• Non ci sono risultati.

Il sistema periodico: tra verità e finzione

2. Finzione del testimone e finzione letteraria

2.3. Il sistema periodico: tra verità e finzione

111 COSTANTINI e TOGNI 1986, pp.767 - 768. 112 MARIANI 2018, pp. 52.

63

Leggendo Il sistema periodico risaltano alcuni episodi che esulano dall’autobiografia, ma che nel complesso, grazie alla struttura che Levi ha costruito, non stonano con il resto della narrazione. Ad una prima lettura quindi i fatti narrati sembrano appartenere perfettamente all’ordine della verità, senza lasciare il lettore nel dubbio che l’autore possa essersi inventato qualcosa. Levi infatti non inventa nulla (ad eccezione dei due testi dichiarati come finzionali), piuttosto, come dice Faussone nella Chiave a stella, «ci lavora sopra, lo rettifica, lo smeriglia, toglie le bavature, gli dà un po’ di bombè e tira fuori una storia» [CS 1037]. Nella pretesa autobiografica del Sistema periodico ci sono degli elementi relativi sia a persone, sia a luoghi, sia ad eventi che Levi ha adattato alle esigenze narrative del testo:

Spesso Levi spiega ai suoi intervistatori che esiste una discrepanza tra quello che lui ha narrato e quello che è accaduto nella cosiddetta realtà. Considera veritiero ciò che dice ma, […] spesso le persone ritratte nei suoi libri, anche nei primi due, non si sono riconosciute nei personaggi.113

Esistono delle motivazioni pratiche alla scelta di alterare alcuni dati, ad esempio per quanto riguarda i nomi delle persone che diventano personaggi. Dire qualcosa su qualcuno ha una rilevanza giuridica penale e non sempre chi legge il testo può ritrovarsi nella trasposizione a personaggio che l’autore fa. Va poi tenuto anche conto della volontà di alcune persone di non voler comparire in un libro, di non voler essere legate ad un particolare episodio e poter essere riconoscibili (il caso ad esempio di Cesare nella

Tregua). Levi stesso si esprime in proposito nel racconto Il ritorno di Lorenzo, raccolto

in Lilít:

Anche di Lorenzo ho raccontato altrove, ma in termini volutamente vaghi. Lorenzo era ancora vivo quando io stavo scrivendo Se questo è un uomo, e l’impresa di trasformare una persona viva in un personaggio lega la mano di chi scrive. Questo avviene perché tale impresa, anche quando è condotta con le intenzioni migliori e su una persona stimata ed amata, sfiora la violenza privata, e non è mai indolore per chi ne è l’oggetto. Ciascuno di noi si costruisce, consapevolmente o no, un’immagine di se stesso, ma essa è fatalmente diversa da quella, o meglio da quelle, a loro volta diverse, che vengono costruite da chi ci avvicina, e trovarsi ritratti in un libro con lineamenti che non sono quelli che ci attribuiamo è traumatico […] Per questo motivo, e per altri più ovvi, è buona norma non scrivere biografie di viventi. [L 283]

64

Per Levi scrivere di personaggi basati su persone realmente esistenti è più facile ma meno appassionante proprio per le implicazioni che questo può avere: «E se è più facile, perché meno felice? Perché la resa e la tenuta debbono rispondere non solo all’esigenza immaginativa di un lettore, ma anche alle rivendicazioni del modello esistente, che potrebbe sempre reclamare un tradimento della propria ‘autenticità’»114. Si capisce

dunque che alcuni personaggi del Sistema periodico non abbiano nome (l’assistente, il tenente, il professor P.) e come altri abbiano invece un nome fittizio (Giulia Vineis, l’operaio Lanza, il dottor Múller). Questo non basta a mettere al riparo l’autore: «Una mia carissima amica, a cui ho cambiato nome, è descritta nel racconto “Fosforo” […] io le ho mandato il manoscritto prima di pubblicarlo perché volevo avere il permesso da lei di poter scrivere in questo modo e lei me lo ha dato […] però mi sono accorto benissimo che l’immagine che davo di lei non era quella che dava di se stessa»115.

L’omissione o la differente onomastica attribuita ai personaggi non costituisce di per sé finzione. Tuttavia gli arrotondamenti del testo non si limitano a questo. Levi talvolta interviene anche su alcuni dettagli minori dei personaggi con lo scopo di adattarli meglio al testo. È il caso di Sandro Delmastro. Levi restituisce del suo amico un’immagine umile: «Veniva a lezione con logori calzoni di velluto alla zuava, calzettoni di lana greggia […] camminava col passo lungo e lento del contadino» [SP 890]; umile è anche l’occupazione che Sandro svolge in estate: «il pastore di pecore, e non per retorica arcadica né per stramberia, ma con felicità, par amore della terra e dell’erba, e per abbondanza di cuore». [SP 890]. L’interesse di Levi è di rendere più forte il legame spontaneo di Sandro con la montagna, con la roccia e anche con il ferro. Per questo Sandro viene anche descritto come discendente di magnini e fabbri, per adattarsi meglio alla simmetria tra lui e il ferro costruita nel racconto. Questa trasfigurazione (per altro solo parziale) costò a Levi una scenata da parte dei familiari di Delmastro dopo l’uscita del libro: «ho ricevuto una telefonata da un nipote di Sandro Delmastro, che […] mi ha rimproverato, mi ha detto: - Sandro non era così, era fatto in modo diverso da come lo descrive, non era figlio di un capomastro, era figlio di un imprenditore, non è vero che fosse un uomo così semplice»116. Benché quello di Levi fosse un omaggio positivo e felice alla memoria di Sandro, la sua famiglia pretese le scuse di Levi per l’insinuazione che il loro familiare fosse stato un contadino, con tutte le connotazioni negative implicite

114 DEL GIUDICE 2016, p. XIX

115 COSTANTINI e TOGNI 1986, p. 768. 116 Ibidem.

65

nel termine. Un fatto simile accadde anche per il personaggio di Alberto descritto in

Cerio. Levi non venne mai a sapere che la famiglia Dalla Volta non aveva affatto gradito

il finale del racconto117. Cerio si conclude infatti con un riferimento ad un «compaesano, mezzo visionario, mezzo imbroglione» di Alberto che in cambio di soldi portava alla madre notizie false e consolatorie sul figlio. Il fratello di Alberto, Paolo Dalla Volta, commenta così l’episodio a Thomson: «Potremmo anche definirla licenza poetica, anche se in realtà questa è appannaggio dei poeti, non di scrittori come Levi che trattano i fatti»118. Le parole di Paolo Dalla Volta esprimono perfettamente il problema: Levi nell’immaginario comune è un testimone che tratta i fatti non uno scrittore che può ricorrere alla finzione letteraria dove lo desideri o lo ritenga necessario per fini letterari. Anche per questo le sue licenze vengono percepite malamente da coloro che le riscontrano. Non solo gli individui non si riconoscono nei personaggi, o non riconoscono in essi i propri cari, ma ogni deviazione rispetto ai fatti viene percepita come un vero e proprio tradimento alla memoria.

Il caso più emblematico, per le alterazioni che Levi opera nella vicenda, è contenuto nel capitolo Vanadio. La vicenda del carteggio tra Levi e il dottor Muller descritta nel capitolo è un misto perfetto di verità e finzione. Se infatti il lettore non conosce già la vicenda per come si è svolta veramente, non si accorge affatto delle alterazioni praticate: «com’è capitato in altri libri di Levi, lo scrittore ha “arrotondato” il racconto […] Il motivo […] la ricerca di una narrazione efficace e semplificata, e perciò letterariamente funzionale»119. Il dottor Müller del racconto è esistito veramente e si chiamava Ferdinand Meyer, un tedesco che Levi incontrò nel laboratorio chimico di Auschwitz nel 1944, poco prima dell’evacuazione del campo. Meyer, mosso da compassione per lo stato in cui Levi si trovava, gli procurò un buono per radersi dal barbiere due volte a settimana e gli diede un paio di scarpe per sostituire gli zoccoli di legno120. Dopo l’evacuazione del campo, Levi non seppe più nulla di Meyer fino al 1966 quando iniziò la corrispondenza con Hety Schmitt-Maass, una tedesca di mezza età che viveva e lavorava a Wiesbaden. Il Desiderio di Hety era quello di comprendere la Germania nazista e tenere in contatto i sopravvissuti allo sterminio, gestendo una rete epistolare molto ampia. La donna era anche la ex moglie di un chimico della IG Farben, l’industria chimica che ad Auschwitz si occupava del

117 THOMSON 2017, p. 514 – 515. 118 Ibidem.

119 BELPOLITI 2015, p. 263. 120 THOMSON 2017, pp. 274 – 275.

66

lavoro nel campo della Buna. Grazie a questa coincidenza Levi poté sapere della sorte di alcuni dipendenti del reparto di polimerizzazione: i dottori Panwitz e Probst, Hagen e l’ingegner Meyer. Fu Hety Scmitt-Maass ad inviare, su richiesta di Levi, una copia di Se

questo è un uomo a Ferdinand Meyer con annesso l’indirizzo dell’autore. La prima lettera

di Meyer a Levi è del 2 marzo 1967 e i contatti, epistolari e telefonici, tra i due proseguirono fino alla morte improvvisa di Meyer il 13 dicembre 1967121. L’interesse di Levi, come ha scritto anche in Vanadio, era quello di potersi confrontare con uno dei carnefici di Auschwitz: «ritrovarmi da uomo a uomo, a fare i conti con uno degli “altri” era stato il mio desiderio più vivo e permanente del dopo-Lager […] solo per ristabilire le misure, e dire “dunque?”» [SP 1019]. Meyer in questo non era affatto rappresentativo perché si era comportato «particolarmente bene» nei confronti dei prigionieri ebrei, mostrando più volte gentilezza, specialmente nei confronti di Levi. Restava comunque uno di quei tedeschi che si era compromesso e quindi il confronto era quantomeno necessario. Ciò che la corrispondenza evidenziò era il bisogno da parte di Meyer del perdono di Levi: dalle lettere è evidente come Meyer si fosse costruito delle illusioni di comodo in cui credere per poter andare oltre Auschwitz (ad esempio quella di considerare la soluzione finale un mascheramento per proteggere gli ebrei presenti nei campi invece che un odine di esecuzione di massa). Lo stesso Levi riconobbe però come Meyer pur non essendo «particolarmente coraggioso» fosse anche «sostanzialmente incontaminato dal flagello del nazismo». Levi non lo condannava per la sua compromissione, anzi provava una certa simpatia per quell’uomo che gli aveva fatto avere un paio di scarpe122.

A Hety scrive in proposito: «è un uomo onesto, cordiale, fondamentalmente di buon cuore […] da un uomo simile non ci si può aspettare una resistenza attiva né un sabotaggio; in fondo non tutti nascono eroi»123. Levi tuttavia si mostrò sempre reticente ad incontrare Meyer di persona che pure premeva per questo. L’incontro, concordato dopo molte insistenze, non avvenne mai per la prematura morte del dottor Meyer, lasciando il confronto tra i due a metà. Questi i fatti come si svolsero realmente e svelano come parte del capitolo Vanadio sia completamente finzionale e l’altra arrotondata. La parte finzionale corrisponde all’incipit del racconto: la ditta in cui Levi lavora è alle prese con una resina per vernici che non solidifica e si ritrova a dover notificare il malfunzionamento della resina al fornitore, la W., nata dallo smantellamento della IG

121 Ivi, pp. 439 – 462. 122 Ibidem.

67

Farben. Il personaggio Levi si ritrova così a corrispondere con il Doktor L. Müller per risolvere il problema: la vernice torna ad essiccarsi se addizionata con una quantità minima di naftenato di vanadio. Ed ecco il colpo di scena:

Mi ritornò sott’occhio una particolarità dell’ultima lettera che mi era sfuggita: non era un errore di battitura, era ripetuto due volte, stava proprio scritto «naptenat», non «naphthenat» come avrebbe dovuto […] ebbene, anche quell’altro Müller, in un non dimenticato laboratorio pieno di gelo, di speranza e di spavento, diceva «beta- Naptylamin» anziché «beta-Naphthylamin». [SP 1017-18]

Dunque diversamente da quanto accaduto nella realtà, nel racconto è Levi stesso a rintracciare il dottor Meyer/Müller e a spedirgli la copia del romanzo, non Hety Schmitt- Maass che viene completamente estromessa. I motivi sono principalmente tre: non coinvolgere la donna nel racconto124, lasciando così privata la loro corrispondenza;

adattare l’episodio alla cornice mendeleeviana del Sistema periodico, aggiungendo l’elemento chimico di riferimento; inserire l’episodio nella serie di eventi che possono accadere nel mestiere di chimico e grazie alla chimica. L’episodio dell’incontro con l’«altro» è cruciale per Levi, non poteva non far parte dell’autobiografia chimica che è il

Sistema periodico, ma come ogni testo anche questo doveva entrare a far parte della

struttura sotto ogni punto di vista. È qui che interviene la finzione, l’invenzione di un incipit che funziona anche da un punto di vista letterario, perché ricorda gli intrighi di un poliziesco in cui la somma degli indizi conduce al colpevole. Meyer però non è un vero colpevole, ma il dottor Müller? «Se questo Müller era il mio Müller, non era l’antagonista perfetto, perché in qualche modo, forse solo per un momento, aveva avuto pietà, o anche solo un rudimento di solidarietà professionale» [SP 1019]. Non un carnefice dunque, ma nemmeno l’uomo di buon cuore di cui Levi scriveva a Hety. Ad essere trasfigurato è dunque Meyer che nel suo personaggio Müller risulta essere molto più sgradevole, un ex nazista ambiguo che non sembra provare nessuna vergogna per il proprio passato, desideroso solo di essere assolto. La stessa Hety si stupì della trasformazione subita da Meyer e fu Levi a spiegarle che «pensava sarebbe stato più efficace, “sminuire” le qualità positive di Meyer e trasformarlo nel prototipo del tedesco borghese, privato dell’ossatura morale dal regime hitleriano»125. Meyer non rappresentava il prototipo del carnefice e

quindi neanche il suo alter ego avrebbe potuto esserlo. Müller però poteva approssimarsi

124 BELPOLITI 2015, p. 265. 125 THOMSON 2017, p. 515.

68

allo stereotipo del tedesco che tenta con ogni mezzo, anche facendo violenza alla memoria, di redimersi dal proprio passato nazista:

Nella sua prima lettera aveva parlato di «superamento del passato», «Bewältigung der Vergangenheit» […] la radice «walt» che vi è contenuta compare anche in parole che dicono «dominio», «violenza» e «stupro», e credo che traducendo l’espressione con «distorsione del passato» o «violenza fatta al passato» non, si andrebbe molto lontano dal suo senso profondo. [SP 1024]

Meyer scrisse a Levi di voler raggiungere un «Bewältigung» nella sua prima lettera. I contenuti delle lettere che l’autore riassume attraverso la sua parola in Vanadio sono dunque veri, ma l’immagine che lasciano trasparire del loro mittente è molto più fredda, più appiattita, rispetto alla persona che Meyer era realmente. L’interesse di Levi in

Vanadio non era quello di riportare fedelmente la sua corrispondenza con Meyer e

restituirne un’immagine, ma riproporre un confronto ideale nei limiti del possibile. Non ha rilevanza che parte del racconto sia finzionale o che Müller non corrisponda esattamente a Meyer. Müller non è Meyer, anche se le loro vicende sono pressoché identiche. Levi adopera un procedimento inverso rispetto a quanto fatto con Sandro e Alberto: in quei casi si trattava di restituire alla memoria il ricordo più fedele possibile di due sommersi a lui molto cari. In Vanadio invece non c’è la volontà di descrivere Meyer per consegnarlo alla memoria dei posteri, piuttosto di usare la sua esperienza come un caso esemplare. Per questa trasformazione Levi rischiò un’azione legale: infatti la vedova di Meyer era decisa a denunciare l’autore per diffamazione, dopo aver letto Vanadio nel giornale tedesco “Die Zeit”. Fortunatamente il figlio la dissuase e Levi non venne mai a sapere nulla126.

Un racconto come Vanadio, in cui realtà autobiografica e finzione si mescolano a tal punto da non poter essere più districate se non conoscendo esattamente i fatti, potrebbe far pensare ad un caso di autofiction, ma non è così. Manca totalmente in Levi la volontà di seminare il dubbio nel lettore se ciò che sta leggendo sia vero oppure falso. Dove ricorre alla finzione Levi la amalgama talmente bene che il lettore non ha modo di capire che i fatti siano stati alterati. Né Levi dichiara apertamente che esistano delle alterazioni. Semplicemente per Levi il «problema della finzione» non si pone: gli aggiustamenti apportati non stravolgono mai gli eventi, non ne modificano il risultato (nel caso di Meyer-Müller l’incontro, desiderato e temuto, non è comunque avvenuto), si muovono

69

semplicemente verso un orizzonte più ampio di verità. Il caso di Meyer è esemplare: Levi esaspera alcuni aspetti ambigui di Meyer, tralasciando quelli positivi e crea il dottor Müller, antagonista quasi ideale, ma che va incontro alla stessa sorte del suo referente, troncando ogni possibilità di confronto diretto, com’è effettivamente avvenuto. Un passo tratto da Vanadio è emblematico del modo in cui Levi giochi con la finzione:

Quasi simultaneamente, mi giunse a casa la lettera che attendevo: ma non era come la attendevo. Non era una lettera modello, da paradigma: a questo punto, se questa storia fosse inventata, avrei potuto introdurre solo due tipi di lettera; una lettera umile, calda, cristiana, di tedesco redento; una ribalda, superba, glaciale di nazista pervicace. Ora questa storia non è inventata e la realtà è sempre più complessa dell’invenzione: meno pettinata, più ruvida, meno rotonda. È raro che giaccia in un piano. [SP 1021]

Levi rivendica l’autenticità della storia che sta raccontando su un presupposto chiaro. L’invenzione semplifica, se la storia da lui narrata fosse stata inventata adesso si troverebbe di fronte o una persona buona, o una persona malvagia, bianco o nero. Invece la persona che si trova davanti è grigia, non può essere giudicata né buona, né malvagia, la sua identità si muove su due piani diversi e intersecati: «non era l’antagonista perfetto, ma, come è noto, la perfezione è delle vicende che si raccontano, non di quelle che si vivono» [SP 1019]. Questo dignifica però che Levi considera la storia nel suo complesso vera, nonostante gli elementi finzionali da lui inseriti, che la finzione non mina la verità di quello che l’autore sta dicendo.

Una rivendicazione del tutto simile si ritrova anche nel capitolo Carbonio. Levi immagina le innumerevoli trasformazioni cui può andare incontro un atomo di carbonio nel suo costruire legami con altri elementi. Si tratta di una storia che potrebbe andare avanti all’infinito se l’autore non decidesse di interromperla a sua discrezione. L’odissea dell’atomo di carbonio descritta da Levi è frutto dell’immaginazione, ma non è frutto di mera invenzione:

Si può dimostrare che questa storia, del tutto arbitraria, è tuttavia vera. Potrei raccontare innumerevoli storie diverse, e sarebbero tutte vere: tutte letteralmente vere, nella natura dei trapassi, nel loro ordine e nella loro data. Il numero degli atomi è tanto grande che se ne troverebbe sempre uno la cui storia coincida con una qualsiasi storia inventata a capriccio. Potrei raccontare storie a non finire […] ne racconterò invece soltanto ancora una, la più segreta, e la racconterò con l’umiltà e il ritegno di chi sa fin dall’inizio che il suo tema è disperato, i mezzi fievoli, e il mestiere di rivestire i fatti con parole fallimentare per la sua profonda essenza [SP 1032].

70

La finzione del capitolo si gioca nella scelta, arbitraria, che l’autore fa delle diverse incarnazioni del carbonio. Non è infatti possibile ricostruire le vicissitudini di un singolo atomo, ma solamente descrivere il modo in cui reagisce chimicamente in determinate circostanze (come ad esempio la fotosintesi). La storia che Levi racconta sul suo atomo di carbonio è però possibile e plausibile per la legge dei grandi numeri. È un fatto che gli atomi di carbonio nella materia siano innumerevoli ed è un fatto che essi mutino condizione nel tempo. La storia inventata da Levi ha dunque buone possibilità di essere vera in tutto e per tutto, anche se sembra soltanto un cumulo di parole. Un perfetto equilibrio di verità e finzione si ha invece in Argon nella descrizione che Levi rende dei suoi antenati piemontesi. Argon è «quasi un ex voto. Cioè si tratta di un voto sciolto, il voto di non buttar via […] questo piccolo armadietto di Lari e di Penati, storti, buffi, goffi, patetici, ma vivi, a modo loro, di una loro vita […] che era un peccato lasciar deperire»127

I barba e le magne che Levi mette in scena hanno solamente in parte una corrispondenza con i parenti effettivi dell’autore: «io ho raccolto tutta la storia, o la leggenda, o mito, così come me l’avevano raccontata […] è chiaro che l’articolazione di queste storie è