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Ancora finzione: dialogo a distanza con il postmoderno.

2. Finzione del testimone e finzione letteraria

2.5. Ancora finzione: dialogo a distanza con il postmoderno.

Il rapporto di Levi con la finzione si presenta complesso non sono per il ruolo di testimone che l’autore ha assunto prima essere riconosciuto scrittore, ma viene imposto anche dal clima culturale italiano degli anni Settanta. In pieno postmoderno tutto ruota attorno al concetto di finzione. Ad accomunare autori diversi, come ad esempio Manganelli e Calvino, concorrono due fattori: il rifiuto della tradizione realista e quello per il romanzo139. Manganelli su queste considerazioni ha una posizione piuttosto estrema:

138 BALDISSONE 2015, p. 20. 139 DONNARUMMA 2014, p. 31.

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I romanzieri sono persone serie, o si comportano come tali. Sono persuasi che nelle loro pieghe del raccontare debba essere disposto il coonestante aroma di una qualche idea generale, di un messaggio […] Dimentico che non v’è discorso letterario se non come macchinazione, il romanziere si è via via persuaso che quel che egli faceva aveva qualcosa a che fare con il mondo in cui viveva […] il romanzo era volta a volta specchio, testimonianza, interpretazione140.

L’errore del romanziere è quello di pensare che tra la realtà e la pagina scritta esista un qualsiasi tipo di rapporto, mentre per Manganelli la scrittura è un meccanismo autonomo. Manganelli ha un’idea di letteratura come menzogna e dello scrittore come un buffone che non si pone nessun obbligo nei confronti della realtà e tantomeno verità:

L’oggetto letterario è oscuro, denso, direi pingue, opaco, fitto di pieghe casuali, muta costantemente linee di frattura, è una taciturna trama di sonore parole. Totalmente ambiguo, percorribile in tutte le direzioni, è inesauribile ed insensato. La parola letteraria è infinitamente plausibile: la sua ambiguità la rende inconsumabile. Proietta attorno a sé un alone di significati, vuol dire tutto e dunque niente. Nella sua fragile, incorruttibile carne non nasconde alcun tumore di Weltanschauung [LCM 221].

Calvino, che inizialmente ha aderito alla poetica del neorealismo, se ne distacca a partire dalle Cosmicomiche, edite per la prima volta nel 1965. La posizione di Calvino è più moderata rispetto a quella di Manganelli ma esprime comunque una difficoltà di fondo. Per parlare di realtà e scrittura Calvino conia due espressioni proprie: non esiste una realtà al fuori di fuori del linguaggio, ma soltanto un «mondo scritto» e un «mondo non scritto»:

Credo che nella mia gioventù le cose andavano in questo modo, ma a quell’epoca m’illudevo che mondo scritto e mondo non scritto si illuminassero a vicenda; che le esperienze di vita e le esperienze di lettura fossero in qualche modo complementari […] Oggi posso dire che […] all’interno dei libri l’esperienza è sempre possibile, ma la sua portata non s’estende al di là del margine bianco della pagina. […] se sentiamo così intensamente l’incompatibilità tra lo scritto e il non scritto, è perché siamo molto più consapevoli di cos’è il mondo scritto […] siamo consapevoli che quando ci viene raccontata una storia […] questo racconto è messo in modo da un meccanismo simile ai meccanismi di ogni altro racconto [MS 1865-1869].

È evidente come Levi abbia molto poco a che spartire con il postmoderno: infatti rispetto alle innovazioni postmoderne Levi può essere definito un «fossile letterario»141 tanto da un punto di vista stilistico, quanto dal punto di vista dei temi. Per Levi il rapporto

140 MANGANELLI 1966, p. 173. 141 BELPOLITI 2015, p.

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tra testo e la realtà è tutt’altro che compromesso: la sua scrittura nasce come testimonianza di un evento storico e non abbandona mai l’obbiettivo della comunicazione. Nel Sistema

periodico viene portata all’attenzione dei lettori l’esperienza del singolo, del tecnico

chimico, con l’intento di far conoscere un po' meglio questo mestiere, spesso percepito come «arido, misterioso e sospetto» [AP 1393]. Si tratta di un testo costruito, che si avvale pienamente della finzione per arricchire il racconto di significato. Anche il gioco linguistico il Levi si muove in questa direzione. Perseguendo la teoria di uno scrivere chiaro, per Levi le parole hanno tutte un significato ben preciso e se ne impiega una al posto di un’altra, non è per intorbidire il senso della frase, ma per renderlo più trasparente e al tempo stesso più ricco. Il fine della scrittura è la comunicazione e a questo si addice uno stile chiaro. Di questo Levi scrisse nell’articolo già citato Dello scrivere oscuro (11 dicembre 1976) che portò all’apertura di una polemica proprio con Manganelli:

Perciò, a chi scrive nel linguaggio del cuore può accadere di riuscire indecifrabile, ed allora è lecito domandarsi a che scopo egli abbia scritto: infatti (mi pare che questo sia un postulato ampiamente accettabile) la scrittura serve a comunicare […] e chi non viene capito da nessuno non trasmette nulla, grida nel deserto […] Chi non sa comunicare, o comunica male, in un codice che è solo suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità intorno a sé. Se comunica male deliberatamente, è un malvagio, o almeno una persona scortese, perché obbliga i suoi fruitori alla fatica, all’angoscia, o alla noia […] il mugolio animale è accettabile da parte degli animali, dei moribondi, dei folli e dei disperati: l’uomo sano ed intero che lo adotta è un ipocrita o una sprovveduto [AM 840-843].

A poca distanza dalla pubblicazione dell’articolo di Levi, 3 febbraio 1977, Manganelli risponde sulle colonne del Corriere della sera con l’Elogio dello scrivere oscuro in cui esprime la sua «profonda costernazione» per le parole di Levi. Che i due autori la pensino in modo nettamente diverso si capisce fin dalle prime righe dell’articolo di Manganelli:

Come è difficile, polemizzare, dibattere, discutere, con uno scrittore che per altri versi consideriamo un amico, anche se amico separato. Come al telefono, diffidiamo del tono della nostra voce e sottoponiamo le parole altrui ad una ermeneutica estenuante. […] Sta di fatto che questa è la terza volta che mi trovo a ascrivere un articolo in nota, risposta, replica, discussione di un articolo di Primo Levi […] il tema è di stirpe secolare, nel 2077 una mia reincarnazione, probabilmente ringhiosamente canina, latrerà alle spalle di un Levi che mi piace pensare in nobile addobbo a cavallo di una candida chinea, futuribile equivalente di una Rolls-Royce [RSP 36-37].

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Manganelli non va dritto al nocciolo della questione, bensì ci gira intorno, dilatando il discorso ricorrendo a similitudini intricate e sarcastiche, ma che lasciano pochi dubbi sul fatto che non condivida affatto lo scritto di Levi. Innanzi tutto Manganelli trova che l’articolo di Levi sia «prima che una dichiarazione di poetica […] la descrizione di un modo di vivere intellettuale», ma ciò che più lo trova in disaccordo è la riflessione sulla razionalità e sulla sanità della scrittura:

Prenderò due coppie di termini […] che mi hanno comunicato un senso di disagio, mescolato ad un messaggio di disperazione ben educata e ragionevole. La prima coppia è «l’inconoscibile e irrazionale», la seconda «è meglio essere sani che insani». L’uso della parola ՙirrazionale’ in un’accezione nitidamente negativa o inaccessibile mi getta in una profonda costernazione […] Mi domando come ad uno scrittore possa venire in mente di essere un caso tipo di ՙrazionalità’ trionfante. […] Vogliamo dire che la ՙrazionalità’ è un mito difensivo? Comunque io lo dico. Perché è meglio essere ՙsani’ che ՙinsani’? E che vuol dire essere ՙsani’? il privilegio della ՙsanità’ mi suona come un tipico caso di terrorismo assistenziale […] quello che sospetto è che, in quanto scrittore, gli prema ridurre sotto controllo i contatti con il caos: possibilmente occultarli. […] Levi ammette di non capire quello che ha scritto. Vogliamo dire che è un incompetente, giacché lavora a cosa che ՙnon capisce’? Ahimè sì. Tentiamo una definizione: lo scrittore è colui che è sommamente, eroicamente incompetente di letteratura [RSP 38].

La posizione di Manganelli sullo statuto dello scrittore è nuovamente estrema: razionalità e sanità sono dei miti che sfuggono ad una definizione, ma che hanno un forte potere consolatorio ed esorcistico del caos insito nel mondo e connaturato anche al mestiere dello scrivere. Lo scrittore non è razionale né sano, anzi è un fool: «l’essere approssimativamente umano che porta l’empietà, la beffa, l’indifferenza fin nei pressi del potere omicida»142.

Levi replicò In Dello scrivere oscuro. Lettera a Giorgio Manganelli, articolo pubblicato sul Corriere della sera il 25 marzo del 1977. Rispetto a Manganelli, Levi marca nettamente le distinzioni:

Questa è la prima volta che mi lascio coinvolgere in una schermaglia polemica; ma non è una schermaglia equa, come è facile da vedere: infatti, dati i rispettivi assunti, Manganelli ha il diritto di essere oscuro (ed infatti lo è), mentre io ho il dovere di essere chiaro, cioè nudo. […] Manganelli mi definisce «terrorista assistenziale» (che è un grazioso esempio di contraddizione in termini, e quindi di oscurità: ma appunto, lui ha questa facoltà e io no) [PS 1401].

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Levi insiste su una distinzione di fondo: mentre Manganelli può permettersi di essere oscuro, Levi no. Levi non spiega però il perché di questa disparità. Si può pensare che, mentre Manganelli ha abbandonato ogni pretesa nei confronti della verità, Levi invece continui a cercarla. Sicuramente ha sempre un debito come testimone, e quindi anche come scrittore, verso di essa. Chiude la sua replica piuttosto ironica ammettendo un punto d’incontro che però si trasforma subito in differenza: «È bello e (date le premesse) strano che Manganelli ed io ci troviamo d’accordo su un enunciato, cioè che “nessun autore capisce a fondo quanto ha scritto”: ma per lui questo non capire sembra normale, anzi desiderabile, e per me esso è volta a volta un’insidia, una carenza o una seccatura»143.

Manganelli nelle sue opere sabota il senso di ciò che scrive e ha come punto di riferimento il mondo letterario chiuso in sé stesso. In Hilarotragoedia Manganelli rielabora il trattato di matrice scolastica e il racconto fantastico chiudendosi in una dimensione letteraria che rifiuta ogni rapporto con il mondo di fuori. Levi al contrario eredita il dovere della chiarezza proprio dall’intento di mostrare e condividere esperienze, siano esse vissute o inventate.

Anche la finzione letteraria diventa per Levi un modo per comunicare qualcosa al proprio lettore. Storie naturali, Vizio di forma, La chiave a stella e alcuni racconti di Lilít sono chiaramente opere finzionali, ma dietro di esse si nascondono riflessioni personali nate da letture scientifiche o addirittura vi si possono ravvisare trasfigurazioni dell’esperienza del Lager. La maggior parte delle opere di Levi traggono il loro spunto invece dall’esperienza vissuta. Anche in questi testi, dove meno ci si aspetterebbe, la finzione letteraria è presente, ma più che inventare Levi aggiusta fatti, persone e luoghi, ma si muove sempre nella direzione di un’autenticità maggiore di quella che un resoconto minuzioso potrebbe fornire. Anche Levi si allontana dall’idea che un’opera debba insegnare dogmaticamente qualcosa. Un testo non deve trasmettere un messaggio: «È un termine che detesto perché […] mi pone indosso dei panni che non sono miei, che anzi appartengono ad un tipo umano di cui diffido: il profeta, il vate, il veggente»144. Levi ha in sospetto qualsiasi verità rivelata e dogmatica e questo emerge anche dalle pagine del

Sistema periodico. Scrive in Potassio: «Dopo essere stato ingozzato in liceo delle verità

rivelate dalla Dottrina del Fascismo, tutte le verità rivelate, non dimostrate, mi erano venute a noia o in sospetto» [SP 899]. D’altra parte però Levi condivide altrettanta antipatia per il caos fine a sé stesso o per quei testi che mirino a sabotarlo: il suo scrivere

143 Ivi, p. 1402. 144 DI CARLO p. 203.

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è comunque sempre un tentativo di capire o trasmettere un’esperienza. Levi scrive Se

questo è un uomo con entrambi questi intenti: «questo mio libro […] potrà piuttosto

fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano». Oltre che una liberazione e una testimonianza, il primo libro di Levi è anche un tentativo di comprendere il perché del Lager. Levi scrive Se questo è un uomo nel 1947, ma non abbandona mai la tendenza al comprendere e al trasmettere. La soluzione che adotta è di compromesso: «un racconto per sua natura deve avere molti livelli di lettura e molte chiavi di lettura»145. I testi di Levi non cercano di imporre una verità assoluta, ma pongono di fronte al lettore una riflessione aperta. Esiste poi un altro tipo di verità verso cui Levi rimane sempre fedele, quella dei fatti. L’accaduto e l’empirico per Levi non sono contestabili: Auschwitz è esistita e lo scriverne è un modo non solo per non perderne la memoria, per cercare di comprenderla, ma anche per evitare che un evento storico del genere possa ripetersi in futuro. La scrittura di Levi ha un intento morale rivolto al futuro, anche in quei testi dove meno ci si aspetterebbe. Nei racconti fantascientifici, ad esempio, le distorsioni a cui la tecnica va incontro suonano come un monito: non è la tecnica in sé a generare il caos, ma l’uso sbagliato che l’uomo può farne.

Di tipo diverso furono i contatti che Levi ebbe con Calvino: in questo caso la differenza di idee letterarie non impedì l’istaurarsi di un’amicizia di lungo corso. Calvino non fu per Levi soltanto un compagno di strada, ma anche un interlocutore. Scrisse diverse recensioni delle opere di Levi: Un libro sui campi della morte (6 maggio 1948),

Le quattro strade di primo Levi (11 giugno 1981), I due mestieri (6 marzo 1985). Lesse

in anteprima i racconti di Storie Naturali e del Sistema periodico, dando pareri favorevoli, ma soprattutto consigli, e si ritiene abbia curato alcuni risvolti di copertina delle pubblicazioni di Levi (Se questo è un uomo 1958, La tregua 1963, La chiave a stella 1978)146:

Calvino è mio gemello: nel senso che siamo stati laureati scrittori insieme nell’articolo di Cajumi su «La Stampa». Ci vogliamo bene; ci dedichiamo i racconti a vicenda. Un mio racconto è dedicato a Calvino perché è calvinista; d’altra parte Calvino quando ha pubblicato Le Cosmicomiche mi ha scritto una lettera, dandomi atto che l’idea originale era la mia147.

145 GRASSANO 1986, p. 773. 146 BELPOLITI 2015, P. 487. 147 VIGLINO 1978, p. 925.

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Il racconto a cui Levi fa riferimento nell’intervista è Il fabbro di sé stesso raccolto in Vizio

di forma che ricorda da vicino Le cosmicomiche. Ad accomunare i due autori è in primo

luogo l’interesse per la scienza e le sue trasformazioni letterarie. Calvino nel 1961 riceve in lettura i racconti che andranno a comporre le Storie naturali e ne dà un giudizio pienamente positivo:

Il tuo meccanismo che scatta da un dato di partenza scientifico-genetico ha un potere di suggestione intellettuale a anche poetica […] Tu ti muovi in una dimensione di intelligente divagazione ai margini di un panorama culturale-etico-scientifico che dovrebb’essere quello dell’Europa in cui viviamo. Forse i tuoi racconti mi piacciono soprattutto perché presuppongono una civiltà comune che è sensibilmente diversa da quella presupposta da tanta letteratura italiana148.

Nel 1965, stesso anno di pubblicazione delle Storie Naturali, Calvino pubblica Le

cosmicomiche, donandone una copia autografata a Levi: «a Primo Levi, che ha percorso

questa strada prima di me»149. Con questa dedica Calvino riconosce il debito che deve a Levi per l’idea di fondo che anima Le cosmicomiche. Prestiti e citazioni tra i due autori sono numerosi, ma il rapporto tra Levi e Calvino è arricchito anche da alcune consulenze linguistiche reciproche. In una lettera nel 30 aprile 1985, Calvino risponde a Levi in merito ad alcune considerazioni sul detto «leggere la vita», titolo di un articolo raccolto nell’Altrui mestiere. Sempre al 1985 risale invece la corrispondenza che vede impegnati Calvino e Levi nella traduzione di Queneau. Calvino chiese a Levi consulenza per la corretta traduzione di alcuni termini di ambito tecnico presenti nel Chant du styrène, in particolare quelli relativi alla fabbricazione di oggetti in plastica150.

Al di là del rapporto di amicizia con Calvino, Levi ha poco a che spartire con il clima letterario italiano degli anni Settanta: sebbene il postmoderno non fosse l’unica corrente di quegli anni, Primo Levi non può essere incasellato in nessuna di quelle. Rispetto agli altri autori italiani, Levi segue una sua strada personale, un suo stile, una sua idea di letteratura, che quando si incrocia con quella di altri scrittori, non lo fa per condivisione di teorie letterarie. Un esempio è la poca dimestichezza di Levi con il genere del romanzo e la preferenza invece per testi brevi e raccolte. In Scrivere un romanzo, contenuto nella raccolta L’altrui mestiere, Levi si esprime in merito alla polemica su quel genere, dischiarandosene sostanzialmente estraneo: «Dopo trentacinque anni di

148 CALVINO 1961, pp. 695 - 696. 149 THOMSON 2017, p. 438. 150 CALVINO 1985, pp. 1539-1541.

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apprendistato, e di autobiografismo camuffato o aperto, un giorno ho deciso di scavalcare l’argine e di provare a scrivere un romanzo, senza curarmi troppo della polemica in corso, se il romanzo sia vivo o morto, e, se vivo, sia in buono stato di salute» [AM 925]. Il fatto che Levi abbia scritto un solo romanzo tra le sue numerose opere è frutto dello stile personale dell’autore, non di critica nei confronti del genere stesso. «Molti dei racconti sono nati da una pratica orale, in seguito a incontri e serate conviviali»151. Inoltre i racconti di Levi crescono attorno ad «un’‟intuizione puntiforme” […] ovvero la capacità di far nascere la narrazione a partire da dettagli, particolari, punti attorno a cui si raggruppano e si dipanano le storie»152. Il Sistema periodico funziona proprio in questo modo: ogni capitolo prende le mosse e si sviluppa attorno ad un elemento chimico, seguendo l’andamento biografico delle vicende.

Levi è un autore singolare ma, come abbiamo visto, non isolato rispetto agli altri autori italiani, e stranieri anche, con i quali intrattiene rapporti a distanza, fatti di scambi epistolari e talvolta di rivendicazioni di poetica.