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Primo Levi da testimone a scrittore

2. Finzione del testimone e finzione letteraria

2.1. Primo Levi da testimone a scrittore

Nelle numerose interviste rilasciate nel corso della sua vita, Levi attribuisce sempre all’esperienza di Auschwitz la nascita della sua carriera di scrittore. Per i prigionieri del

86 BELPOLITI 2018, p. XI. 87 Ivi, p. XII.

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Lager, Il bisogno di raccontare ciò che vedevano e vivevano diventava motivo di sopravvivenza:

Questo desiderio, del resto comune a molti, mi è nato nel Lager. Volevamo sopravvivere anche e soprattutto per raccontare ciò che avevamo visto: questo era un discorso comune, nei pochi momenti di tregua che ci erano concessi. Del resto è un desiderio umano […] In primo luogo c’è il bisogno di scaricarsi, di buttare fuori quello che si ha dentro. Poi ci sono altri motivi88.

Raccontare non è solo un desiderio, ma una vera e propria ossessione che si materializza come incubo notturno di non essere ascoltati:

Allora nel Lager, facevo spesso un sogno: sognavo che tornavo, rientravo nella mia famiglia, raccontavo, e non ero ascoltato. Colui che mi sta davanti non mi sta a sentire, si volta e se ne va. Ho raccontato questo sogno, in Lager, ai miei amici, e loro hanno detto: ‹‹Capita anche a noi››. E l’ho poi trovato, tale e quale, citato da altri reduci che hanno scritto le loro memorie. […] è il sogno di un bisogno primario, il bisogno di mangiare e bere. Così era il bisogno di raccontare. Era già lì, un bisogno fondamentale. Io poi ho scelto lo scrivere come l’equivalente di raccontare89.

Del resto gli stessi nazisti schermivano i prigionieri ebrei dei campi dicendo loro che non sarebbero mai tornati, ma anche lo avessero fatto, nessuno avrebbe creduto ai loro racconti. Questa forma di violenza verbale si ripercuoteva poi nei sogni dei deportati: «curiosamente, questo stesso pensiero (“se raccontassi, non saremmo creduti”) affiorava in forma di sogno notturno dalla disperazione dei prigionieri» [SS 1147]. Dunque raccontare è una necessità che nasce dentro al Lager ed accomuna tutti i prigionieri. Si tratta di una situazione tipica della condizione di detenuto prima ancora che di reduce, un desiderio tale da portare Levi a scrivere fin da dentro al campo di sterminio:

Addirittura avevo cominciato in Lager stesso nei pochi momenti in cui lavoravo, nei pochi giorni in cui ho lavorato in un laboratorio chimico, io scrivevo, sapendo benissimo che rischiavo, perché era considerato spionaggio scrivere, e che comunque non avrei potuto salvare quegli appunti.90

Levi è disposto persino a sfidare le leggi di sopravvivenza del Lager (essendo la scrittura equiparata allo spionaggio, la pena per chi fosse stato trovato a scrivere era la morte) pur di raccontare, consapevole che perderà comunque quanto scritto su carta. L’atto del raccontare si concretizza però una volta rientrato a casa non solo in forma orale, ma anche

88 VIGLINO 1978, p. 917. 89 CAMON 1982-86, p. 847. 90 BORGIA 1985, p. 537.

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per scritto con Se questo è un uomo. Nelle interviste Levi spesso ricorda come in quel periodo raccontasse a chiunque, conoscenti o sconosciuti, e in ogni momento, persino durante i viaggi in treno, la propria storia. Levi inserisce questo passaggio anche nel

Sistema periodico, nel capitolo Cromo, quando si paragona all’Ancient mariner di

Coleridge. È un’identificazione significativa perché dal Sistema periodico accompagnerà Levi fino ai Sommersi e i salvati, segnalando un mutamento graduale della concezione del sopravvissuto e della testimonianza. Intervistando Levi nel 1980, Daniela Amsallem ipotizza che l’immedesimazione dell’autore con il personaggio di Coleridge sia dovuta al bisogno di liberarsi da una colpa. Si riferisce al senso di colpa provato dal sopravvissuto ad una catastrofe, esigenza che spinge il vecchio marinaio della ballata a raccontare. Levi però lo nega:

No, non c’è niente da espiare. No, solo questo. Soprattutto il parallelo c’è nel gesto del Vecchio Marinaio […] il mio raccontare di cui le dicevo prima, in treno e così via, era di questo tipo. […] costringere l’invitato a nozze, che ha tutt’altro per la testa, a stare a sentire questa storia di malefizi, mi assomigliava molto.91

Il parallelismo consiste solo nel modo in cui Levi racconta, fermando persone sconosciute impegnate nei propri affari, non tanto nel bisogno di confessare una colpa. La colpa del sopravvissuto è un tema che levi svilupperà negli anni seguenti: compare per la prima volta in Se non ora quando? (1982) e lo si ritrova nella poesia Il superstite, datata 1984. Dirompe «nel capitolo “la vergonga” dei Sommersi e i salvati, a proposito di quel sentimento di colpa irrazionale, annidato nel profondo come un tarlo: “non si vede dal di fuori, ma rode e stride”»92. Con l’eccezione di Se non ora quando?, lo sviluppo di questo tema è sempre accompagnato dalla presenza della ballata di Coleridge. La poesia si apre con una citazione esplicita al The rime of the ancient mariner, «Since then, at an uncertain hour» [AOI 737], da cui deriva il titolo della stessa raccolta di poesie leviane Ad ora

incerta. La medesima citazione è posta invece in epigrafe ai Sommersi e i salvati. Di pari

passo all’emergere della problema della colpa, si modifica anche il senso del raccontare o del raccontare scrivendo: «l’intenzione di “lasciare una testimonianza” è venuta dopo, il bisogno primario era quello di scrivere a scopo di liberazione»93. Levi non specifica quando sia avvenuto il passaggio dal semplice raccontare come liberazione al

91 AMSALLEM 1980, p. 879. 92 Ivi, p. 891.

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testimoniare, ma è probabile che coincida con la stesura di Se questo è un uomo e il successo che ha seguito la sua seconda edizione con Einaudi. Levi ricorda come non fosse convinto che il suo libro sarebbe stato pubblicato e voleva farne solamente poche copie da distribuire agli amici e alla sua futura moglie94. Effettivamente Se questo è un uomo incontrò delle difficoltà editoriali, ma dopo il successo dell’edizione del 1958 divenne quasi naturale per Levi rivestire i panni del testimone, prima ancora che dello scrittore. Da allora Levi praticò questa attività in almeno quattro modalità differenti. La prima attraverso la deposizione giuridica in processi tenutisi contro criminali nazisti. La seconda riguarda invece la scrittura della memoria sotto forma di narrativa, saggi e articoli. La terza modalità di testimonianza è invece quella resa nelle scuole e nei luoghi pubblici. L’ultima è quella resa nelle numerose interviste, nei dialoghi e le conversazioni con giornalisti, scrittori e studiosi95. Per Levi la testimonianza diventa esercizio della memoria e la memoria è un vero e proprio dovere:

La memoria è un dovere, lo è per tutti gli uomini in quanto tali. E lo è in specie per noi che abbiamo avuto la sventura, ma in un certo modo anche l’avventura, di vivere esperienze fondamentali. Sarebbe mancare un dovere il non trasmettere memoria di quello che abbiamo visto96.

Un dovere nei confronti di chi? Del genere umano in quanto tale, perché l’esperienza vissuta è talmente incisiva per la storia dell’umanità che il suo ricordo deve essere tramandato alle generazioni future anche contro ogni pericolo di revisionismo. La forma di testimonianza come dovere apre però un problema ben più ampio: testimoniare vuol dire avere assistito ed essere sopravvissuti, «ma la sopravvivenza dopo Auschwitz diventa un problema di posto nel mondo […] e si manifesta nella convinzione di aver strappato a qualcuno il diritto di esistere»97. L’essere usciti vivi dal Lager è un fatto dovuto a più fattori: la capacità di adattamento alle regole del campo, ai suoi meccanismi, alla sua lingua babelica, ma è soprattutto una questione di fortuna. L’autore insiste costantemente su quest’ultimo fattore in ogni intervista in cui si entri in argomento. Levi si attribuisce la fortuna di conoscere un mestiere utile nel Lager, quello di chimico, che gli permette di trascorrere l’inverno al chiuso; la fortuna di trovare un civile italiano disposto ad aiutarlo portandogli della zuppa; la fortuna, relativa, di ammalarsi poco prima dell’evacuazione

94 Ibidem.

95 BELPOLITI 2018, p. XII. 96 BORGIA 1985, p. 537. 97 MARIANI 2018, p. 32.

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del campo, evitando così la «marcia della morte». È il caso a determinare le sorti diverse di Levi e del suo amico Alberto: Levi si ammala di scarlattina e viene lasciato nell’ospedale in cui lo troveranno i russi; Alberto, considerato sano, va incontro ad una marcia forzata che gli costerà la vita. Manca inoltre qualsiasi visione provvidenziale della sopravvivenza. Levi non si considera un uomo che ha una missione da svolgere, non si ritiene un eletto: «sarebbe non solo presunzione, ma anche stupidità da parte nostra, di noi sopravvissuti»98. Lo stesso atto di portare testimonianza è una conseguenza dell’essere tornati dal Lager, non un segno del destino:

Quando sono tornato dalla prigionia ho incontrato un mio amico […] l’assistente nel capitolo ‹‹Potassio›› del Sistema periodico. Era ed è un astrofisico che però è profondamente religioso, di una religione sua […] mi ha accolto, abbracciandomi e mi ha detto: - tu sei un salvato, non a caso, tu sei uno che la provvidenza ha salvato affinché tu testimoniassi-. Io mi sono ribellato con violenza a questo giudizio perché ricordavo, come adesso ricordo, una quantità dei miei compagni di prigionia che valevano più di me, che erano più adatti, più preparati di me a portare testimonianza […] mi sembrava estremamente ingiusto il fatto che si potesse pensare tu sì e tu no, tu sì perché porterai testimonianza e gli altri no perché la testimonianza non la portano99.

Secondo Levi c’erano persone più adatte di lui nel campo a portare testimonianza, che invece non si sono salvate. Questa considerazione diventerà cruciale nei Sommersi e i

salvati dove Levi ridiscute completamente il valore della testimonianza: il testimone

dell’opera compiuta non esiste. Non può essere il sopravvissuto perché non ha davvero «toccato il fondo». D’altra parte nemmeno il sommerso può esserlo, per definizione: infatti, pur avendone avuta la possibilità, quest’ultimo non avrebbe mai potuto riportare testimonianza, perché privato totalmente della propria umanità:

Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso per “conto di terzi”, il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte. I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale. Settimane e mesi prima di spegnersi, avevano già perduto la virtù di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi. Parliamo in loro vece, per delega. [SS 1196]

98 AMSALLEM 1980, p. 878.

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L’annullamento della persona condotto nel Lager priva gli individui della facoltà di elaborare e ricordare ciò che sta avvenendo, inibendo così la possibilità della testimonianza stessa. La sopravvivenza offre una testimonianza parziale proprio perché priva dell’esperienza totale che coincide, prima ancora della morte, con la «demolizione» dell’individuo. I Lager erano stati concepiti come macchine per uccidere, il superstite è quindi l’eccezione, non la regola. I sopravvissuti parlano in vece dei sommersi: sono testimoni per delega. La parzialità rischia a sua volta di screditare la parola del sopravvissuto perché insufficiente. Eppure è proprio la parzialità a rendere preziosa la testimonianza, perché pur nella sua limitatezza si fa carico di trasmettere l’esperienza dei sommersi100. Nell’arco di quarant’anni la testimonianza passa per Levi da essere una forma di liberazione individuale, a dovere morale, fino a trasformarsi in un obbligo nei confronti di coloro che non sono mai tornati. Se il sopravvissuto porta la colpa di aver usurpato la vita di un altro, anche se non è vero, l’unico modo per riscattare questo debito è tramite la testimonianza101. In questo modo essa rischia però di «svuotare il corpo del sopravvissuto della propria singolarità, di renderlo un recipiente cavo per le voci dei morti e di trasformare quella sua vita in una vita impropria che non gli appartiene». Testimoniare non è solo rendere conto della propria esperienza, ma di quella di tutti i deportati, in un coro impersonale: ovvero che può estendersi a tutti ma anche a nessuno102.

Il dovere della testimonianza è nei confronti non solo dei vivi che non hanno vissuto quell’esperienza, ma soprattutto dei morti che non l’hanno superata.

Quella presentata nei Sommersi e i salvati è una posizione estrema che Levi elabora gradualmente, ma che comunque nel corso della sua vita crea delle tensioni tra la figura di testimone e quella di scrittore. «In quanto testimone dello sterminio ebraico, del Lager, dell’obbrobrio nazista in generale […] Levi si sente in dovere di essere veritiero, di ricordare: è il dovere della memoria. Ma in quanto scrittore comprende che il problema della veridicità si pone in modo diverso»103. Per portare la propria testimonianza il superstite non deve solo sopravvivere, ma anche ottenere credito presso i propri ascoltatori, o lettori nel caso di Levi. Il problema è costituito dagli eventi narrati che rientrano nell’incredibile e nell’inaudito: i fatti rischiano di cadere nell’indicibilità e chi li racconta rischia di non essere creduto104. La soluzione di Levi è quella di filtrate la sua

100 MARIANI 2018, p. 37. 101 Ibidem.

102 Ibidem.

103BELPOLITI 2018, p. XXV. 104 DEL GIUDICE 2016, p. XI – XIII.

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testimonianza attraverso la letteratura: Levi non scrive testimonianze in senso stretto, scrive letteratura in cui assume «deliberatamente il linguaggio del testimone»105:

C’è un effetto letterario da produrre, quello del testimone, una rappresentazione e messa in scena delle cose, vincolata strutturalmente ed eticamente a un esito di verità. Ed è qui che il testimone mette al lavoro la finzione, la sua finzione. L’esito di verità non è soltanto, ovviamente, quello degli eventi narrati, ma la verità quanto più approssimata all’ ՙindicibile’106.

Esiste dunque una finzione del testimone: l’alterazione dei fatti, dove richiesta, e la letterarietà delle vicende non falsificano per intero la sua testimonianza, ma anzi contribuiscono a renderla più vera, più prossima all’indicibile, a rendere immaginabile l’inimmaginabile. L’attrito tra essere testimone e scrittore sembrerebbe quindi risolversi almeno per quei testi che hanno come contenuto le vicende biografiche dell’autore. Lo scontro resta però aperto su un altro fronte: può il testimone rivendicare il diritto di abbandonare la testimonianza, farsi pienamente scrittore e dedicarsi a opere finzionali? È un problema che Levi è costretto ad affrontare alla pubblicazione di Storie naturali e di cui è perfettamente consapevole. Intervistato da Marco Viglino che gli domanda perché sia ricorso allo pseudonimo Malabalia, Levi risponde: «Perché sarebbe stato scandaloso a quel tempo: non avrei potuto, io, lo scrittore di Se questo è un uomo, venire fuori a quei tempi con aneddoti, storie fantastiche. Proposi allora questo pseudonimo all’editore»107.

Nella percezione comune lo scrittore di opere testimoniali che hanno la pretesa di verità non può contemporaneamente essere anche uno scrittore di racconti fantascientifici, genere per lo più di serie B e distante dalla realtà. Da una parte il rischio era quello di tradire le aspettative dei lettori che pensano di leggere una cosa e ne trovano invece un’altra; dall’altra il rischio concreto era invece di passare per falsario:

Questo dell’essere falsari continua a preoccuparmi, perché mi sento falsario un po’ anch’io. Sovente mi pongo dei problemi. […] C’è un limite netto tra chi racconta pretendendo, esigendo di essere creduto alla lettera, e chi racconta, come il Boccaccio, novelle per altri scopi, non a scopo documentario, ma per diletto, per edificazione, se vogliamo? Sono questioni che non ho ancora risolto e ci sto pensando sopra108.

105 LEVI 1976, p. 283.

106 DEL GIUDICE 2016, p. XIII – XIV. 107 VIGLINO 1978, p. 925.

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Levi non trova una risposta diretta a questo suo dubbio, o forse smette semplicemente di preoccuparsene. Il sistema periodico rappresenta in questo quadro un caso particolare: legato ancora alle vicende autobiografiche si distacca dalla funzione testimoniale, mantenendosi allo stesso tempo distante anche dalla pura finzione letteraria.

2.2. Il sistema periodico: scrivere ‹‹noi›› e leggere ‹‹io››

L’autobiografia costituisce l’ossatura interna del Sistema periodico, ma assume delle caratteristiche molto particolari: si tratta di un’autobiografia clandestina sia perché mascherata da altro, un testo sul mestiere del chimico, sia perché l’io autobiografico emerge sempre all’interno di un contesto collettivo. Macroscopicamente, cioè relativamente al testo nella sua interezza, l’io si trova sempre inserito nel numero dei chimici come esponente di questo mestiere; microscopicamente, cioè a livello dei singoli capitoli, la collettività si esprime di volta in volta in modo diverso. Può essere costituita da un duo (Levi più un amico) oppure può esprimersi all’interno di un contesto (gli studenti di chimica, gli abitanti della cava, i deportati di Auschwitz, la mensa di verniciai…). Dicendo noi Levi evita così di rendersi direttamente unico protagonista delle vicende, impostando un percorso che lo porta gradualmente a rivendicare il diritto di dire io. Si tratta di sancire un distacco graduale rispetto alla figura di Levi testimone emersa con Se questo è uomo e La tregua. Se infatti Levi considerava le due raccolte di racconti, Storie naturali e Vizio di forma, delle opere di serie B, cose minori109, invece Il

sistema periodico si pone allo stello livello dei testi che lo hanno reso testimone. Il

problema è quindi quello di giustificare il passaggio da testimone a scrittore che rivendica, prima ancora che il diritto alla finzione, il diritto di poter parlare di sé e soltanto si sé110.

La spia di questo meccanismo è costituita dal frequente utilizzo della prima persona plurale noi. Raramente nel corso dei capitoli il Levi di carta è solo: nelle sue vicende è sempre accompagnato da qualcuno, da un altro personaggio, a cui può accadere venga lasciato il ruolo di vero protagonista del racconto. Nell’ultima pagina di Argon il piccolo Levi è in compagnia del padre: «percorrevamo lentamente via Po, e lui si fermava ad accarezzare tutti i gatti, ad annusare tutti i tartufi ed a sfogliare tutti i libri usati» [SP 873].

109 VIGLINO 1978, p. 924. 110 MARIANI 2018, pp. 47-53.

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Il ricordo delle visite alla nonna paterna è un espediente per soffermarsi velocemente su queste figure familiari e collegarsi alla cultura ebraica piemontese appena descritta nel resto del capitolo. Nel racconto Idrogeno il coprotagonista di Levi è il suo amico Enrico: «avevamo sedici anni […] Non avevamo dubbi: saremmo stati chimici […] Saremmo stati

chimici, Enrico ed io. Avremmo dragato il ventre del mistero con le nostre sole forze […]

questo essendo il nostro programma […] Ci sembrava […] le nostre mani […] il vetro del laboratorio ci incantava e ci intimidiva […] il nostro scopo era quello di vedere coi

nostri occhi, di provocare con le nostre mani…» [SP 875 – 878]. I primi approcci alla

chimica di Levi sono condotti in coppia, ma se all’inizio a prevalere nel racconto è la figura di Enrico, nelle ultime battute invece si afferma l’io dell’autore: «L’obiezione mi giunse offensiva: come si permetteva Enrico di dubitare di una mia affermazione? Io ero il teorico, solo io» [SP 879]. L’espediente di iniziare dal noi per poi terminare invece con la rivendicazione dell’io è tipica di diversi racconti del Sistema periodico. Nel racconto

Zinco la dimensione collettiva è quella degli studenti universitari di chimica: «Avevamo assistito per cinque mesi, pigiati come sardine e reverenti, alle lezioni di Chimica

Generale ed Inorganica del Professor P. […] fra noi ottanta matricole erano stati scelti i venti meno pigri e meno sciocchi […] ed a noi era stato dischiuso il laboratorio di Preparazioni» [SP 881-882]. L’esperimento con il solfato di zinco porta però il giovane Levi a ragionare su di sé: «perché ebreo sono anch’io, e lei no: sono io l’impurezza che fa reagire lo zinco, sono io il granello di sale e di senape» [SP 886]. Così anche in

Potassio Levi è ancora inserito all’interno della categoria degli studenti che fingono di

non vedere quello che sta accadendo in Europa allo scoppio della seconda guerra mondiale: «‟non ci accorgevamo”, ricacciavamo tutte le minacce nel limbo […] il Piemonte era la nostra patria vera, quella in cui ci riconoscevamo […] in Piemonte, e a Torino, erano insomma le nostre radici […] La nostra resistenza di allora era passiva» [SP 897-898]. Il racconto termina però con un esperimento in solitario condotto da Levi