tra debito e responsabilità considerava quest’ultima come non appartenente alla fattispecie costitutiva dell’obbligazione.

In questo modo la responsabilità patrimoniale è stata elevata a principio di ordine pubblico, a differenza di quanto era successo in passato con il codice Pisanelli del 1865 e con il Code civil francese; nello specifico, quest’ultimi avevano fondato la tutela del credito su un sistema efficiente di cause di prelazione, per cui la responsabilità generale del debitore e la par condicio creditorum assumevano importanza solo laddove il creditore non si fosse munito di adeguata garanzia94.

93 Vedi paragrafo 1.1.2 di questo capitolo.

94 A. Morace Pinelli, Atti di destinazione, trust e responsabilità del debitore, Giuffré,

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I sostenitori della tesi favorevole all’ammissibilità del trust interno ritengono che non vi sia violazione di principi di ordine pubblico, dato che nel trust vi è la presenza di un solo diritto di proprietà95, che spetta al trustee, e la deroga legislativa all’art. 2740 è rappresentata dall’art. 11 della Convenzione96. Inoltre aggiungono che comunque il principio del numerus clausus dei diritti reali e quello della responsabilità generale del debitore sono stati erosi nel corso degli anni, data la presenza di sempre più casi che derogano all’uno o all’altro97.

95 Tribunale di Bologna n. 4545 del 1° ottobre 2003, cit.: “…l’effetto segregativo si verifica perché i beni conferiti in trust non entrano nel patrimonio del trustee se non per la realizzazione dello scopo indicato dal settlor e col fine specifico di restare separati dai suoi averi (pena la mancanza della causa di trasferimento). Pertanto, non può parlarsi di acquisizione al patrimonio del trustee di detti beni (nemmeno come beni futuri): si tratta, insomma, di una proprietà «qualificata» e «finalizzata», introdotta dagli articoli 2 e 11 della Convenzione dell’Aja in aggiunta a quella conosciuta dal codice civile del 1942” (p. 219).

M. Lupoi, op. cit., p. 263: “…il diritto del trustee è un ordinario diritto di proprietà

o, secondo i casi, di credito che può quindi formare oggetto degli ordinari procedimenti pubblicitari”.

96 Tribunale di Reggio Emilia del 27 agosto 2011, cit.: “…l’effetto segregativo è espressamente previsto dalla Convenzione dell’Aja all’art. 11 e la norma convenzionale assume, sul punto, la natura di norma di diritto materiale uniforme: solo così si spiega, difatti, il motivo per cui il testo convenzionale sancisce espressamente l’effetto minimo ed automatico della distinzione del patrimonio in trust da quello personale del trustee, caratteristica che è essenziale ai trust tradizionalmente conosciuti nei paesi di common law e che, perciò, non sarebbe stato necessario ribadire (se non per significare che la disposizione convenzionale fa ingresso nell’ordinamento interno per tutti i trust riconosciuti dalla Convenzione)” (p. 76).

97 Per quanto riguarda la responsabilità generale del debitore basta pensare al fondo

patrimoniale, al mandato, agli intermediari gestenti investimenti in base all’art. 22 del decreto legislativo 58 del 1988, ai patrimoni destinati a uno specifico affare. Per il numerus clausus dei diritti reali è possibile fare riferimento per esempio ai