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Elementi di continuità: non un romanzo, il lavoro e il lavoro ben fatto, la scrittura, la finzione

Mnemagoghi, Il fabbro di sé stesso

4. Il chimico, lo scrittore e il montatore: La chiave a stella

4.1. Elementi di continuità: non un romanzo, il lavoro e il lavoro ben fatto, la scrittura, la finzione

Anche se a prima vista i due libri sono molto diversi, tra Il sistema periodico e La chiave

a stella esistono degli elementi di continuità. Innanzi tutto da un punto di vista strutturale:

né l’uno né l’altro possono essere definiti romanzi se non impropriamente. Il sistema

periodico è una raccolta di racconti strutturata e con una doppia cornice, chimica e

autobiografica. La chiave a stella raccoglie anch’esso una serie di racconti, che ruotano però attorno ad avventure lavorative del protagonista, Faussone:

La chiave a stella è un viaggio di racconti, definito anche romanzo, sebbene la

struttura richiami un modello decameroniano. Il libro presenta una cornice negli incontri dello scrittore con un montatore di gru e ponti: Faussone racconta le sue avventure di lavoro, lo scrittore-chimico le registra e le arricchisce con qualche esperienza propria […] Metalinguaggio e richiamo alla comunicazione orale caratterizzano La chiave a stella come libro di novelle con cornice, nato da esperienze dirette, letture scientifiche, racconti di amici220

218 BOERI 1983, p. 380. 219 BELPOLITI 2016, p. 1791. 220 BALDISSONE 2016, pp. 106-107.

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Anche La chiave a stella ha dunque una struttura a cornice, ma molto diversa rispetto a quella del libro precedente. Intanto l’elemento autobiografico è pressoché assente: ne resta solamente un riverbero nel narratore alter ego di Levi e nella materia di alcuni racconti. Le storie raccontate non appartengono al narratore, bensì al vero protagonista del libro, Libertino Faussone. In ogni capitolo del libro il narratore riporta il racconto di un montaggio avvenuto in un paese diverso, con alcune eccezioni che rimangono comunque ancorate al tema dominante del lavoro (i capitoli Tiresia, Batter la lastra,

Senza tempo, Acciughe I, Le zie, Acciughe II).

Un elemento di continuità è anche l’intento che ha animato la scrittura di entrambi i testi: alla base del Sistema periodico c’era la volontà di raccontare il mestiere di chimico, sostanzialmente estraneo al panorama letterario. La chiave a stella nasce con il medesimo intento, ma rivolto verso un altro mestiere, anzi precisamente verso uno specifico modo di vivere:

Abbastanza insolito è invece l’argomento del libro, cioè un’antologia di avventure di lavoro. Il fine principale che mi ero proposto scegliendolo è questo: volevo conferire dignità letteraria ad un modo di vivere che, a quanto so, la letteratura di oggi, non solo in Italia, ha trascurato, e cioè alla condizione dell’uomo che si sforza di preservare la propria libertà e creatività entro le maglie «alienanti» della società industriale [OC III 125].

Il modo di vivere che interessa Levi è quello del lavoratore che nel panorama del lavoro industriale delle catene di montaggio si sforza comunque di trovare un’alternativa e mantenere la sua indipendenza. L’idea di dedicarsi ad una serie di racconti sul lavoro dell’operaio specializzato, in particolare del montatore, nasce in Levi durante i viaggi di lavoro effettuati in Russia tra il 1972 e il 1973, quando ebbe modo di conoscere alcuni montatori della Fiat impegnati nel montaggio delle Zhiguli:

Ero a Togliattigrad, e notavo la stima con cui i sovietici trattavano i nostri operai specializzati. Questo fatto mi incuriosì: quegli uomini sedevano a mensa con me, gomito a gomito; rappresentavano un patrimonio tecnico e umano enorme; ma erano destinati a rimanere anonimi, perché nessuno aveva scritto di loro… La chiave a

stella è forse nata proprio a Togliattigrad: lì, del resto, è ambientato il racconto221.

Il mestiere di chimico e quello di montatore condividono dunque un destino comune: per Levi sono entrambi patrimoni umani che non trovano spazio nella cultura ufficiale perché

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appaiono come distanti e noiosi. Dietro la nascita di questo libro c’è però anche la volontà di affermare l’importanza dell’amore per il lavoro e del lavoro ben fatto. La chiave a

stella esce nel 1978, al termine delle lotte sindacali avviate con il Sessantotto che

promuoveva una visione alienante e punitiva del lavoro222. Nel capitolo Batter la lastra Levi scrive attraverso il suo alter ego:

Per esaltare il lavoro, nelle cerimonie ufficiali viene mobilitata una retorica insidiosa, cinicamente fondata sulla considerazione che un elogio o una medaglia costano molto meno di un aumento di paga e rendono di più; però esiste anche una retorica di segno opposto, non cinica ma profondamente stupida, che tende a denigrarlo, a dipingerlo vile, come se del lavoro, proprio o altrui, si potesse fare a meno, non solo in Utopia ma oggi e qui: come se chi lavora fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero [CS 1098].

Ci sono due visioni distorte del lavoro: la prima è semplicemente cinica ed è quella che normalmente viene applicata durante le cerimonie ufficiali dedicate al lavoro. Conferire in premio una tantum è sicuramente meno dispendioso che un aumento concreto di stipendio e, in un certo senso, anche questo per Levi è un denigrare il lavoro in quanto tale. L’altra visione è invece quella che esalta il non lavoro, facendo coincidere la condizione di nullafacente con quella di uomo libero. Già all’inizio del Sistema periodico, nel racconto Argon, Levi si dimostra contrario ad affiancare l’inerzia ad un valore positivo come quello di nobiltà: «si chiamano anche gas nobili, e qui ci sarebbe da discutere se veramente tutti i nobili siano inerti e tutti gli inerti siano nobili» [SP 861]. Nella Chiave

a stella Levi esprime molto chiaramente il proprio punto di vista sul mondo del lavoro:

«Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono» [CS 1097]. La stessa riflessione Levi, oltre che per bocca del suo alter ego, la esplicita anche attraverso il personaggio di Faussone: «Io credo proprio che per vivere contenti bisogna per forza avere qualche cosa da fare, ma che non sia troppo facile; oppure qualche cosa da desiderare, ma non un desiderio così per aria, qualche cosa che uno abbia la speranza di arrivarci» [CS 1148]. Queste considerazioni sul modo di intendere il lavoro suscitarono numerose polemiche e anche qualche stroncatura da parte della stampa di estrema sinistra che accusava Levi di essere un reazionario dal senso morale superato223. Levi si dimostra

222 THOMSON 2017, p. 544. 223 Ibidem.

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invece ben consapevole che il lavoro può anche essere un problema, perché manca o perché diventa mezzo di sfruttamento. Il lavoro non sempre è amabile, ma non «è il grande nemico. Può non esserlo, qualche volta lo è, è chiaro, ma non necessariamente. Si può far molto per evitare che il lavoro sia punitivo; non è che la società sia la colpa di tutto»224. L’idea che Levi rifiuta è che il lavoro sia punitivo per definizione e che il lavoratore non abbia nessuna possibilità di renderlo tollerabile. Faussone è un personaggio creato proprio a partire dal presupposto contrario: che l’uomo possa fare qualcosa affinché il suo lavoro non sia soltanto afflizione.

Faussone è a tutti gli effetti un homo faber non solo perché costruisce cose con le mani, ma soprattutto perché è stato artefice del suo stesso destino:

Se io faccio questo mestiere di girare per tutti i cantieri, le fabbriche e i porti del mondo, non è mica per caso, è perché ho voluto. Tutti i ragazzini si sognano di andare nella giungla […] e me lo sono sognato anch’io; solo che a me i sogni mi piace farli venire veri, se no rimangono come una malattia che uno si porta appresso per tutta la vita, o come la farlecca di un’operazione, che tutte le volte che viene umido torna a fare male. C’erano due maniere: aspettare di diventare ricco e poi fare il turista, oppure fare il montatore. Io ho fatto il montatore [CS 1037].

L’idea di fare il montatore nasce in Faussone da bambino: sogna di vedere il mondo e il modo più pratico per realizzare questo suo desiderio è di trovarsi un mestiere che gli permetta di farlo: «Io no, io del mio destino non me ne sono mai lamentato, e del resto se mi lamentassi sarei una bestia, perché me lo sono scelto da me: volevo vedere dei paesi, lavorare con gusto, e non vergognarmi dei soldi che guadagno, e quello che volevo l’ho avuto» [CS 1056]. L’aspetto interessante di questo personaggio è che ha scelto in piena

libertà il suo mestiere non accontentandosi di quello che la vita semplicemente gli offriva. Nel capitolo Batter la lastra il lettore viene a conoscenza dell’infanzia di Faussone su cui incombe l’attività di magnino del padre:

Mio padre voleva chiamarmi libero perché voleva che io fossi libero […] per lui libero voleva dire non lavorare sotto padrone, magari dodici ore al giorno in un’officina tutta nera di caligine e col ghiaccio d’inverno come la sua […] ma non sotto padrone, non nella fabbrica, non a fare tutta la vita gli stessi gesti attaccato al convogliatore [CS 1099].

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Il padre di Faussone desidera che il figlio prosegua l’attività di famiglia, trasmessa da generazioni di padre in figlio, poco redditizia, ma comunque capace di tutelare l’indipendenza del lavoratore. La figura del padre è il ritratto più completo dell’uomo che ama il proprio mestiere. Produce pentole di rame stagnate che ai suoi occhi non sono solamente oggetti: «si vedeva dalla maniera come stava lí a guardare i suoi lambicchi dopo che li aveva finiti e lucidati. Quando venivano i clienti a portarseli via, lui gli faceva come una carezzina e si vedeva che gli dispiaceva» [CS 1100]. Nonostante l’amore che il padre nutre per il proprio mestiere, il giovane Faussone non intende proseguirlo. In parte perché non sente quel mestiere come suo, in parte perché i tempi cambiano e il mestiere di stagnino era destinato a scomparire, surclassato dall’industria dell’acciaio inossidabile. Faussone quindi, dopo un periodo alla Lancia, si reinventa montatore, un mestiere che è in delicato equilibrio tra l’essere legato all’industria del lavoro e mantenere una propria autonomia: «a lui un lavoro come il mio gli sarebbe piaciuto, anche se l’impresa ci guadagna sopra, perché almeno non ti porta via il risultato: quello resta lí, è tuo, non te lo può togliere nessuno» [CS 1100]. Il frutto del proprio lavoro, anche se si lavora in un cantiere per commissione, resta comunque accessibile al lavoratore tanto che Faussone alle volte torna sui luoghi dove ha lavorato per rivedere i suoi tralicci o derrik ancora in funzione.

Se guardiamo le caratteristiche attribuite da Levi al lavoro nel Sistema periodico (lavoro solitario, indipendenza, passione e lavoro ben fatto) possiamo vedere come queste trovino pinea realizzazione nel personaggio di Faussone. Il montatore attribuisce all’indipendenza professionale un’importanza centrale. Innanzi tutto, il montatore è un uomo a cui «piace lavorare da solo, così è come se sotto al lavoro finito ci mettessi la mia firma» [CS 1085]. Ma soprattutto ha poca simpatia per quei superiori che «tengono caldo»: «non ti lascia la tua indipendenza. E se uno sul lavoro non si sente indipendente, addio patria, sene va tutto il gusto, e allora uno è meglio se va alla Fiat» [CS 1063]. Nel Sistema

periodico il lavoro solitario e l’indipendenza professionale sono caratteristiche di alcuni

personaggi come Rodmund, il cercatore d’oro e il ciabattino. In particolare l’analogia è forte con il cercatore d’oro che, pur svolgendo un mestiere non ufficiale e poco remunerativo, è contento perché gli permette di essere libero. Entrambi i personaggi poi soffrono di una paura comune, la claustrofobia, specchio della paura di rimanere intrappolati non tanto in un luogo chiuso, ma di perdere la propria libertà. Se nel Sistema

periodico l’amore per il lavoro ben fatto è implicito, rintracciabile attraverso la

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sì che in quel lavoro ci avevo messo l’anima. Ma io l’anima ce la metto in tutti i lavori, lei lo sa, anche nei più balordi, anzi, con più che sono balordi, tanto più ce la metto. Per me, ogni lavoro che incammino è come un primo amore» [CS 1066]. Faussone mette impegno in ogni lavoro che gli viene affidato, anche il più complicato, per amore del lavoro stesso. La realizzazione di costruzioni gigantesche perfettamente funzionanti è fonte di profonda soddisfazione ed espressione di potenza creatrice. In Off shore osservando l’enorme derrick appena messo in posizione, Faussone non può non pensare alla creazione del mondo: «Finché facendo una gran schiuma si è messo in piedi, è disceso ancora un poco e si è fermato netto, come un’isola, ma era un’isola che l’avevamo fatta noi […] io ho pensato al Padreterno quando ha fatto il mondo» [CS 1092]. Il fare, il costruire con le mani è ciò che caratterizza l’uomo più di ogni altra cosa: se Dio è creatore, l’uomo, creato a sua immagine e somiglianza, è artefice. In Faussone l’amore per il proprio mestiere è talmente radicato che quando qualcosa va storto e il lavoro non viene bene subentra una sensazione di lutto:

Ma quando uno sul lavoro ci mette tutti i suoi sentimenti, e poi finisce come quel ponte che le sto raccontando, ebbene, dispiace […] più che tutto, vedere venire giù un’opera come quella, e il modo poi come è venuta giù, un pezzo alla volta, come se patisse, come se resistesse, faceva male al cuore come quando muore una persona. [CS 1129].

Nel capitolo Il ponte, la costruzione di un ponte sospeso in India viene bruscamente interrotta dalla potenza del vento, che distrugge gran parte del lavoro già fatto e costringe ad interrompere definitivamente il montaggio. Ci sono anche altri capitoli dove la costruzione non viene portata a termine, o il macchinario funziona male. In tutti questi casi Faussone ricorre ad un processo di umanizzazione per descrivere il malfunzionamento. La colonna metallica di Clausura viene paragonata prima ad un corpo umano: «una coi muscoli, una con gli ossi, una coi nervi e una con tutte le budelle. I muscoli veramente non li aveva, perché non c’era niente che si muovesse, ma tutto il resto sì, e le vene e le budelle le avevo montate io» [CS 1047]. Successivamente invece nel corso del racconto viene paragonata ad un moribondo: «anche la colonna stava facendo un discorso, e era proprio un po' come quando uno è malato e ha la febbre e dice delle goffate, ma siccome magari sta per morire tutti lo prendono sul serio. Per malata, quella colonna doveva ben essere malata» [CS 1048]. Si tratta dell’ilozoismo tipico del Sistema

periodico: essendo le macchine delle creazioni, vengono percepite come esseri viventi

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Oltre a descrivere il piacere del lavoro, Levi ne mostra anche il rovescio della medaglia: quando si perde il gusto per quello che si fa, allora il lavoro può davvero diventare una pena, o quantomeno una fonte di dubbi e incertezza. L’autore accenna il tema in Argento e diffusamente in altri capitoli del Sistema periodico, ma di nuovo è Faussone nella Chiave a stella a mostrare tutto il lato negativo di un mestiere condotto in solitario. Nel capitolo Tiresia leggiamo di un Faussone malinconico che riflette sul proprio mestiere:

«Oggi è una giornata rovescia, una di quelle che non ne va dritta una. C’è delle volte che uno gli va via perfino la volontà di lavorare […] si ha un bel da fare a dire che uno non ci ha colpa, che il disegno è imbrogliato, che uno è stanco e che per giunta tira un vento del diavolo: tutte verità, ma quel magone che uno si sente qui, quello non glielo toglie nessuno. E allora uno si domanda magari fino delle domande che hanno nessun senso, come per esempio che cosa ci stiamo al mondo a fare, e se uno ci pensa su non si può mica rispondere che stiamo al mondo per montare i tralicci, dico bene? Insomma, quando lei tribola dodici giorni, ci mette tutti i sette sentimenti e tutte le malizie, suda, gela, cristona, e poi gli vengono dei sospetti, e cominciano a rosicare, e lei controlla, e il lavoro è fuori quadro […] Allora per forza cambia mentalità e comincia a pensare che non c’è niente che valga la pena, e gli piacerebbe fare un altro lavoro, e insieme pensa che tutti i lavori sono uguali, e che anche il mondo è fuori quadro [CS 1070-1071]

L’amore per il lavoro ben fatto è un’arma a doppio taglio. Faussone rimane molto sul vago nel racconto, ma si comprende comunque che uno dei suoi montaggi dev’essere riuscito male nonostante la cura dedicatagli. Il problema del lavoro solitario, indipendente e fatto con passione è proprio quello di doversi continuamente misurare con i problemi per risolverli, ma delle volte, la soluzione non c’è. Esistono giorni in cui, a prescindere da qualsiasi buona intenzione, il lavoro riesce male e la parte peggiore è che non è possibile capire il perché. Il lavoro mal fatto è fonte di profondo scoramento quanto quello ben fatto lo è di soddisfazione. È un tema questo caro a Levi e che ricompare anche in

Liít, nel racconto La sfida della molecola.

La chiave a stella non racconta soltanto del mestiere di montatore, ma ripropone

anche quello di chimico. Levi si diverte ad istaurare un paragone tra il mestiere di montatore meccanico e quello di montatore di molecole:

Il mio mestiere vero […] è il mestiere di chimico […] assomiglia un poco al suo: solo che noi montiamo e smontiamo delle costruzioni molto piccole. Ci dividiamo in due rami principali, quelli che montano e quelli che smontano, e gli uni e gli altri sono come dei ciechi con le dita sensibili […] io però ho sempre fatto il chimico

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montatore, uno di quelli che fanno le sintesi, ossia che costruiscono strutture su misura. [CS 1150].

Anche il chimico è una figura professionale che assembla costruzioni, con l’unica differenza che queste sono talmente piccole da non poter essere osservate ad occhio nudo. Il mestiere di chimico, pur se presentato come primo mestiere, nella Chiave a stella gioca un ruolo di secondo piano rispetto a quello di scrittore: infatti l’interlocutore di Faussone appare fin dal primo capitolo più uno scrittore e il fatto che sia anche chimico viene esplicitato dopo, nel corso della narrazione. È l’esatto contrario di ciò che avviene nel

Sistema periodico dove invece è predominante la professione chimica e il mestiere di

scrittore compare invece poco a poco. Questo cambio di prospettiva è il riflesso della biografia dell’autore. Levi scrive La chiave a stella dopo il pensionamento, ma durante il periodo ci consulenza. La pubblicazione del libro coincide però con l’abbandono definitivo della Siva e nel libro Levi esprime chiaramente il desiderio di dedicarsi unicamente alla scrittura: «‟Ma così queste storie che io le racconto lei poi le scrive?” Gli ho risposto che forse sì: che non ero sazio di scrivere, che scrivere era il mio secondo mestiere, e che stavo meditando, proprio in quei giorni, se non sarebbe stato più bello farlo diventare il mestiere primo o unico» [CS 1070]. La pubblicazione della chiave a

stella è dunque il punto definitivo alla carriera di chimico di Levi e ribadisce il passaggio,

già avviato nel Sistema periodico, da chimico a scrittore a tempo pieno. Tutti questi mestieri, montatore, chimico e scrittore, condividono però delle caratteristiche comuni. Questa commistione avviene proprio nel capitolo Tiresia:

Ho cercato di chiarirgli che tutti e tre i nostri mestieri, i due miei e il suo, nei loro giorni buoni possono dare pienezza. Il suo, e il mestiere di chimico, che gli somiglia, perché insegnano ad essere interi, a pensare con le mani e con tutto il corpo, a non arrendersi davanti alle giornate rovescie ed alle formule che non si capiscono, perché si capiscono poi per strada. Il mestiere di scrivere, perché concede (di rado: ma pure concede) qualche momento di creazione, come quando in un circuito spento ad un tratto passa corrente. Ed allora una lampada si accende, o un indotto si muove. Siamo rimasti d’accordo su quanto di buono abbiamo in comune. Sul vantaggio di potersi